Verbum – Analecta Neolatina XXIV, 2023/1

ISSN 1588-4309; https://doi.org/10.59533/Verb.2023.24.1.7



Attamen ego dearum tuarum non resero thalamos, nec deorum tuorum secessus aperio, quasi velim illecebras eorum magis ex propinquo conspicere, sed ut appareat poetas, si bene de Deo sensissent, homines fuisse preclaros et ob mirabile artificium venerandos; et ut videas quanti pendam hos tuos fabulosos deos […] precem faciam. Ipsi ergo omnes, quorum tu me hortaris iram fugere, michi irati sint queso, tibi autem illisque et tam inepta credentibus Christus Ihesus.

Con queste parole Boccaccio risponde, nel proemio del terzo libro della sua imponente opera mitologica, al filosofo pagano Numenio che lo aveva ammonito di non svelare i misteri degli dèi, dicendo che non è lecito farlo, anche per evitare l’ira degli abitatori divini degli Inferi.1

Prima di discendere con Boccaccio verso gli abitanti dell’impero di Plutone, dobbiamo dedicare un po’ di tempo al passo sopraccitato. Boccaccio assicura il filosofo che non ha intenzione di rompere senza motivo la pace degli dèi nel loro nascondiglio, ma far vedere come i poeti pagani siano preclari e onorabili per il loro mestiere; più precisamente, per usare le sue parole, per la loro arte mirabile.

In quest’articolo vorrei evidenziare una sorta di lotta interna di Boccaccio, il suo tentativo di trovare equilibrio tra due mondi: quello della tradizione medievale e quello dell’incipiente Umanesimo. Detto altrimenti, vorrei sottolineare la dialettica di cui è innervata la Genealogia2 tra enciclopedismo tradizionale e primi tentativi di, se possiamo chiamarla così, esegesi delle fonti (o almeno un accenno di tentativo di bonifica); ma anche, nell’approccio alla mitologia in quanto tale, tra consueto moralismo cristiano, che ritiene le storie mitologiche in sé ridicole e da respingere, e ammirazione per i poeti che hanno descritto queste cose ridicole. Ammirazione per la loro arte mirabile, e per la capacità di nascondere sotto la forma della fabula significati più profondi; in questo potendo avvalersi del prestigioso precedente dantesco.

Tale ambiguità si chiarisce già dalle parole del Proemio: dove trattando il metodo dei poeti, volendo far capire la vastità del compito a cui si accinge, Boccaccio chiede al re di Cipro3 (che gli aveva commissionato l’opera) di considerare anche il tempo richiesto a esporre “quid sub ridiculo cortice fabularum abscondissent prudentes viri”,4 cioè cosa gli uomini saggi hanno nascosto sotto la corteccia ridicola delle favole. Similmente, se ritorniamo alle righe indirizzate a Numenio,5 possiamo osservare tutti e due i caratteri: sia il rispetto verso i poeti, (e anche verso il filosofo: “grandevus senex, vir quidem suo seculo autoritatis inclite”6), sia la fede profonda dell’autore, a cui fa molte volte riferimento nella sua opera: è sufficente ricordare anche solo l’invocazione o almeno un riferimento a Cristo, che non può mancare dall’inizio di ognuno dei quindici libri della Genealogia.7

Per chiarire il mio pensiero ho scelto alcune storie mitologiche, accomunate dal fatto di essere riferite a persone famigerate e punite per il loro comportamento. Per quanto riguarda la struttura delle storie, possiamo usare di nuovo come punto di riferimento le parole dello stesso Boccaccio nel Proemio. Prima – dice Boccaccio al re – descriverà la storia secondo le fonti antiche, e poi, se è necessario, ne aggiungerà una spiegazione; ma quando si renderà conto che non sarà capace di farlo con le proprie parole, citerà autori più intelligenti di lui, che possono essere anche pagani, non necessariamente cristiani. (Vale la pena di non dimenticare le sue parole quanto ai poeti, che sono degni di ogni rispetto per la loro arte, indipendentemente dalla religione da loro professata.8)

Dal terzo capitolo del Proemio possiamo ricavare dettagli ancora più concreti, allorché parlando del metodo Boccaccio chiarisce che, per quanto riguarda le interpretazioni si avvarrà della tipologia imparata da Dante,9 cioé si servirà accanto al significato letterale della storia delle spiegazioni allegoriche, morali e anagogiche. Nel nostro caso (trattando i vizi umani) probabilmente e logicamente il tipo preferito dell’autore sarebbe la spiegazione morale; qualche volta però, come vedremo più avanti, Boccaccio può sorprendere il suo lettore con un’ altra soluzione.10

Cominciamo con alcuni abitanti famosi del Tartaro:

“Filie Danai fratricide propriis fere nominibus incognite”11 – troviamo all’inizio del capitolo, che narra la storia delle 50 figlie di re Danao.12 A prima vista l’uso della parola fratricida appare un po’ strano: non soltanto perché non è molto frequente né presso gli autori antichi, né presso quelli ecclesiastici;13 si potrebbe addirittura pensare che qui sia usata a sproposito.

Se leggiamo i capitoli seguenti, in cui Boccaccio scrive singolarmente delle figlie indicate per nome,14 diventa chiaro che non si tratta di questo. All’inizio del capitolo su Ipermestra infatti si legge che “sola ex quinquaginta sororibus, neglecto patris imperio, Lynceo viro suo pepercit”.15 Così possiamo già constatare il fatto che pure secondo il Boccaccio i mariti novelli sono stati uccisi alle nozze. Neanche questo fornisce una spiegazione soddisfacente all’uso della parola fratricida, anche se i mariti, come sappiamo, erano figli del fratello di Danao, cioè cugini delle Danaidi. È vero che in Ovidio nella lettera scritta da Ipermestra a Linceo si trova la parola frater, ma non in riferimento al rapporto coniugale, ma a quello che lega i cinquanta fratelli.16 Può darsi che Boccaccio abbia pensato che l’uccisione di un parente sia un delitto più grave che quello di un marito.

Riprendendo il filo delle pene, secondo l’opinione di Boccaccio (che l’autore riassume alla fine di ciascun capitolo) il vano trasportare dell’acqua simboleggia le donne, che tentando di accrescere con grande studio e fatica la loro bellezza, finiscono in realtà per imbruttirsi, vittime della loro stesa vanità. L’altro esempio morale è la figura dell’uomo, che mentre cerca sempre il diletto dei sensi, diventa sempre più vuoto, come l’urna forata delle figlie assassine.

Nel caso di Tantalo,17 prima di soffermarsi sulla conclusione didascalica di Boccaccio (relativa al vizio e al suo meritato castigo), vale la pena di concedersi una digressione a proposito della effettiva identità del personaggio mitologico; che da una parte illustra la minuziosità del Boccaccio, dall’altra mette a nudo la difficoltà e la contraddittorietà del compito di raccogliere tutto lo scibile dalla mitologia.

Nell’opera appare due volte il nome Tantalo. La prima volta nel libro V,18 in un capitolo di non più di poche righe, ma particolarmente interessante per il nostro discorso. Qui si tratta di un re che governò nel tempo mitologico la città di Corinto. È figlio di Giove, ma – come scrive anche il nostro autore indicando come fonte Leonzio19 – non il padre di Pelope, bensì un altro Tantalo, che fu “pius homo, atque deorum mensibus sepe accubuit”.20 La persona in questione non può evidentemente essere il re di Sipilo, che a nessuno verrebbe in mente di considerare pius homo. Ma raggiungendo questo punto ci scontriamo con due problemi. Il primo: chi sia quell’uomo onesto, perché le mitologie parlano soltanto di due persone di nome Tantalo: quello che per il suo peccato empio e orribile soffre di fame e sete nel Tartaro, e il di lui nipote.

