Verbum – Analecta Neolatina XXIV, 2023/1
ISSN 1588-4309; https://doi.org/10.59533/Verb.2023.24.1.4
Abstract
This article deals with the importance attributed by the poet Giuseppe Ungaretti to deictics as a way of connecting subjectivity to the spatial and temporal dimension of personal and collective events and to the sphere of memory and imagination. The investigation includes the first three great collections (L’Allegria, Sentimento del Tempo, Il Dolore) and consists of a survey and functional classification of the forms of space-time deixis. A semantic-pragmatic approach is combined with an attention to stylistic, rhetorical and textual choices related to the position of the deictics and their relationships. Differences and shared trends among the books are identified, which contribute to demonstrate how the observation of deixis can help a deeper interpretation of both the dramatic charge and the meditative and finely literary slant of Ungaretti’s poetry.Gli studi sulla lingua delle due maggiori raccolte poetiche ungarettiane, L’Allegria (ed. definitiva 1942) e Sentimento del Tempo (ed. definitiva 1943),1 hanno evidenziato solo en passant l’importanza conferita dal poeta agli indicatori spaziali e temporali (soprattutto aggettivi dimostrativi e avverbi) quali forme di ancoraggio di una soggettività empirica e lirica spiccata a scenari appartenenti al vissuto drammatico dell’“uomo di pena”,2 o da lui rievocati o immaginati al fine di dare una più vivida connotazione espressiva e, soprattutto nella seconda raccolta, una raffinata dimensione letteraria ai propri stati d’animo. È stato anche rilevato che una presenza più massiccia di deittici spaziali3 nella prima opera, insieme alla preponderanza della prima persona4 e del presente indicativo, si spiega con l’urgenza espressivo-comunicativa legata alla straordinarietà dell’esperienza bellica, vissuta personalmente al fronte, e con il dispiegamento della ricerca di senso attraverso il rapporto del soggetto lirico enunciante – inteso anche nel suo farsi “grido unanime”5 di un destino comune segnato dal dolore e dalla fragilità umana – con la natura.6 Negli elementi di quest’ultima, anche in presenza dell’abbrutimento e della precarietà determinati dalla guerra ma anche dalla condizione biografico-interiore di perenne girovago in cerca di “un paese / innocente”,7 il poeta riflette e riscopre il dramma personale e collettivo nonché possibili barlumi di verità che la parola poetica aspira a riportare alla luce. Dramma e barlumi che, come hanno già sottolineato diversi studiosi, sul piano della scrittura in versi si materializzano nell’isolamento e nella valorizzazione della “forza evocativa ed impressiva”8 delle parole, della loro essenzialità, del loro potere di rivelazione, e in soluzioni stilisticamente e metricamente sperimentali, espressionistiche, eversive, dunque in folgorazioni liriche. Queste non sono da intendere futuristicamente come riproduzione immediata, meramente referenziale, delle dinamiche del mondo esterno ma come opportunità di scavo all’interno di verità esistenziali mai pienamente afferrabili, delle quali la parola nuda, scrostata – come mostrano gli spazi bianchi / pause di silenzio dai quali emerge – e scandagliata in profondità restituisce echi di significato. La ricerca di soluzioni formali assai innovative, nella prima fase della poesia ungarettiana, è pertanto fortemente motivata da istanze biografiche ed esistenziali incalzanti e, ben lungi dal costituire la sperimentazione di una compiaciuta eversione metrico-stilistica fine a sé stessa, coesiste con un forte bisogno di radicamento dell’atto poetico nella realtà che lo ispira e nei suoi connotati spazio-temporali.9 Uno degli articolati strumenti di espressione di tale stretta prossimità esperienziale ed emotiva del testo al contesto che sta alla base della sua composizione è proprio la deissi. Andando oltre le notazioni rapide presenti in precedenti lavori di carattere complessivo sulla lingua poetica ungarettiana, questo saggio presenta un’indagine più approfondita e sistematica su tipi, forme e finalità della deissi spaziale e temporale nell’Allegria, ma anche nelle due raccolte successive. È stato notato che, rispetto a quanto si osserva nella prima silloge, in Sentimento del Tempo l’ancoraggio spazio-temporale si fa più sporadico e meno caratterizzante,10 e la presenza dichiarata dell’io biografico e del relativo io lirico-enunciatore meno pervasiva, tanto da subire in alcuni casi un occultamento, che Coletti11 associa al tendenziale “scompaginamento della tenuta e della coerenza testuale”12 di alcuni componimenti. In essi la decostruzione dell’unità-testo, cui conseguono non lievi difficoltà di decifrazione, si accompagna a una giustapposizione di figurazioni mitiche, paesistiche, simboliche impersonali, che fungono da nuclei discorsivi a sé stanti e sono sottratti a una rigorosa operazione di unificazione sequenziale e testualizzazione che solo un soggetto enunciante che faccia valere il proprio ruolo di costruttore di un discorso riguardante la propria vita può compiere, garantendo all’entità-testo linearità e unitarietà. Tuttavia, modalità deittiche dotate di rilievo espressivo, riflessivo ed evocativo non mancano neanche nella seconda silloge. A oggi manca, invece, una loro ricognizione, e il presente studio intende contribuire a colmare questa lacuna. Infine, la constatazione della rinnovata carica drammatica della raccolta Il Dolore (1947), duplicemente motivata dai lutti familiari, soprattutto dalla morte del figlioletto del poeta, e dalla catastrofe del secondo conflitto mondiale, spinge a verificare in quali forme si ripropone, in questo terzo libro, la connessione dell’esperienza poetica, del suo pathos nostalgico, del suo farsi nuovamente grido di sofferenza ma anche intuizione e inseguimento di possibilità salvifiche, a uno spazio-tempo su cui si proiettano ricordi struggenti, sentimenti laceranti e resistenti speranze di salvezza propria e dell’umano, che la fede cristiana, riscoperta già negli anni di elaborazione del secondo volume, contribuisce a riaccendere.
Va ricordato che la poesia lirica, al di là delle differenze legate agli specifici generi metrico-letterari e/o alle particolari esigenze espressive dei singoli casi, e al di là del grado, ovviamente mutevole, di realismo enunciativo, presenta comunque modi peculiari di ancoraggio del testo al contesto. Essi sono dovuti al taglio non strettamente mimetico-rappresentativo della scrittura in versi e alla sua caratteristica inclinazione all’allusività, allo sfumato, all’indefinitezza, al vagheggiamento, alla trasfigurazione del reale dal punto di vista dell’io lirico, all’astrazione. È soprattutto in poesia, pertanto, che i dettici tendono ad assumere una coloritura evocativa, un valore suggestivo e insieme una certa opacità referenziale, alludendo a spazi e tempi non nitidamente definiti, dotati di valore simbolico o appartenenti a un altrove interiore.13 Ciò accade, in alcuni casi, come si vedrà, anche in Ungaretti, soprattutto in Sentimento del Tempo. Il ricorso letterario alle modalità dell’indicazione si presenta così come impiego di meccanismi del “‘parlato’ in direzione non-mimetica”:14 pur essendo strumenti propri della comunicazione orale-funzionale, i deittici possono essere sfruttati mettendo in crisi il criterio della precisione referenziale che di norma sta alla base del loro funzionamento, e liberando il linguaggio dal vincolo del realismo. Nota comunque Testa15 che “il testo poetico ‘chiama’ nel proprio organismo i referenti del mondo, li introietta e, ricontestualizzandoli, li incrina e li carica di ‘un più’ di senso. Ma non tutti i testi realizzano questa operazione in egual modo.” Si possono distinguere, infatti, casi e generi di poesia in cui i riferimenti alla realtà esterna sono più perspicui, pressoché privi di filtri simbolici, il legame del testo con la situazione convocata al suo interno dai deittici è abbastanza chiaro e la sua comprensione non richiede che la conoscenza ed esperienza del mondo del lettore medio (componimenti descrittivi, ritrattistici, d’occasione, ecc.), e altri tipi lirici in cui il rapporto con il contesto extrapoetico di riferimento si presenta esile, ambiguo, persino decifrabile a fatica. In quest’ultimo caso la dimensione propriamente lirica si manifesta in modo più qualificante nell’attrito tra materialità extratestuale e alternatività dell’altrove poetico, che assorbe la realtà per trasfigurarla.
In ogni caso, quando esiste un nesso, più o meno labile, tra la scrittura e una situazione di enunciazione che viene riprodotta, simulata nel testo, e che fa intravedere, dietro chi scrive, un io che parla ancorando il suo discorso a una cornice spazio-temporale, sembra legittimo parlare, seguendo Testa,16 di deissi enunciativa. Questa categoria funzionale comprende, naturalmente, deittici sia spaziali che temporali. Sulla scorta delle indicazioni classificatorie offerte dallo stesso studioso,17 si è in presenza, invece, di una deissi di tipo astanziale, spaziale o temporale anche stavolta, quando i deittici evocano oggetti o persone assenti nella situazione enunciativa simulata, richiamandone e ritracciandone la presenza sotto la spinta del ricordo o del desiderio: gli indicatori “permettono di cogliere, nel luogo dell’assenza, i tratti ostensivi dell’oggetto del desiderio, di individuare le tracce della sua sparizione, di raffigurarlo, ossessivo fugace silenzioso, nell’hic et nunc del testo, di costruire un suo fragile simulacro.”18 Il lettore è dunque indotto ad addentrarsi nella prospettiva mentale del soggetto enunciatore. Una terza tipologia di crono- e topodeittici, proposta da chi scrive in quanto ritenuta pertinente alla definizione funzionale di alcuni deittici ungarettiani, e diverse volte sovrapponibile alla deissi enunciativa, è quella espressiva: sono i casi in cui il deittico, conferendo all’enunciato una particolare espressività, concorre a far risaltare lo stato d’animo e le emozioni del poeta. Infine, ancora una volta da Testa19 si accoglie, adattandola, la definizione di deissi minima, che designa, a un livello acutizzato, quanto si è detto poc’anzi a proposito delle peculiarità liriche della deissi: in tali casi l’ambiguità del deittico, che sembra in parte abdicare al suo ruolo indicale, appunto ridotto a un minimo, si fa particolarmente acuta in corrispondenza di un referente sfuggente e indefinito, e il cotesto sollecita in chi legge domande su dettagli spaziali e/o temporali ulteriori che non vengono forniti.