Il Tantalo, che invitò gli dèi dell’Olimpo a cena e per metterli alla prova portò in tavola il proprio figlio, essendo prole di Giove e padre di Pelope è stato descritto nel libro XII.21 Lui, come figlio del sommo dio, spesso fu invitato alla tavola degli dèi d’Olimpo, ma Boccaccio non fa menzione di ciò. E questo è il secondo problema. Nel caso del Tantalo sconosciuto – come abbiamo visto sopra – si scrive che il pius homo spesso fu ospite alla tavola dei superi. Di lui non sappiamo quasi nient’altro. A dire la verità nel suo caso assolutamente non è un fatto importante ai fini dell’identificazione, che sia stato ospite degli dèi o no. Nel caso del padre di Pélope invece, sarebbe un elemento fondamentale, poiché questo secondo Tantalo commette il delitto più grave proprio durante un banchetto offerto agli dèi ricambiando l’ospitalità ricevuta in Olimpo.22 Non è lo scopo di questo articolo fare ordine nella moltiplicazione di personaggi omonimi. Il caso dei due Tantali si presta però particolarmente bene a esemplificare le difficoltà del vasto compito assunto da Boccaccio di allestire una sistematica enciclopedia mitologica e dell’intenzione di raccogliere tutto il possibile da ogni fonte a lui nota.

Ritornando al Tantalo di cui ci stiamo specificamente occupando: l’interpretazione moraleggiante Boccaccio la prende da Fulgenzio,23 secondo cui Tantalo incarna l’uomo avaro, che preferisce morire di fame e sete piuttosto che toccare i suoi beni.24

Nel capitolo dedicato a Sisifo,25 dopo una lunga introduzione in cui l’autore espone la problematica della genealogia dell’uomo forse più furbo e senza scrupoli (al punto da riuscire a ingannare anche gli dèi, e non una volta sola!), e dopo la narrazione della sua storia e dei suoi peccati, nella spiegazione Boccaccio cita Macrobio,26 che vede nel lavoro perenne la vita vana di certi uomini, piena di tentativi faticosi e inutili per alcuni, parassitaria per gli altri. Alle parole di Macrobio non aggiunge nulla: probabilmente ne accetta e trova sufficiente la spiegazione morale.

Nella parte che si occupa di Issione,27 dopo averne narrato la storia, Boccaccio offre una sua articolata interpretazione (in cui i personaggi simboleggiano elementi naturali), a cui ne segue una ulteriore, di tipo allegorico presa di nuovo da Macrobio, come già riguardo a Sisifo.28 Seguendo Macrobio, nella ruota continuamente in moto si configura la volontà della fortuna. Sono legati a questa ruota coloro che affidano la vita interamente alla sorte. Solo per esemplificare la minuziosità di Boccaccio, poniamo attenzione alla frase che segue l’interpretazione di Macrobio: essa contiene una spiegazione storica, che deriva da Fulgenzio (più precisamente dalla misteriosa Theogonia di Dromocride, citata da Fulgenzio), da cui si apprende che Issione ottenne per primo il regno della Grecia, e il suo esercito, i cento armati nella favola mitologica furono trasformati (basandosi sull’etimologia da ‘cento’) nei Centauri.29 Boccaccio in seguito aggiunge una precisazione, spiegando che Issione ʻstoricamente’ non poté essere il primo re della Grecia. Secondo lui l’autore (se si riferisce a Fulgenzio o al misterioso Dromocride, non risulta chiaro dalle sue parole) forse voleva dire che dopo l’epoca dei re Issione era stato il primo tiranno dei greci.

Questo esempio, per quanto minore, è molto adatto a far vedere di nuovo la lenticolare diligenza di Boccaccio, e non solo quella: si può affermare che egli non accetta a occhi chiusi neanche una fonte, la cui ascendenza pagana, cioè autenticamente classica, non è accertata.

Come abbiamo visto, l’Autore non lascia sfuggire alcuna occasione per offrire un’interpretazione morale, per educare o far riflettere il suo lettore. Da questi esempi diventa pure chiaro che Boccaccio ha una vigile attenzione morale, e reagisce con una particolare sensibilità alle debolezze umane e alle loro conseguenze. Infatti non solo descrive la storia del protagonista, ma della pena meritata fornisce anche una spiegazione, prendendo le mosse dalla sua propria concezione o dal commento di un autore cristiano o tardo antico.

La sua sensibilità si estende analogamente anche agli eroi che sono stati puniti da uno degli dèi a causa della superbia.30 La storia della trasformazione in lupo di Licaone, il re di Arcadia malvagio al di sopra di ogni immaginazione, che non rispettava né gli esseri umani né gli déi, fornisce materiale straordinariamente adatto per una interpretazione allegorica.31 Prima di avanzare interpretazioni vale la pena di elencare le fonti usate e accettate da Boccaccio: il nostro autore qui annota che secondo Teodonzio la figura in causa è un Titano, il che spiegherebbe il suo comportamento nei confronti degli dèi. Allo stesso tempo osserva che altre fonti non lo annoverano tra i Titani. Con tutto ciò Boccaccio sembra accettare l’affermazione di Teodonzio,32 almeno sembra così dal titolo e dalla collocazione del capitolo nel libro: “De Lycaone XIIIIo Tytanis filio, qui genuit Calystonem”.

Riprendendo il filo del capitolo: Boccaccio assume il racconto (come dice lui stesso, la fabula) da Ovidio, e lo espone partendo dalla riunione degli dėi fino alla metamorfosi di Licaone.33 Poi presenta anche la versione di Leonzio, una variante della storia privata degli elementi mitici, dove i protagonisti divini sono sostitutiti da uomini, secondo un processo di riduzione evemeristica. Gli Arcadi fanno guerra con gli abitanti di Epiro, e dopo una tregua, come segno della pace inviano a Licaone un ostaggio. Dopo la scadenza prestabilita si recano dal re per riscattare l’ostaggio e il re offre loro a pranzo la carne di questa persona. Licaone viene mandato in esilio per il suo delitto e fugge nel bosco dove vive rubando.

Poi Boccaccio riprende la parola in prima persona considerando l’elemento essenziale e paradossalmente reale della storia (la trasformazione in lupo), ma rigorosamente in senso allegorico. Vuol dire che quando nell’uomo prevale la volontà di possedere (in certi casi, come in questo, al punto di rubare), egli si trasforma in lupo e smette di agire da uomo: rimane lupo sotto sembianze umane, finché la brama lo tiene prigioniero. L’immagine del lupo viene probabilmente dall’Inferno di Dante.34 Dal nostro punto di vista tale evidenza sottolinea la devozione da parte di Boccaccio verso Dante, di cui era guida il pagano Virgilio. Per questo potremmo supporre che il poeta mantovano rivestisse particolare autorità, come fonte, agli occhi di Boccaccio. Ma, come si vede negli altri capitoli della Genealogia,35 le cose non stanno esattamente così: Virgilio è per Boccaccio una fonte antica tra le altre, ma non più autorevole o affidabile.

A questo punto, prima di procedere, vale la pena considerare per un attimo il modo con cui Boccaccio cita i singoli autori. Quando nel caso di Licaone per primo cita Ovidio come fonte, usa la parola fabula riferendosi alla storia presa dalla Metamorfosi.36 Alla spiegazione di Leonzio non aggiunge né osservazione né definizione, dal che si potrebbe evincere la sua posizione nei confronti dell’opinione dell’autore citato; ne trae solo una conclusione col fine didascalico.