Nel corpus ungarettiano in oggetto sono quindi distinguibili le classi pragmatiche di deissi or ora definite: enunciativa; astanziale; espressiva; minima.20 Va subito ribadito, tuttavia, che questa distinzione non comporta che un deittico appartenga necessariamente a una sola categoria; sono tutt’altro che isolati, infatti, i contesti in cui si constata una sovrapposizione tipologica e quindi funzionale (un indicatore può essere enunciativo ma anche espressivo, o costituire un es. di deissi minima ed espressivo-evocativa).
Come si è accennato, è principalmente nell’Allegria che il poeta mette in campo un’articolata strategia linguistica volta a ottenere un “effetto di ‘presa diretta’ e di massima prossimità con gli eventi vissuti”.21 È frequente l’impiego, a tale scopo, dell’aggettivo dimostrativo questo (49 occ.22), nettamente prevalente su quello (6 occ.). Ricorre 12 volte l’avverbio di tempo ora, che con il presente marca la contemporaneità fra tempo dell’evento e tempo della scrittura; la stessa espressione di simultaneità è affidata ai sintagmi a quest’ora (4 occ.) e in quest’ora (1 occ.). Nella seconda raccolta, invece, l’allentarsi dell’esigenza di concretezza e immediatezza si manifesta anche in una diminuzione dei deittici: questo compare solo 10 volte, l’avverbio ora 6 volte. Qui, di cui si hanno 3 occ. nell’Allegria, insieme a una di quassù, è assente in Sentimento del Tempo, dove figurano però qua (1 occ.) e quaggiù (2 occ.). Nel Dolore, a una presenza isolata di questo, quello, qui vicino e quaggiù (1 occ. per ciascun deittico) si contrappongono ben 23 occ. di ora e una di ora ora, che sottolineano complessivamente la sincronia tra il tempo che comprende il momento della scrittura, e una rinnovata vitalità della sofferenza, individuale e collettiva, e della speranza, flebile ma risorgente.
Si forniranno di seguito, per ciascuno dei tre libri, numerosi ess. di deittici appartenenti alle tipologie sopra indicate, a iniziare, in questo paragrafo, da quelli rintracciati nell’Allegria.
A prevalere decisamente nella prima silloge sono i casi di deissi enunciativa. Concorre a conferire l’aspetto di un’annotazione in tempo reale già al secondo componimento della raccolta il dimostrativo questo, ora indicante la cornice notturna del sonnolento e solitario scorcio urbano fissato dal poeta, ora espressivamente associato a un sostantivo astratto al cui referente fa quasi acquisire tangibilità: “Anche questa notte passerà // Questa solitudine in giro” (Noia, p. 44, vv. 1–2).
In Levante (p. 45) la locuzione cronodeittica di contemporaneità a quest’ora, per quanto precisi una prima indicazione temporale (Di sabato sera), appare vaga, e vago risulta anche il referente dell’avverbio di luogo seguente, laggiù, che pure occupa, nella versione definitiva del componimento, una posizione di spicco, costituendo un verso a sé:23 “Di sabato sera a quest’ora / Ebrei / laggiù / portano via / i loro morti / nell’imbuto di chiocciola / tentennamenti / di vicoli / di lumi” (vv. 11–19). Qui la deissi enunciativa sembra sfumare verso la deissi minima, contribuendo a rendere la strofa ancor più suggestiva. Sfocano la rappresentazione anche l’assenza dell’articolo davanti a Ebrei, l’indefinitezza della locuzione analogica imbuto di chiocciola (riferito alle ripide scale interne ai vicoli), il sintagma tentennamenti / di vicoli / di lumi, con valore appositivo nei confronti di Ebrei (che portano dei lumi tentennando lungo il tragitto funebre) e zeugma nel riferire i tentennamenti ai vicoli oltre che ai lumi. Dalle Note dell’autore24 si apprende che laggiù è riferito alla città natale Alessandria d’Egitto, da cui il poeta si sta allontanando per giungere, in nave, in Italia: l’identificazione del referente geo-biografico, sebbene possibile al di fuori della poesia, permette di apprezzare meglio il valore evocativo dell’avverbio, collocato in una strofa che ha il sapore agrodolce di un nostalgico ricordo.
Similmente in Nasce forse (p. 47) il topodeittico quassù accentua, con la sua suggestiva indefinitezza, l’aspetto sfumato e indistinto della cornice enunciativa, icasticamente riprodotto, sul piano denotativo, nel primo verso: “C’è la nebbia che ci cancella // Nasce forse un fiume quassù” (vv. 1–2). Anche in questo caso intervengono le Note25 a scoprire l’identità del referente spaziale – Milano – velata da una deissi ancora una volta tendente al minimo: “La nebbia aveva mutato in quell’ora Milano in un lago che come un miraggio mi richiamava alla mente il lago Mareotis, nel deserto vicino ad Alessandria.” Le Note esplicitano pertanto l’accostamento, reso nel testo in modo scarno ed essenziale, tra il presente milanese e l’infanzia egiziana, restituita dal vivido (Ascolto) ricordo dei luoghi natii: “Ascolto il canto delle sirene / del lago dov’era la città [= Alessandria]” (Nasce forse, vv. 3–4).