Fornisce un altro esempio la storia di Semele, vittima della gelosia di Giunone.37 La fonte del racconto è fornita di nuovo da Ovidio,38 è a lui che Boccaccio si riferisce sia per la discendenza della principessa sia per la trama della storia, riconoscendo in qualche modo l’autorevolezza della fonte: “ut satis per Ovidium patet in maiori volumine”.39 Non attribuisce alla storia una spiegazione morale, solo un’osservazione allegorica (interpretazione fisica) che ne valuta il contenuto realistico. La mancanza della spiegazione morale può stupire, siccome si può facilmente rimproverare a Semele la sua credulità da un lato e la sua arditezza dall’altro. Ci vuole infatti un coraggio assai grande per dubitare della parola di un dio, soprattutto considerando il fatto che non poteva esserci un mortale che osasse abusare del nome di un abitante dell’Olimpo.40 Ciò vuol dire che in Semele primariamente non poteva sorgere nemmeno il dubbio che il suo amante non fosse chi diceva di essere. Naturalmente a far sorgere il dubbio ebbe un ruolo notevole anche l’astuzia di Giunone, e in questo caso Semele in fin dei conti risulta innocente e la responsabilità della sua morte ricade su Giunone. Tale conclusione non viene tratta da Boccaccio. Difficile dire il perché di tale reticenza: non essendo peraltro un caso isolato di mancanza della spiegazione morale, dove invece la aspetteremmo secondo logica, si può forse cautamente ipotizzare che ripugni a Boccaccio sottolineare la malignità e malvagità di chi è pur sempre una rappresentante della divinità. (Un atteggiamento simile potremo ancora osservare negli altri abitanti dell’Olimpo, ad esempio nel caso di Atteone, che muore innocente, o similmente nel caso di Penteo, che si oppose al culto di Bacco in Tebe, e per questo finì lacerato dalle mani della sua stessa madre.) La decisione di Boccaccio di non accompagnare tali episodi con spiegazioni può essere motivata da un certo rispetto degli esseri soprannaturali compresi i malvagi; ma risulterebbe allora poco comprensibile che nella interpretazione allegorica aggiunta alla storia di Semele Boccaccio ripeta ancora che si tratti di un figmentum, cioè poesia, immagine poetica. Il contenuto realistico è offerto secondo lui dall’ interpretazione fisica, dalla donna incinta colpita dal fulmine: il fuoco (Giove) non si mescola all’aria (Giunone) se non in forma di fulmine che colpisce dal cielo.41

È sorprendente che valga lo stesso anche per la storia di Niobe, la regina di Tebe, la quale contrariamente a Semele si era macchiata di superbia.42 A ulteriore conferma della propria scrupolosità, accanto alla versione secondo cui Niobe aveva 14 figli, Boccaccio ricorda che secondo Omero Niobe ne aveva dodici.43 L’insegnamento morale invece manca (sorprendentemente, essendovi molto materiale da attingere dalla storia della regina superba che trattò con spregio gli dèi), vi sono solo alcune note di commento al testo a proposito di Sipilo (luogo di nascita di Niobe). Secondo la mitologia il vento avrebbe riportato qui la regina trasformata in roccia, che secondo la tradizione lagrimava. A questo punto Boccaccio fa riferimento a Cicerone e a Teodonzio: il primo dice che non escono lacrime dalla roccia, e il secondo spiega il fenomeno con cause naturali. Nient’altro viene però aggiunto da Boccaccio a tale racconto. Certamente non perché Boccaccio non sentisse la gravità del peccato: alla regina conferisce l’attributo superba.44 È molto più probabile che il peccato di Niobe venga considerato un delitto inaudito che non ha bisogno di nessun commento – il lettore sarà in grado di ricavare una lezione morale dal racconto stesso.45

Finora abbiamo potuto quindi vedere che Boccaccio è fortemente impressionato dagli errori e dalle manchevolezze umani, e per loro tramite cerca di istruire i suoi lettori entro i limiti del possibile. La forma di tale istruzione consiste in generale in una chiara spiegazione morale, riferita al comportamento umano (ad esempio il caso di Issione, Sisifo o Licaone). Se Boccaccio non trova una spiegazione morale, ne dà un’altra allegorica.

Da quanto sopra esposto appare del tutto incomprensibile che Boccaccio lasci senza commento una storia dove, in maniera eccezionale, l’errore non è dalla parte dell’uomo bensì dalla parte di una dea. Il racconto della storia del famoso cacciatore Atteone inizia come di consueto,46 trattando del nome e delle diverse origini che è possibile ricostruire. A questo punto entra in gioco la discussione delle fonti e si accenna al fatto che Atteone fu chiamato secondo molti anche Ianteo.

La storia, brevemente raccontata, è stupefacente e del tutto incomprensibile. La dea che aveva colpito con frecce i 14 figli di Niobe perché quest’ultima aveva offeso sua madre, la dea che aveva voluto richiamare in vita Orione che nel primo impeto della sua ira aveva ucciso, doveva preferire anche per la sua attività il cacciatore che le offriva sicuramente il dovuto sacrificio dopo la caccia. Come poteva Diana agire in maniera così crudele contro Atteone, il quale non aveva altra colpa, se non di averla sorpresa involontariamente in una grotta mentre si bagnava in compagnia delle sue ninfe?

Boccaccio lascia la storia senza commento: atteggiamento (almeno nel caso delle storie che trattano i vizi e i viziosi) inusuale da parte sua. In base ai precedenti ci si aspetterebbe una spiegazione, dal momento che anche in casi molto meno complicati non aveva tralasciato qualche commento allegorico. Forse perché anche gli autori antichi non avevano aggiunto una spiegazione al caso? Ciò varrebbe anche per altri eventi sopraelencati, dove Boccaccio al contrario non si faceva scrupolo di presentare un’interpretazione tutta sua al lettore. Si potrebbe considerare un’altra possibilità: che non abbia affatto avvertito il problema. Questo sarebbe praticamente inconcepibile: prima per via della sua sensibilità morale, che abbiamo già visto ripetutamente, e poi per un’altra ragione anche più semplice. Se egli avesse letto la versione di Ovidio (e sappiamo che lo aveva letto, poiché lo cita parlando del nome Ianteo),47 non poteva non accorgersi dell’osservazione del poeta che si trova qualche verso più in là: “at bene si quaeras, fortunae crimen in illo, / non scelus invenies: quod enim scelus error habebat”.48 Se è probabile quindi che Boccaccio abbia letto la storia in Ovidio, è difficile suppore che abbia saltato questi due versi.49 Inoltre afferma lui stesso che Atteone era privo di ogni intenzione colpevole, quando dice: “et ad eum [cioè nel vallo] forte potaturus accederet”.50 Quindi, anche senza considerare i due versi di Ovidio, risulta chiaro che Boccaccio era cosciente dell’innocenza di Atteone.

Sussiste certamente la possibilità che Boccaccio non intendesse affermare la colpevolezza di Diana. Un esempio simile l’abbiamo già visto nel caso di Semele, dove – sebbene in modo indiretto e non così palesemente – la morte della principessa gravava sulla coscienza di Giunone. Questo comportamento dell’autore potrebbe significare un rispetto istintivo nei confronti di ogni ente soprannaturale, ancorché privo di esistenza reale ai suoi occhi di cristiano. Abbiamo incontrato più volte sopra questa attitudine oltremodo rispettosa verso gli dèi; tuttavia, se le storie non sono che figmentum, fabula,51 anche questa lettura viene posta in dubbio. E a questo punto si può porre la domanda: se Boccaccio tratta le storie del mondo mitologico come non reali, perché mai deve trattare con così vistosa delicatezza gli dèi non reali di quello stesso mondo? Forse perché rispetta comunque le figure soprannaturali della cultura di un mondo antico? O forse per insegnare ai lettori a rispettare le cose supreme, soprannaturali in generale, anche se esse, secondo la sua concezione personale, non sono mai esistite? Non sapremo mai il motivo. Ma ci dà da pensare la tensione che, a nostro avviso, si coglie tra il tema dell’opera e il mondo interno del nostro autore.