Nel componimento In galleria (p. 52), interamente fondato su un raffinato procedimento analogico che oscura il piano referenziale, due deittici spazialmente contrapposti, il distale quello e il prossimale questo, racchiudono un momento di epifanica e sacrale rivelazione di senso, fugace e appannato barlume di verità che fende la noia di una notte inquieta. Da “quello stagno” (v. 2), ossia dal cielo che traspare dal soffitto che sovrasta il soggetto, proviene, infatti, una luce stellare che, come uno sguardo sacralizzante (“Un occhio di stelle” che “filtra la sua benedizione ghiacciata”, vv. 1, 3), illumina il poeta e la sua ricerca del vero, mentre egli attraversa di notte “quest’acquario” (v. 4) noioso, cioè, come si apprende dalle Note,26 la Galleria Vittorio Emanuele di Milano.
Nel penultimo testo della sezione Ultime, Chiaroscuro (p. 53), il prossimale questo localizza il punto di osservazione dal quale il poeta guarda al Cimitero Monumentale di Milano:27 “Spazio nero infinito calato / da questo balcone / al cimitero” (vv. 2–4). Anche qui il deittico concorre a fissare in uno spazio ben preciso, in una cornice enunciativa concreta, un attimo epifanico: quello in cui l’amico suicida di Ungaretti, quel Moammed Sceab angosciato dalla ricerca della propria identità al quale è dedicata la prima poesia (In memoria, pp. 59–60) della seconda sezione (Il porto sepolto), va a trovare il poeta, come se risorgesse dal cimitero francese in cui è sepolto, analogicamente sovrapposto alla visione ispiratrice del cimitero milanese.
I componimenti delle sezioni seconda, terza e quarta dell’Allegria sono sempre introdotti, diaristicamente, da luogo e data della composizione: queste informazioni forniscono un primo ancoraggio alla vita reale del poeta-soldato, rinforzato poi da eventuali spie deittiche nel testo.
Nella breve e densa poesia programmatica che dà il titolo alla seconda sezione, Il porto sepolto (p. 61), il deittico questa ha valenza enunciativa ma altresì testualmente anaforica, nel rinviare ai canti menzionati nei vv. 2–3: “Vi arriva il poeta / e poi torna alla luce con i suoi canti / e li disperde // Di questa poesia / mi resta / quel nulla / d’inesauribile segreto”. Il distale speculare quel, a differenza di quanto osservato in In Galleria con quello stagno, non indica tanto qualcosa di distante ma ha soprattutto un valore enfatizzante, sottolineando la vaghezza e inafferrabilità di una verità insondabile e capace d’ingenerare nel poeta una ricerca mai terminabile. I deittici accentuano quindi la contrapposizione tra la concretezza comunque precaria di questa poesia e quel nulla, cioè l’impercettibilità di un senso profondo e indecifrabile emerso tramite l’inabissamento nella profondità semantica della parola e la conseguente disseminazione / sbriciolamento dell’annuncio poetico. Il reciproco richiamarsi dei due dimostrativi contrapposti, dei quali l’uno deborda nella dimensione sconfinata introdotta dall’altro, rivela l’influenza del Leopardi dell’Infinito, dove, come commenterà lo stesso Ungaretti nel suo Secondo discorso su Leopardi (1950), “ciò che è presente è inavvertitamente passato nello spazio infinito dell’assenza, nel mare dove i poeti usano naufragare: il questo – anche il questo della siepe – s’è fatto quello.”28
In Lindoro di deserto (p. 62) il cronodeittico ora e il topodeittico questa abbozzano una cornice spazio-temporale alla descrizione plurisensoriale del ritorno dell’alba, che coinvolge la vista, l’olfatto, il tatto, e rianima la speranza e il desiderio, spezzando il buio della notte, indicato con sinestesia come silenzio degli occhi (v. 2) – gli occhi del poeta rimasti a vegliare nell’oscurità –:29 “Ora specchio i punti di mondo / che avevo compagni […] Da questa terrazza di desolazione / in braccio mi sporgo / al buon tempo” (vv. 8–9, 16–18). È in particolare l’avverbio ora a segnare il momento in cui il soggetto si apre a una rinnovata vitalità, a una dinamica riconciliazione con il mondo, “riprendendo nelle sue mani la bussola con cui orientare la pulsione a fare della vita e dell’arte un viaggio”.30 Il dimostrativo questa accompagna, invece, quello spiazzo / spazio di desertificazione bellica da cui lo stesso soggetto, nuovo Lindoro (nome di una maschera veneziana, come nota lo stesso Ungaretti, che in essa s’identifica)31 che sta riscoprendo “il suo talento di giocoliere”, può “protendersi […] per entrare in sintonia con la nuova, fausta congiuntura”.32 In Fase d’Oriente (p. 65), invece, i medesimi deittici questo e ora marcano, nell’ultima strofa, il ritorno alla dura realtà: “Ci rinveniamo a marcare la terra / con questo corpo / che ora troppo ci pesa” (vv. 8–10). Il riaccendersi del desiderio in un momento di evasione immaginativa, l’avvento propizio del sole che invita al sogno e il riaffioramento di aspettative per il futuro contrastano, infatti, con la consapevolezza del poeta, e dei suoi simili (da qui l’uso della prima persona plurale), di essere ancora vincolato al suolo bellico, quella terra cui lo riconduce il suo stesso corpo, che con il suo carico di sofferenza lo sottrae all’attimo di dolce svago mentale. Sono indicatori di simultaneità tra esperienza e poesia anche oggi in Annientamento (pp. 67–68, v. 22) e stasera in Stasera (p. 69, v. 2). Nel primo caso, l’avverbio acquista spicco costituendo un verso a sé, e immortala, insieme alla consueta indicazione spazio-temporale che precede la poesia, un giorno in cui il poeta si sente un tutt’uno con la natura che lo circonda fino a giungere a una sensazione di umile annullamento dell’io nel tutto: “Oggi / come l’Isonzo / di asfalto azzurro / mi fisso / nella cenere del greto” (vv. 22–26). Nel secondo testo, il deittico è una ripetizione del titolo e tinge di una tonalità vespertina l’elegante immagine analogica che si snoda dal primo al terzo verso: “Balaustrata di brezza / per appoggiare stasera / la mia malinconia”.
Di sapore crepuscolare33 è l’immagine del contadino dalla religiosità semplice e fiduciosa che l’autore contrappone alla propria anima solitaria e spoglia di speranze in Peso (p. 72). A segnalare il differente approccio alla vita delle due figure non sono soltanto lo stacco tra la prima e la seconda strofa e la congiunzione avversativa ma all’inizio di quest’ultima, ma anche il distale Quel che apre il componimento, aggiungendo all’indicazione spaziale di superficie la più sottile allusione alla diversità tra il pio personaggio e il poeta: “Quel contadino / si affida alla medaglia / di Sant’Antonio / e va leggero // Ma ben sola e ben nuda / senza miraggio / porto la mia anima”.
Molto più raro ma non per questo meno pregnante risulta l’impiego ungarettiano della deissi che abbiamo definito astanziale. Ho rintracciato un primo es. di deissi spaziale che dal tipo enunciativo sfuma decisamente verso quello astanziale (là) in C’era una volta (p. 78), breve trascrizione di un accostamento analogico tra attualità della visione di un pendio e visione mentale di un confortevole interno legato a un affettuoso ricordo, con ritorno finale al presente della notte lunare trascorsa al fronte: “Bosco Cappuccio / ha un declivio / di velluto verde / come una dolce / poltrona // Appisolarmi là / solo / in un caffè remoto / con una luce fievole / come questa / di questa luna”.34 Il tono favolistico / fiabesco del titolo prepara alla dimensione onirico-memoriale che congiunge circolarmente presente e passato. In tale cornice sospesa tra due tempi e spazi distanti e differenti, la similitudine come una dolce poltrona fa scoccare l’analogia tra il morbido declivio e la piacevole poltrona di un caldo e raccolto luogo di ritrovo, al quale accenna la seconda strofa, e l’avverbio là, collocato al centro della poesia, funge da snodo tra il comparante del pendio effettivamente guardato dal poeta, cioè la dolce poltrona, e la poltrona non menzionata ma evocata del caffè remoto oggetto del ricordo. Là è pertanto depositario di un’ambivalenza duplice, funzionando da avverbio anaforico se riferito a poltrona, e cataforico se lo si riferisce a un caffè remoto, e da deittico apparentemente enunciativo, se collegato a declivio, e – in realtà – astanziale nel rimandare, mediante il comparante del declivio, alla comoda seggiola del caffè sul quale le Note35 offrono delucidazioni. Quindi la luce fievole, quale elemento di congiunzione tra l’ambiente interno del sogno / ricordo e quello esterno del fronte illuminato dalla luna, riconduce, a sua volta, la visione dal passato al presente, e tale ritorno è enfatizzato dall’iterazione tautologica del prossimale spaziale questa, speculare al distale onirico là.36
Il topodeittico enunciativo questa è riproposto in Sono una creatura (p. 79), dove la ripetizione del verso che lo contiene (“Come questa pietra”, vv. 1, 9), insieme all’elenco incalzante degli attributi della pietra carsica scandito dall’anafora di così e tale da costituire un climax ascendente, enfatizza e radica nell’arida e amara realtà del fronte il comparato della corposa similitudine: il pianto che non si vede, il dolore muto, intimamente straziante del poeta.