Tornando alla storia di Atteone: in questo caso aspettiamo inutilmente anche le spiegazioni allegoriche prese da altri autori. Fa riferimento a Fulgenzio, ma scrive soltanto che secondo lui52 Atteone, con l’avanzare degli anni, riconosciuti i pericoli del suo mestiere, cessò di praticare la caccia, ma non volle abbandonare i suoi cani, e per nutrirli, perse quasi tutti suoi beni. Per questo si dice, che i suoi stessi cani lo avrebbero sbranato. Non troviamo ulteriori commenti, e l’ultima frase chiude il racconto in maniera insolitamente brusca. Il lettore può avere quasi la sensazione che si volesse tagliare corto sulle eventuali domande che avrebbero potuto sorgere.53

Possiamo dire cose analoghe anche sulla storia di Penteo, il principe di Tebe. A lui Boccaccio non dedica un capitolo a sé, vi fa menzione solo nel capitolo che tratta di sua madre, Agave.54

Le due storie – quella di Atteone e quella di Penteo – si assomigliano in maniera inquietante. Atteone che viola casualmente l’intimità della dea, e a Penteo – il quale senza dubbio, anche secondo Boccaccio, era colpevole nel rigettare il culto di Dioniso55 – forse non si può rimproverare il fatto che volesse vietare i baccanali, dove le baccanti in delirio dilaniavano bambini, e considerasse indegno vedere la propria madre seminuda in preda al delirio. Anche la loro punizione meritata o immeritata era simile: entrambi sono stati sbranati, Atteone dai suoi stessi cani che lo amavano e che amava anche lui, Penteo dalla madre stessa.

Per quanto riguarda il comportamento di Penteo, probabilmente anche Boccaccio ne percepiva l’ambiguità (se cioè era un giovane che disprezzava gli dèi ovvero un principe che difendeva la propria città). Proprio questo suggerisce l’osservazione secondo cui Penteo era un giovane elati animi,56 siccome il termine può significare sia uomo di anima elevata sia superbo. Secondo la tragedia di Euripide era un giovane superbo e invaghito dal proprio potere. Indiscutibile è invece che il re volesse ostacolare il culto orgiastico che turbava l’ordine della città, peraltro contro il monito dei vecchi di Tebe e ribellandosi ad un dio. Per questo il suo comportamento non rivelerebbe al di sopra di ogni dubbio un principe sobrio e saggio.57

Boccaccio non prende una posizione propria nemmeno in questo caso, e similmente a quanto fatto con la storia di Atteone non cerca nemmeno interpretazioni allegoriche presso altri autori. Descrive il giudizio di Leonzio a proposito della storia, il quale dice che Penteo era in verità un giovane sobrio e per questo sua madre e i compagni che erano in preda al delirio lo uccisero, siccome li biasimava spesso per via della loro ubriachezza.58 Oltre a raccontare questa variante, Boccaccio non aggiunge altri commenti alla storia. Eppure in questo caso avrebbe molte cose da dire: potrebbe condannare Penteo per la sua superbia oppure lodarlo per la sua sobrietà. Non lo fa nemmeno in questo luogo, forse per una specie di rispetto deferente nei confronti del dio. Ma prima di trarre una conclusione frettolosa, non possiamo dimenticare le righe citate all’inizio del nostro articolo, che hanno una pallida sfumatura di ironia: “ut videas quanti pendam hos tuos fabulosos deos”.

Se ci avventuriamo a trarre delle conclusioni più ardite dalle storie sopra esaminate, possiamo arrivare all’esito che Boccaccio, pur citando una quantità sicuramente notevole di autori antichi, preferisce comunque gli scrittori tardo-antichi a quelli dell’età dell’oro. Sarebbe logico se potessimo dire che Boccaccio, secondo le esigenze di quella che si potrebbe quasi considerare una summa morale per fabula, si appoggiava più volentieri ad autori cristiani che a quelli pagani pur famosissimi e prestigiosi dell’età aurea.

Se però passiamo in rassegna gli autori citati nel commento delle singole storie, vediamo che tale ipotesi non risulta corretta. Macrobio, l’aristocratico neoplatonico del V secolo probabilmente una sola persona con il proconsole dell’Africa dell’anno 410, era pagano. L’africano Fulgenzio dal V secolo è stato uno scrittore di mitologie di vena moralizzante e allegorizzante. Il misterioso Teodonzio se davvero era lui, è stato un filosofo o mitografo campano collocato tra il secolo IX e XI. Tra gli autori degli esempi citati il solo Leonzio è sicuramente cristiano, allievo del monaco calabrese Barlaam. Questo criterio, almeno nelle storie analizzate, non sembra quindi influenzare Boccaccio nella scelta delle fonti ritenute autorevoli. Sta comunque di fatto che gli autori sopraccitati, seppure non cristiani, erano più vicini a Boccaccio almeno nel tempo, che non gli scrittori dell’epoca di Augusto. Che Boccaccio si sentisse più vicino ai primi, lo si vede in diversi esempi già citati, dal fatto che il racconto di Ovidio viene definito fabula, o dal fatto che nelle sue storie sopraccitate dopo un racconto minuzioso sulle tracce delle fonti antiche, alla fine Boccaccio prende la spiegazione quasi sempre dagli autori non dell’epoca d’oro, e nemmeno più in generale dall’antichità classica.59

Se accettiamo che Boccaccio preferiva gli autori cristiani, o quelli che erano comunque più vicini al cristianesimo, cioè anche a lui nel tempo, ci troviamo di fronte al problema che si delinea dallo stesso argomento dell’opera. Come abbiamo visto nel Proemio del libro primo, secondo l’opinione del Boccaccio la mitologia, che viene elaborata e commentata da lui, è ridicola.60 Nello stesso tempo la mitologia sta molto più vicino all’epoca e alla mentalità in cui scrivevano gli autori dell’età dell’oro, facendo questa componente parte integrante delle loro idee religiose. Quindi essi ne potevano dare un’immagine più autentica e potevano comprenderla meglio (essendo parte del loro mondo) rispetto agli autori cristiani o pagani del V secolo: dovremmo quindi considerarli sicuramente una fonte più attendibile. Da questo punto di vista potremmo trovare meno comprensibile o almeno incoerente il comportamento di Boccaccio, soprattutto se ripensiamo alla delicatezza con cui taceva gli eventuali errori degli abitanti dell’Olimpo nel raccontare le singole storie. Ma come abbiamo già detto alla fine della storia di Penteo, l’atteggiamento rispettoso del Boccaccio va inteso con cautela, tenendo presente che l’aggettivo fabulosi è introdotto in un contesto sfumatamente ironico a proposito degli dèi del filosofo pagano.61 Se non vediamo questa unica frase in contraddizione con la rilevata delicatezza, che abbiamo visto nelle storie di Atteone, di Semele, o di Penteo, possiamo concludere che Boccaccio tratta con rispetto istintivo ogni depositario del potere soprannaturale – ma allora a prima vista potremmo chiederci perché non tratti allo stesso modo gli altri elementi della mitologia, e perché non preferisce gli autori che vivono e ragionano ancora secondo la mitologia da lui studiata a quelli che, come lui, guardano a questo mondo come spettatori esterni. O forse si potrebbe pensare che le gesta degli dei, buone o cattive che siano, possono essere spiegate con l’evemerismo sul piano storico, mentre diventano imbarazzanti, quando malvagie, su quello morale, implicando l’esistenza del male anche nella sfera divina.

Una risposta la può dare la tensione tra due mondi che esistevano nello stesso tempo nel nostro autore.62 Boccaccio (come abbiamo potuto accertare nelle storie) con la sua minuziosità, con la conoscenza delle fonti antiche, della lingua latina e anche (in modo modesto) greca, con il rispetto istintivo nei confronti dei poeti e della poesia come mestiere, fu un precursore e non comune dell’Umanesimo. Un uomo con marcati caratteri cristiani, che nella Genealogia pare diverso dall’autore del Decameron, che termina la sua opera gigantesca con la frase indirizzata a Dio (“Non nobis, Domine, sed nomini tuo da gloriam”). Un uomo che non riesce a trovare l’intimo equilibrio tra il tema pagano che tratta con serietà e con evidente compiacimento, e la propria ritrovata ortodossia cristiana.

La novità della Genealogia consiste non nell’essere una enciclopedia mitologica, in quanto non è certo la prima di tale genere, ma nell’uso che vuole essere sistematico e per così dire scientifico di tutte le fonti disponibili.63 Boccaccio in molte cose rimane ancora figlio della propria epoca, ma già in non poche attitudini supera i caratteri di un uomo puramente medievale, e contribuisce a preparare il terreno per i futuri umanisti.

Un particolare e sentito ringraziamento a Zsuzsanna Acél e Armando Nuzzo, correlatori della mia tesi di dottorato, da cui il presente saggio trae origine, ai professori Patrizia Grimaldi Pizzorno, Lucia Battaglia Ricci e Carlo Delcorno per le preziose osservazioni, e gli utili consigli e correzioni avanzati in varie fasi dell’elaborazione del testo, e ai professori György Domokos ed Edoardo Villata per i loro generosi aiuti.

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  1. Per comprendere meglio il comportamento pieno di paura e di venerazione nei confronti degli inferi: basti ricordare le parole di Virgilio, quando chiede agli dèi infernali il permesso di descrivere il loro mondo: “Di quibus imperium est animarum, umbraeque silentes / et Chaos et Phlegeton loca nocte tacentia late, / sit mihi fas audita loqui, sit numine vestro / pandere res alta terra et caligine mersas” (Eneide VI. 264sgg).↩︎

  2. Un giudizio complessivo sull’opera (“capolavoro dell’erudizione di Boccaccio”, “lavoro imponente, che raccoglie e, soprattutto, ordina un numero enorme di informazioni sugli dèi e gli eroi antichi desunte dalle fonti piu disparate”) è offerto da M. Santagata: Boccaccio. Fragilità di un genio, Milano: Mondadori, 2019: 419, 265.↩︎

  3. Ugo IV di Lusignano, re di Cipro e di Gerusalemme.↩︎

  4. Genealogia I. Proh. I. 16. (G. Boccaccio: Genealogia deorum gentilium, ed. V. Zaccaria, Milano: Mondadori, 1998 (d’ora in poi: Genealogia)).

    Non si possono non citare altre due moderne edizioni della Genealogia sebbene nel saggio non mi avvarrò di esse. Una è di fatto la prima edizione moderna, e già solo per questo fondamentale, anche se da più studiosi non poco criticata, di Vincenzo Romano (Bari: Laterza, 1951). I capitoli trattati nell’articolo presente non mostrano comunque differenze tra l’edizione di Romano e quella di Zaccaria, il cui testo utilizzo in questo lavoro. L’altra è una edizione bilingue e recente (G. Boccaccio: Genealogy of the Pagan Gods, vol. 1, Books 1–5. edited and translated by Jon Solomon, Cambridge: Harvard University Press, 2011, 2017), di cui sono finora usciti il primo e secondo volume, relativo ai Libri I–V, e VI–X. Non presentando significative differenze testuali rispetto all’edizione Zaccaria per quanto riguarda le parti di mio interesse, e non soffermandosi sul problema delle fonti di Boccaccio, eviterò di citare tale edizione nelle note seguenti.↩︎

  5. Non avendo molto importanza per il mio tema l’identità precisa del filosofo mi limito a citare quanto scrive Landi: “Quel Numenio è il noto filosofo eclettico di Apamea, che camminando sulla orme di Platone e di Pitagora con indirizzo spiccatamente mistico è considerato uno dei maggiori precursori del neoplatonismo.” (C. Landi: Demogorgone. Con saggio di nuova edizione delle ʻGenealogie deorum gentilium’, Palermo: Edizione Sandron, 1930: 31). Cf. anche: M. Gabriele: ‘Demogòrgone: il nome e l’immagine’, in: A. Ferracin & M. Venier (eds.): Giovanni Boccaccio. Tradizione, interpretazione e fortuna, Udine: Forum, 2014, 45–73.↩︎

  6. Genealogia III. Proemio 1.↩︎

  7. Solo alcuni esempi: “E cavernis Herebi fere omnem prolem eduximus, gratia Dei nostri omnipotentis et veri opitulante […] nudam in precedenti volumine coram apposuimus lectoribus, equidem non absque ingenti labore inter Stygis fumos et nebulas vacillantis hinc inde navicule…” (Genealogia II. Proemio 1). “Quam ob rem […] parvam reintravi naviculam, et Eius invocato nomine, qui iam dudum in suave vinum insipidas vertit aquas in Chana, secundi Iovis insignem scripturus prolem, flatibus velum dedi.” (Genealogia V. Proh. 7). Troviamo riferimenti di questo tipo anche nel sesto libro, dove Boccaccio indica Dio come colui che aveva separato la terra dalle acque: “…Zephyro favente in litus usque Meonium contendi, ut ab inde, Eo prestante, qui aquas seiunxit ab arida, […] avos vetustissimos recenserem…” (Genealogia VI. Proh. 4); nell’introduzione dell’ultimo libro: “Fundavi, serenissime rex, quibus potui armamentis hinc inde naviculam, ne estu procellosi maris aut ventorum adverso impetu pelleretur in litus, et illisa ruptis compagibus solveretur.” (Genealogia XV. Proh. 1), o nella conclusione di tutta l’opera: “Lignum preterea in litore ancoris et proresiis ingeniose firmavi, magis semper de bonitate divina confidens quam de robore vinculorum.” (Genealogia XV. Conclusio 1). Potremmo ancora andare avanti con le citazioni ma si evince da quanto abbiamo citato finora che Boccaccio coglie ogni occasione per riferirsi a Dio e a Cristo, che hanno preso il posto che nelle opere antiche era riservato alle Muse, per rendere loro grazie o invocarne l’aiuto. Gli si offre la possibilità innanzitutto nelle parti introduttive dei singoli libri, rese ancora più unitarie dal ricorrere della metafora nautica, secondo un ben noto topos poetico – cf. Horatius: Carm. I.14; II.3.; II.10. ecc; o Dante: Purgatorio I.1. Per l’uso della metafora della navigazione a proposito della poseia si veda il classico E. R. Curtius: Letteratura europea e Medio Evo latino [Europeische Literatur und lateinisches Mittelalter (1948)], Roberto Antonelli (ed.): Macerata: Quodlibet, 2022: 185–188.↩︎

  8. Dopo il passo appena citato Boccaccio aggiunge che molto volentieri citerà altri poeti, perché così le persone che in generale li biasimano non ritenendoli eruditi, vedranno che non esiste un’altra professione così ricca e ornata, come quella dei poeti, compresi anche i non cristiani. (“…et hoc libentissimo faciam animo ut, quibusdam ignaris atque fastidiose detestantibus poetas, a se minime intellectos appareat; eos, etsi non catholicos, tanta fuisse prudentia preditos, ut nil artificiosius humani ingenii fictione velatum sit, nec verborum cultu pulchrius exornatum.” Genealogia Proh. I. 44).↩︎

  9. Le parole del Boccaccio, con cui distingue i diversi livelli esegetici, quasi letteralmente coincidono con il paragrafo 7 della epistola di Dante a Cangrande. (Al posto dell’esempio usato da Dante, che illustra le spiegazioni con l’esodo di Israele dall’Egitto, Boccaccio utilizza la storia di Persèo e della Medusa). Cf. Genealogia I. III. 9.↩︎