Deissi enunciativa e deissi astanziale coesistono nuovamente nell’articolato componimento I fiumi (pp. 81–83), caratterizzato da una forte e diffusa presenza dell’io lirico:37 in esso Ungaretti rivisita la propria storia personale collegandola ai fiumi che ne rappresentano alcuni momenti miliari.38 Il deittico spaziale questo compare già nei primi due versi a rimarcare il coinvolgimento diretto del poeta nello scenario del Carso, segnato da distruzione (albero mutilato, con personificazione della pianta) e desolazione (la dolina in cui il soggetto si è rannicchiato, infatti, “ha il languore / di un circo / prima o dopo lo spettacolo”, vv. 3–5): “Mi tengo a quest’albero mutilato / abbandonato in questa dolina” (vv. 1–2). Il cronodeittico stamani (v. 9) definisce il momento dell’immersione nel fiume Isonzo, distinguendolo dalla fase della giornata in cui il poeta sta scrivendo, cioè di sera o di notte (“e guardo / il passaggio quieto / delle nuvole sulla luna”, vv. 6–8). Il deittico temporale è significativo nella misura in cui segna l’avvio dell’introspezione e della riscoperta biografico-esistenziale della propria identità, innescate dal bagno nel fiume, che, carico di una valenza sacrale, simboleggia il ritrovamento dell’armonia con la vita naturale (si vedano in particolare i vv. 27–41). L’importanza del fiume è a sua volta sottolineata dal prossimale questo e dal topodeittico qui, che ha anche un valore anaforico in riferimento appunto all’Isonzo: “Questo è l’Isonzo / e qui meglio / mi sono riconosciuto / una docile fibra / dell’universo” (27–31). Sembra poi avere funzione anaforica anziché deittica il dimostrativo quelle (v. 36), che introduce una personificazione metaforica e sineddochica del fiume menzionato poco prima: “Ma quelle occulte / mani / che m’intridono / mi regalano / la rara / felicità” (vv. 36–41).39 L’immersione nell’Isonzo spinge il poeta a ripensare al proprio vissuto, rappresentato, come si è anticipato, da alcuni fiumi, indicati con il deittico questi al v. 45: “Questi sono / i miei fiumi” (vv. 45–46). Questi potrebbe essere inteso come incapsulatore cataforico40 in quanto complessivamente riferito ai fiumi citati nel seguito della lirica. Tuttavia la ripetizione del deittico questo per ognuno dei corsi d’acqua ricordati rende forzata e testualmente non convincente l’interpretazione di questi come elemento cataforico. Sia tale dimostrativo che i successivi al singolare sono piuttosto deittici astanziali, che rievocano e attualizzano fiumi e quindi luoghi ed esperienze fisicamente e temporalmente distanti, legati alla stirpe toscana del poeta, alla sua infanzia egiziana, alla sua giovinezza e maturazione parigine: “Questo è il Serchio […] Questo è il Nilo […] Questa è la Senna […]” (vv. 47, 52, 57). L’iterazione anaforica di questo con funzione presentativa fa quasi pensare a un gesto della mano che indica ogni corso d’acqua e rimarca l’autoriconoscersi del poeta nelle diverse fasi della sua vita e formazione. L’unico elemento che in quanto distale ristabilisce per un attimo una distanza spazio-temporale tra presente e passato, cioè il vissuto parigino, è il dimostrativo quel, anch’esso comunque astanziale, riferito all’aggettivo sostantivato torbido, metafora della complessa e contradditoria vitalità culturale della capitale francese: “Questa è la Senna / e in quel suo torbido / mi sono rimescolato / e mi sono conosciuto” (vv. 57–60). Valore d’incapsulatore anaforico e di deittico astanziale insieme ha il questi riepilogativo del v. 61: “Questi sono i miei fiumi / contati nell’Isonzo” (vv. 61–62). Osserva efficacemente Saccone:
Il rintocco anaforico del pronome «questo» consegna le strofe legate da quella ripetizione sintattico-metrica ad un ritmo salmodiante, che convoca i fiumi assenti della memoria […], facendoli rivivere e riacquistare presenza nel fiume della guerra: «Questi sono i miei fiumi / contati nell’Isonzo» […]: contati, cioè enumerati ma anche raccontati e, per tale via, restituiti alla vitalità dell’immaginazione.41
La doppia funzione d’incapsulatore anaforico e indicatore astanziale caratterizza anche il dimostrativo del v. 63, avente inoltre un valore espressivo-emotivo: “Questa è la mia nostalgia / che in ognuno / mi traspare” (‘questi sono i fiumi e i momenti cruciali della mia esistenza, che mi provocano nostalgia’, vv. 63–65). Con passaggio dal concreto all’astratto, nel v. 63 si antepone metonimicamente l’indicazione dell’effetto (nostalgia) a quella della causa (il ricordo dei fiumi, cioè del passato in cui il poeta ritrova sé stesso), esplicitata nei due versi seguenti, creando una variatio rispetto ai vv. 61–62. L’espressione cronodeittica finale ora ch’è notte (v. 66) riporta alla cornice notturna della prima strofa e concorre a spiegare la malinconia del soggetto, dovuta alla diversità tra passato e presente: un presente segnato dalla notte, che non designa solo, letteralmente, la fine della giornata ma anche, metaforicamente, il clima tetro della guerra, che rende la vita del giovane soldato “una corolla / di tenebre” (vv. 68–69).