  10. Per quanto riguarda le preferenze ermeneutiche di Boccaccio, e il suo metodo nella scelta delle differenti opzioni interpretative (allegoriche, storiche, naturali, fisiche, morali, anagogiche) cf. A. Hortis: Studi sulle opere latine del Boccaccio, Trieste: Libreria Julius Dase Editrice, 1879: 163–164, e Genelogia, Introduzione 23–25. Boccaccio prova a trovare più interpretazioni per ogni storia mitologica (storie molto ricche sono es. quelle di Galatea, Genealogia VII. XVII o Cerere, terza figlia di Saturno, Genealogia VIII. IV), ma più di una volta sceglie o trova solo una interpretazione, o addirittura talvolta lascia la storia senza commento, come vedremo in alcuni esempi anche più avanti.↩︎

  11. Genealogia II. XXIII. 1.↩︎

  12. Genealogia II. XXIII–XXVI. Nel suo racconto Boccaccio cita parola per parola Ovidio (Metamorphoses IV. 462sg; d’ora in poi: Metam.) e Seneca (Hercules furens III. 757sgg).↩︎

  13. La parola sopraddetta appare nelle opere latine meno di quindici volte. Cf. Thesaurus linguae Latinae. Leipzig: B. S. B. B. G. Teubner Verlagsgesellschaft, 1971: vol. VI,1; fasc. VI, 1260.↩︎

  14. Ipermestra, Amimone, Bona (per quanto riguarda questa ultima si tratta di uno sbaglio: Boccaccio, citando Ditti Cretense (autore presunto di un Ephemeris belli Troiani) la descrive, come moglie di Atlante, che gli partorí Elettra, madre del re Dardano. Le mitologie vogliono che quella donna sia Pleione, non figlia di re Danao, ma una delle Oceanine, cioè la figlia di Oceano e Teti. Cf. Der kleine Pauly. Lexikon der Antike in fünf Bänden, München: Deutscher Taschenbuch Verlag GmbH & Co. KG, 1979: vol. 2. fasc. 29.↩︎

  15. Genealogia II. XXIV. 1.↩︎

  16. Cf. Ovidius, Heroides XIV. es. 1sg: “Mittit Hypermestra de tot modo fratribus uni; / cetera nuptarum crimine turba iacet”.↩︎

  17. Genealogia XII. I.↩︎

  18. Genealogia V. XLV.↩︎

  19. Sul rapporto di Leonzio Pilato con Boccaccio cf. tra l’altro V. Branca: Giovanni Boccaccio profilo biografico, Firenze: Sansoni Editore, 1997: 114; L. Battaglia Ricci: Boccaccio, Roma: Salerno Editrice, 2000: 253sg; A. Rollo: ‘Leonzio lettore dell’Ecuba nella Firenze di Boccaccio’, Quaderni Petrarcheschi, 12–13 (Petrarca e il mondo greco), 2002–2003: 7–23; D. Porciatti: ‘Boccaccio e il romanzo greco’, in: G. Frosini & S. Zamponi (eds.): Intorno a Boccaccio / Boccaccio e dintorni, Atti del seminario internazionale di studi (Certaldo Alta, Casa di Giovanni Boccaccio, 25 giugno 2014), Firenze University Press 2015: 135–137; per quanto riguarda la conoscenza modesta del greco di Boccaccio e il ruolo di Leonzio nella stesura della Genealogia: es. A. Pertusi: Leonzio fra Petrarca e Boccaccio, Venezia–Roma: Istituto per la collaborazione culturale, 1964: 248, Id: ‘Le etimologie greche nelle opere erudite del Boccaccio’, Studi sul Boccaccio 1, 1963: 363–385), M. Cursi: ‘Boccaccio lettore di Omero: le postille autografe all’Odissea’, Studi sul Boccaccio 43, 2015: 5–27, A. Molnár: Mítosz és egzegézis. Istennőábrázolás Giovanni Boccaccio De mulieribus claris és Genealogia deorum gentilium című műveiben [Mito ed esegesi. Rappresentazione delle divinità femminili nella Genealogia deorum gentilium e nel De mulieribus claris di Giovanni Boccaccio] (dissertazione di dottorato) Szegedi Tudományegyetem, 2021: 49sg, 76sg.↩︎

  20. Genealogia V. XLV. 1.↩︎

  21. Il libro XII raccoglie i discendenti di Giove. Quanto alla stuttura dell’opera: ogni libro descrive un albero genealogico, partendo da un dio alla radice dell’albero. Nei capitoli dei singoli libri Boccaccio elenca i rami dell’albero genealogico seguendo la linea diretta della discendenza. (Per maggiori dettagli cf. S. Nobili: ‘La ʻGenealogia’ dalla Romagna al Parnaso. Sugli alberi genealogici del manoscritto autografo’, in: G. Albanese & P. Pontari (eds.): Boccaccio e la Romagna, Ravenna: Longo, 2015: 149–172.↩︎

  22. La figura dell’uomo pio e onesto, re corinzio di Boccaccio è più difficilmente comprensibile, se teniamo presente che – come abbiamo già detto – esiste un altro Tantalo, il nipote del padre crudele; di lui, invece, Boccaccio non fa menzione.

    Il caso dei Tantali non è l’unico esempio di mescolanza dei caratteri nelle figure mitologiche moltiplicate. L’enciclopedia gigantesca necessariamente contiene altre simili ʻconfusioni’. (Ad esempio due Sol, teoricamente distinti, che dispongono ugualmente di una discendente di nome Phetusa, oppure i singoli Mercuri tra cui gli attributi del messaggero degli dèi vengono distribuiti).↩︎

  23. Solo un fatto meno evidente nella sua personalitá: già nel Medioevo fu identificato con il vescovo di Ruspe, (cf. Der kleine Pauly, op.cit.: vol 2. fasc. 628), ma le opinioni sul suo vescovado non sono univoche. Branca per esempio lo accetta così (“Fulgenzio, vescovo di Ruspe dal 507”) mentre Ries indica che il nostro Fulgenzio non sia confondibile con il vescovo. (“Fulgenzio – da non confondere con il vescovo di Ruspe – …”) Sia come sia il ruolo nella Chiesa di Fulgenzio, la sua cristianità è quasi evidente, ciò che ci interessa qui. Cioé che si tratta di un autore con grandissima probabilità cristiano, e fonte che Boccaccio, nel caso di Tantalo accetta. (Per le frasi citate cf. V. Branca: ‘L’Atteone del Boccaccio fra allegorico cristiana, evemerismo trasfigurante, narrativa esemplare, visualizzazione rinascimentale,’ Studi sul Boccaccio 24, 1996: 193–208, p. 199; J. Ries: Il mito e il suo significato, Milano: Jaca Book, 2005: 87).↩︎

  24. Cf. Genealogia XII. I. 4; fonte: Fulgenzio: Liber de continentia Virgiliana 159. (V. Genealogia XII. I. 4 (p. 1689 nota 6)).↩︎

  25. Genealogia XIII. LVI.↩︎

  26. Le sue opere fondamentali (Commentarii in Somnium Scipionis, Saturnalia) vengono considerate come ultime testimonianze della tradizione pagana, e sono importanti, il primo per essere collazione delle tradizioni virgiliane, e di frammenti di più opere smarrite, mentre il secondo come testimone della filosofia neoplatonica. (cf. T. Adamik: Római irodalom a késő császárkorban [Letteratura romana nell’eta tardoimperiale], Budapest: Seneca Kiadó, 1996: 230sg).

    La fonte della spiegazione: Macrobio: Somnium Scipionis 1,10,15. (V. Genealogia XIII. LVI, 4 (p. 1701 nota 152)).↩︎

  27. Genealogia IX. XXVII.↩︎

  28. Somnium Scipionis 1,10,14. (V. Genealogia IX. XXVII. (p. 1675 nota 103)).↩︎

  29. Commento di Zaccaria: “Fulgenzio 2,14,96 (che cita Domocrides, Theogonia)”. V. Genealogia IX. XXVII. (p. 1675 nota 104), poi ancora sull’etimologia dei centauri: Genealogia IX. XXVIII. 1. (p. 1675 nota 105).↩︎

  30. Superbia, come hybris, cioé soprattutto superbia nei confronti degli dèi.↩︎

  31. Genealogia IV. LXVI.↩︎

  32. Uno degli autori più citati dal Boccaccio nella Genealogia. Per la sua personalità, secondo Silvia Fiaschi ‘misteriosa’ (T. De Robertis, C. M. Monti, M. Petoletti, G. Tanturli & S. Zamponi (eds.): Boccaccio autore e copista, Catalogo della mostra di Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, 11 ottobre 2013–11 gennaio 2014, Firenze: Mandragora, 2013: 171 e 282) da ogni punto di vista cf. M. P. Funaioli: ‘Teodonzio: Storia e filologia di un personaggio’, Intersezioni, 2, 2011: 207–218 e M. Pastore Stocchi: ‘Teodonzio, Pronapide e Boccaccio’, Quaderni Petrarcheschi 1213 (Petrarca e il mondo greco), 2002–03: 187–212 in: M. Feo & V. Fera & P. Megna & A. Rollo (eds.): Petrarca e il mondo greco, Firenze: Le Lettere, 2007: 187–212, poi A. Molnár: Mítosz és egzegézis…, op.cit.: 50.

    Altra ipotesi, che Boccaccio usasse un anonimo Commentario di Ovidio sotto del nome di Teodonzio, come autore fittizio. Su di lui, come la fonte più utilizzata e anche fino ad oggi meno conosciuta (“bis heute wietgehend unbekannten Quelle mit dem Namen Theodontius”) e del tema delle fonti della Genealogia cf. P. R. Schwertsik: Die Erschaffung des heidnisches Götterhimmels durch Boccaccio. Die Quellen der Genealogia Deorum Gentilium in Neapel, Paderborn: Wilhelm Fink, 2014: 56, Teodonzio come fonte: 237sgg.↩︎

  33. La storia: Ovidio: Metam. I. 163sgg.↩︎

  34. “…quam cito ad avaritiam et rapinam mentem apponimus, humanitate exuti, lupum e vestigio induamus atque tam diu perseveramus in lupum, quam diu talis appetitus perseverat in nobis, humana tantum reservata effigie.” (Genealogia IV. LXVI. 6). La lupa in Dante “ha natura sì malvagia e ria, / che mai non empie la bramosa voglia, / e dopo ’l pasto ha più fame che pria”. (Cf. Inferno, I. 97sgg).↩︎

  35. Le storie dedicate agli eroi romani, cioè i protagonisti dell’Eneide, o dei fondatori della Città, rispecchiano ancora meglio travaglio interiore dell’autore: Boccaccio molte volte contraddice Virgilio, accettando le opinioni degli autori sopraccitati. Su questo comportamento del nostro autore più dettagliatamente rimando ad alcuni miei saggi: quanto ai protagonitìsti della Eneide e fondatori di Città: Zs. Babics: ‘Gli eroi mitologici dei Romani nella Genealogia deorum ovvero l’umanesimo particolare di Giovanni Boccaccio’, Verbum Analecta Neolatina 7/1, 2005: 303–324; quanto alle figure di Enea e Romolo: Id: ‘Rappresentazione insolita dei grandi fondatori della città di Roma nella Genealogia deorum gentilium di Boccaccio, Verbum Analecta Neolatina 12/2, 2010: 421–435; quanto alla storia di Didone nello specchio delle tre opere latine del Certaldese: Id: ‘La figura di Didone nelle opere latine del Boccaccio’, Acta Antiqua (Acta Ant. Hung.) 50, 2010: 431–458.↩︎

  36. “Ex eo [Licaone] autem talem refert Ovidius fabulam” (Genealogia IV. LXVI. 2).↩︎

  37. Genealogia II. LXIV. Altri esempi sono ad esempio Io, trasformata in vacca e poi cacciata attraverso Europa e Asia fino in Egitto da un moscone; la madre di Ercole, Alcmèna, il cui figlio semidio è perseguitato fino alla morte da Giunone; la madre di Apollo e Diana, Latona, che in seguito all’ira di Giunone fu ridotta a dare alla luce i figli sull’isola deserta di Delo.↩︎

  38. Metam. III. 253–315.↩︎

  39. Genealogia II. LXIV. 1.

    Con questo Boccaccio sopprime l’eventuale critica sottintesa nella parola fabula soprammenzionata. Ho scritto ‘eventuale critica’, perché il termine che definisce le storie di Ovidio (Licaone e Semele) cioè fabula o figmentum non deve essere inteso esclusivamente in accezione negativa. Come abbiamo citato all’inizio del saggio, secondo il nostro autore la favola è un mezzo dei poeti per nascondere la verità. Poi nella distinzione delle favole (cf. Genealogia XIV. IX.) Boccaccio sottolinea più volte che le favole sono più utili che dannose, e prende paragoni anche dalla Sacra Scrittura legittimando così i poeti ʻfavolosi’. Che le storie mitologiche siano definite come fabula o figmentum, non è una cosa da rimproverare all’Autore. Semmai appare un po’ strano che egli usi questi termini solo nel loro caso (nel saggio presente appena alle due favole di Ovidio), evitandole per le versioni degli autori più tardi. Teoricamente sarebbe inutile ripetere che le storie mitologiche hanno elementi non reali. Così in modo preterintenzionale può rafforzarsi nel lettore l’impressione che secondo Boccaccio le fonti antiche hanno meno autorità rispetto a quelle più tarde. Nello stesso tempo dobbiamo tener presente che con i paragoni della Sacra Scrittura – che l’Autore usa non solo nel caso delle favole con valore di parabole, ma anche nel caso di quelle che “coprivano con finzioni le cose divine e umane” (a cui probabilmente appartengono le storie ovidiane), prende energicamente la difesa dei poeti antichi e del loro mestiere. È un nuovo efficace esempio dell’oscillazione del Certaldese tra due mondi. A questo proposito e in particolare sull’uso di Macrobio cf. ancora P. Dronke: Fabula. Explorations into the uses of Myth in mediaval Platonism, Leiden und Köln: E. J. Brill, 1974: 15–32. Quanto al cambiamento dell’immagine della favola antica tra Medioevo e Rinascimento si veda specificamente E. Garin: ‘Le favole antiche’, in E. Garin: Medioevo e Rinascimento, Roma–Bari: Laterza, 1973: 63–84, particolarmente 69sgg, ed ancora le parole dello stesso Boccaccio nella difesa della poesia e dei poeti antichi Genealogia XIV. XVIII.↩︎

  40. Un esempio in tal senso è fornito dalla storia di Rea Silvia gravida di due gemelli nonostante la sua funzione vestale. Quando Rea Silvia nominò come padre dei gemelli il dio Marte, nessuno dubitò della sua parola, e così Silvia fu salvata dalla punizione chiaramente da Marte, o più precisamente solo dal fatto, che nominò in Marte il padre dei gemelli.↩︎

  41. “Figmenti huius ego veritatem puto hanc feminam pregnantem, ut ipsa sonat fabula, fulmine percussam; non enim ignis, id est Iuppiter, aeri, id est Iunoni, miscetur, nisi per fulmen ad inferiora descendens” (Genealogia II. LXIV. 3). L’interpretazione deriva probabilmente di nuovo da Macrobio, o almeno si trova una spegazione assai simile nel Commentarii I, 17–15. (Cf. P. Dronke, Fabula, op.cit.: 29.)↩︎

  42. Genealogia XII. II.↩︎

  43. Cf. Iliade XXIV. 602.↩︎

  44. Per riferimenti (all’opinione di Cicerone, di Teodonzio e l’attributo superba della regina di Tebe) cf. Genealogia XII. II. 3.↩︎

  45. L’opinione esposta da Cicerone nelle Tusculanae Disputationes (cap. III) suggeriva che la lagrimazione della roccia fosse una pura invenzione. Cicerone in questo luogo illustra il dolore muto, portando esempi di dolore vero e profondo che sono sempre muti. A questo punto troviamo la riga citata da Boccaccio non del tutto alla lettera: “Nioba fingitur lapidea propter aeternum, credo, in luctu silentium” (Tusc. III. XXVI. 63). Cicerone, per ribadire il proprio parere, fa menzione di Bellerofonte, principe di Corinto che per le sue origini stava sotto la protezione degli dèi, e cita a proposito di lui Omero: “Qui miser in campis maerens errabat Aleis / Ipse suum cor edens, hominum vestigia vitans”.