Si torna alla deissi enunciativa e al suo impiego in funzione contrappositiva in Pellegrinaggio (p. 84):42 “In agguato / in queste budella / di macerie / ore e ore / ho strascicato / la mia carcassa […] // Un riflettore / di là / mette un mare / nella nebbia” (vv. 1–6, 15–18). Il dimostrativo queste ha la funzione di additare e far percepire quasi visivamente lo spazio angusto e sudicio della trincea, compres(s)o tra le rovine prodotte dalla guerra e definito, con cruda analogia preposizionale, budella di macerie, nel quale il poeta è costretto a strascicare (va notata “l’energia tragico-negativa”43 di questo verbo, veicolata anche dai suoi suoni aspri) il suo corpo divenuto carcassa e suola consunta (“la mia carcassa / usata dal fango / come una suola”, vv. 6–8). La pregnanza del deittico dipende qui dal suo indicare non tanto vicinanza quanto aderenza a un ambiente sordido, in cui la vita si confronta costantemente con la minaccia della morte. La locuzione avverbiale di là dell’ultima strofa acquista spicco grazie alla sua coincidenza con il v. 16, e nel costituire anche un es. di deissi minima per l’indefinitezza del suo referente, crea una contrapposizione con lo spazio della prima strofa, rappresentando “una consolatoria apertura di orizzonte rispetto all’ambiente ristretto della trincea”.44 Ed è di segno positivo tutta l’immagine analogica del mare di luce del riflettore che rischiara la nebbia del verso finale. Tale positività è anticipata nella prima strofa da quell’esile segnale di speranza e possibile rinascita costituito dal seme di spinalba (vv. 9–10) cui l’io lirico si paragona. Come nel Porto sepolto, anche in questo componimento è stata colta l’influenza dell’Infinito leopardiano, principalmente per l’importanza attribuita ai deittici. Come notano finemente Afribo & Soldani,
avvicinano le due poesie una parola chiave come «mare» (in entrambe in posizione finale) e, soprattutto, la traiettoria dal ‘negativo’ al ‘positivo’ indicata dai deittici. Ovvero: da «questa siepe» a «di là da quella» in Leopardi; da «queste budella / di macerie» al «di là» del «riflettore» in Ungaretti (che tuttavia finisce problematicamente con la parola nebbia).45
In modo parzialmente simile a quanto avviene nei vv. 61 e 63 della poesia I fiumi, in Monotonia (p. 85), la ripetizione del topodeittico si accompagna a un passaggio dal concreto all’astratto. Nel primo testo l’indicatore ha funzione astanziale, come si è visto, e designa i fiumi rievocati e la nostalgia che essi comportano, con slittamento dal piano astanziale a uno più chiaramente espressivo-emotivo (“Questi sono i miei fiumi […] // Questa è la mia nostalgia”). Nel secondo componimento il deittico è associato all’immagine del cielo velato, quindi al sentimento che quest’ultimo concorre a determinare e che dà il titolo alla lirica, con slittamento dal piano (questa volta) enunciativo a quello emotivo: “languisco / sotto questa / volta appannata / di cielo […] // Nulla è più squallido / di questa monotonia” (vv. 2–5, 8–9). È da notare l’enfasi data alla prima occ. di questa dall’enjambement. La ripetizione con variazione del dimostrativo è pertanto applicata similmente in due testi che pure immortalano momenti e sentimenti ben diversi: nel primo caso, il momentaneo ritrovamento di un’armonia con la natura, che cessa, tuttavia, con il ritorno all’amara consapevolezza della situazione attuale, innescato dalla nostalgia e rappresentato dall’avvento della notte; nel secondo, sensazioni di esaurimento delle energie vitali (“languisco”, v. 2), soffocante angustia (“Il groviglio dei sentieri / possiede la mia cecità”, vv. 6–7), desolazione (i vv. 8–9 sopra citati), che, specularmente a quanto si osserva nei Fiumi, cedono il passo al contrastante e ameno ricordo della terra natale e della rigenerazione serale che essa consentiva, nella penultima e (soprattutto) nell’ultima strofa.
L’oscillazione tra ricordi e attimi rivitalizzanti e sofferta constatazione della tragicità del presente prosegue nei componimenti successivi con il puntuale coinvolgimento di deittici pertinenti. Sono forme cronodeittiche, ad es., quelle che fissano l’incanto della Notte bella (p. 86): stanotte e ora. Il poeta si lascia sedurre dal lieto canto proprio della notte, al quale aggiunge la voce del suo cuore, ritrovando, dopo la condizione di stasi e oscurità indicata con la metafora dei vv. 7–8, un’estatica comunione con la natura, un’armonia primigenia che ricorda quella tra una madre e il suo bambino, espressa dalla dolce e plastica similitudine del v. 10, indicativa di “un vorace appetito di vivere, infantilmente irrefrenabile”:46 “Quale canto s’è levato stanotte […] Quale festa sorgiva / di cuore a nozze // Sono stato / uno stagno di buio // Ora mordo / come un bambino la mammella / lo spazio // Ora sono ubriaco / d’universo” (vv. 1, 5–13). Vanno rilevate la posizione di spicco a fine verso del primo deittico temporale e l’anafora di ora: questa ricalca quella dell’aggettivo quale – il cui valore esclamativo è evidente nonostante l’assenza di punteggiatura, e che rimarca a sua volta sentimenti di gioia e speranza – e sottolinea appunto la raggiunta, inebriante sintonia con l’universo.
Il dimostrativo questo con funzione enunciativa torna a designare luoghi che rispecchiano la condizione del poeta in Sonnolenza (p. 88), dove esso introduce la personificazione dei monti che si mettono a dormire (“Questi dossi di monti / si sono coricati / nel buio delle valli”, vv.1–3), e in San Martino del Carso (p. 89), in cui vengono additate abitazioni che ridottesi a ruderi introducono la desolante constatazione dell’ancor maggiore distruzione che la guerra ha provocato tra le persone care al poeta, tutte presenti, tuttavia, nel ricordo del suo cuore devastato (“Di queste case / non è rimasto / che qualche / brandello di muro”, vv. 1–4).