    È probabile che Boccaccio abbia letto il capitolo citato delle Disputationes, siccome non cita letteralmente Cicerone, ma fa cambiamenti formali e grammaticali perfetti per poter inserire il brano nel suo testo (“Eam autem in lapidem versam Tullius […] fictum arbitratur, propter eius eternum in luctu silentium” Genealogia XII. II. 3) Se è così, sicuramente non ha sorvolato sulla citazione da Omero che precede direttamente questa frase. Per questo risulta sorprendente il fatto che a proposito di Bellerofonte parli delle sue avventure, adducendovi commenti allegorici, ma non faccia alcuna menzione del suo delitto. È praticamente impossibile supporre – viste anche le sue fonti (es. Ovidio) – che non abbia conosciuto la tragica fine della storia del giovane favorito dagli dèi. Oppure, pensando alla citazione di sopra da Cicerone, doveva almeno porsi la domanda del perché di questo solitario errore del misero Bellerofonte (cf. Storia di Bellerofonte: Genealogia XIII. LVIII).↩︎

  46. Genealogia V. XIV.↩︎

  47. Metam. III. 147.↩︎

  48. Metam. III. 141 sg.↩︎

  49. Vale la pena ricordare la citazione ciceroniana trattata a proposito della storia di Niobe, dove – in riferimento a Bellerofonte – si incontrava un problema simile: Boccaccio prendeva dalla fonte utilizzata certe cose ma ne tralasciava altre.↩︎

  50. Genealogia V. XIV. 2.↩︎

  51. Cf. note 36, 39, e 41.↩︎

  52. In verità secondo Anassimene, citato da Fulgenzio. (v. Genalogia V. XIV. p. 1650 nota 59).↩︎

  53. L’ultima frase del capitolo che chiude il commento di Fulgenzio, suona: “Hec Fulgentius”.↩︎

  54. Genealogia II. LXV.↩︎

  55. “Qui [cioé Penteo] cum sacra Bachi sperneret […] occisus est” (Genealogia II. LXV. 2).↩︎

  56. “Agaves […] peperit filium, quem vocavere Pentheum, elati animi iuvenem” (Genealogia II. LXV. 1).↩︎

  57. La versione del mito riportata da Ovidio aggiunge un’altra componente (Metam. III. 513sgg). Penteo anche in Ovidio è un giovane che disprezza tutti, ma la sua colpa sta più nel fatto che ha riso e preso in giro il vate per la sua cecità.↩︎

  58. Se Boccaccio era incline ad accettare piuttosto questa variante, la qualifica elati animi acquista un significato univoco. Non possiamo comunque dire niente di sicuro su questo, solo che il nostro autore probabilmente era propenso ad accettare il parere di Leonzio.↩︎

  59. Per portare un esempio concreto: nel racconto della storia di Atteone Boccaccio non prende apertamente posizione, ma la frase conclusiva (“Hec Fulgentius”) per la sua stessa posizione al termine del capitolo sembra attribuire a quell’opinione un’autorità superiore alle altre interpretazioni precedentemente citate. Anche il fatto che l’autore la lasci senza commento porta a concludere che Boccaccio ritiene più accettabile la variante di Fulgenzio che non il racconto di Ovidio.

    Accanto a tutto questo dobbiamo tener presente l’esempio (la storia di Sisifo), in cui Boccaccio contraddice Fulgenzio, cioè che non accetta sempre acriticamente la versione degli autori nel tempo più vicini a lui. Nell’opera troviamo anche altri esempi (non moltissimi), che non possiamo lasciare senza menzione sebbene non abbiano potuto prendere posto nel presente saggio: il caso sopraccitato non è unico. Boccaccio ad esempio nel capitolo di Mercurio terzo contraddice proprio il rispettato Leonzio: cosa rarissima da parte sua. (Cf. Genealogia III. XX. 2.)↩︎

  60. Cf. Genealogia I. Proh. I. 16; come già detto all’inizio, Boccaccio definisce ridicola la corteccia, cioé l’interpretazione letterale delle storie mitologiche: quindi, stricto sensu, la mitologia stessa.↩︎

  61. Un’altra frase con contenuto simile si trova nel Proemio, in cui Boccaccio chiama ʻstoltezza’ e ridicola’ la pretesa di discendere da sangue divino: cioé possiamo dire anche stoltezza e ridicola la natura degli stessi déi pagani. “Arbitraris forsan, facunde miles, seu rex tuus […] hanc insaniam veterum, scilicet cupientium se haberi divino procreatos sanguine, angulum terre modicum occupasse et tanquam ridiculum quoddam, ut erat, parvo perseverasse temporis tractu et veluti etiam recentissimum opus facile colligi posse?” (Genealogia I. Proh. I. 4).↩︎

  62. Per questa tensione, e nello stesso tempo per il ruolo di Boccaccio come precursore dell’umanesimo non solo nella Genealogia, ma anche in altre due opere latine v. A. Molnár: Mítosz és egzegézis…, op.cit.: 7–8, 10, 13.↩︎

  63. Sottolineano ancora la ʻtensione’ del nostro Autore i due libri ʻapologetici’ alla fine della Genealogia, in cui l’autore difende da un lato i poeti e la stessa poesia, dall’altro sé stesso. (Liber XIV: “In quo auctor, obiurgationibus respondens, in hostes poetici nominis invehit.”; e liber XV: “In quo autor purgat se ipsum ab obiectis in se.”) Questi due libri sono fondamentali perchè sono diventati il punto di partenza dei discepoli e successori del Boccaccio nella discussione della poesia e dei poeti. Per la loro complessita e densità teorica essi hanno ricevuto molta più attenzione da parte degli studiosi moderni rispetto ai precedenti tredici libri. Quanto alla novitá e importanza della Genealogia come un certo specchio di incontro di due mondi, e al suo carattere protoumanista potremmo citare senz’altro non pochi studiosi. Tra le opere cito solo le parole di Silvia Fiaschi dal catalogo del 2013: “Nella Genealogia si realizza […] l’intersezione fra Boccaccio medievale e Boccaccio umanista; l’attitudine enciclopedica alla raccolta di informazioni è guidata da un metodo critico di selezione, revisione e raffronto, che ne fa un laboratorio di approfondimento su personaggi presenti, con diverse finalità, anche in altri suoi testi: basta confrontare, ad esempio, i profili di Didone, Circe, Niobe, Priamo, Agamennone che compaiono qui, nel De mulieribus e nel De casibus. E applicando tale metodo all’indagine sul mito, Boccaccio suggerisce in qualche modo quel connubio tra filologia e poesia che oltre un secolo dopo troverà il suo pieno compimento nel Poliziano” (T. De Robertis et al.: Boccaccio autore…, op.cit.: 174).↩︎