In Distacco (p. 91) è usato invece un deittico enunciativo-espressivo autoreferenziale (ossia il soggetto indica sé stesso), seguito dalla forma pronominale -vi, indicante presumibilmente i lettori e con essi l’umanità: esso permette una più diretta descrizione / esibizione della soggettività del poeta: “Eccovi un uomo / uniforme // Eccovi un’anima / deserta / uno specchio impassibile” (vv. 1–5). Qui l’anafora dell’avverbio “mette in mostra una soggettività impersonale, esiliata da sé, costretta in una solitudine disanimata.”47 L’aggettivo uniforme ricompare come sostantivo in Italia (p. 95), dove indica qualcosa che il poeta indossa e con cui s’identifica, cosicché il deittico che lo precede, questa, assume in qualche misura anche in questo caso una funzione autoreferenziale: “E in questa uniforme / di tuo soldato / mi riposo / come fosse la culla / di mio padre” (vv. 11–15). Ciò che differenzia Distacco e Italia, come evidenzia Saccone,48 è il capovolgimento in positivo nel secondo testo della negatività del primo: l’uniforme, infatti, pur essendo distintivo della guerra, diventa qui espressione di appartenenza a uno stesso popolo (“Ma il tuo popolo è portato / dalla stessa terra / che mi porta / Italia”, vv. 7–10) e di “sintonia con l’anonima coralità dei soldati”. È proprio Italia, del resto, uno dei testi che più scopertamente esemplificano la poetica ungarettiana dell’unanimismo.49 Un ulteriore caso di deissi concernente lo scrivente stesso e che potremmo definire autodeissi si registra in Perché? (p. 93), dove il poeta riusa il dimostrativo questo, indicando espressivamente sé stesso in terza persona quale uomo irrequieto alla ricerca, contorta e affannosa, di consolazione, luce e conoscenza: “Da quando / ha guardato nel viso / immortale del mondo / questo pazzo ha voluto sapere / cadendo nel labirinto / del suo cuore crucciato” (vv. 11–16).50 Nuovamente autodeissi sembra esserci in Dolina notturna (p. 101), appartenente alla sezione Naufragi: anche qui lo scrivente, pur non usando la prima persona, lascia trasparire sé stesso nell’immagine del nomade introdotta da questo, esemplarmente evocativa del dinamismo e, nel suo comprendere la concreta ed efficace similitudine della foglia raggrinzita, della fragilità del poeta girovago: “Questo nomade / adunco / morbido di neve / si lascia / come una foglia / accartocciata” (vv. 6–11).
Questo torna ancora nella lirica Commiato (p. 96), che chiude la sezione Il porto sepolto ed è stata letta come una dichiarazione di poetica: “Quando trovo / in questo mio silenzio / una parola / scavata è nella mia vita / come un abisso” (vv. 9–13). Qui il deittico accompagna un sostantivo che si colloca a un livello intermedio tra concretezza e astrazione e indica un aspetto fondamentale della poetica e della versificazione dell’Allegria, appunto basata su diffusi spazi bianchi equivalenti a pause di silenzio, che per contrasto rimarcano l’affiorare della parola con il suo carico di rivelazione. Il dimostrativo sembra così avere una funzione di enunciazione nel designare il silenzio da cui scaturisce l’attività lirica e lo spazio vuoto a esso corrispondente sulla pagina, da cui emerge la parola. Ma esso ha anche una connotazione espressiva più profonda nella misura in cui allude a una soggettiva e intima (questo è seguito da mio) condizione di ricerca, che presuppone un silenzio di significati iniziale da riempire con l’attingimento del verbo poetico, a sua volta intriso di silenzio, scavato e abissale in quanto dotato di un’essenza semantica mai pienamente sondabile (quel nulla d’inesauribile segreto del componimento eponimo della sezione).
Si cambia contesto biografico-enunciativo (Napoli il 26 dicembre 1916) con il componimento Natale (p. 100), il secondo della sezione Naufragi. In esso il soldato in licenza Ungaretti, ospite a casa di amici a Napoli,51 esprime desiderio di quiete e raccoglimento domestico, dichiarando il suo rifiuto a immergersi nelle festose e movimentate vie cittadine e lasciando intendere di voler quasi spegnere, rimanendo in solitudine, la propria sensibilità umana (“Lasciatemi così / come una / cosa / posata / in un / angolo / e dimenticata”, vv. 8–14) per attutire le oppressive sofferenze (“Ho tanta / stanchezza / sulle spalle”, vv. 5–7) prodotte dall’atrocità della guerra. Tuttavia nel seguito della lirica il poeta mostra quanto in realtà sia vivo in lui il bisogno di calore familiare e affetti sinceri: i versi 15–18 costituiscono un endecasillabo, smembrato in quattro versicoli in modo da far risaltare la costruzione eccettuativa non… altro che, che pone in evidenza l’oggetto esclusivo del desiderio dell’autore: “Qui / non si sente / altro / che il caldo buono”. Lo smembramento del verso lungo così spezzato fa sì che acquisti rilievo anche il topodeittico Qui, implicitamente contrapposto a un là, quello del fronte bellico. L’avverbio costituisce un caso di deissi minima, ma la sua indefinitezza referenziale ha un indubbio valore evocativo; tra l’altro il contesto enunciativo è in parte esplicitato e illuminato dal “focolare” che “con le [sue] quattro / capriole / di fumo” occupa l’ultima strofa (vv. 19–23), oltre che dall’informazione offerta nelle Note.52
Il dimostrativo riacquista funzione enunciativa ma altresì di sottolineatura di una simbiosi emotiva tra io lirico e paesaggio in Dormire (p. 104), dove il paese coperto dalla neve come da un camice medico che copre le ferite della guerra è proiezione di un irrealistico (Vorrei) desiderio di pace: “Vorrei imitare / questo paese / adagiato / nel suo camice / di neve”. E sempre lo stesso deittico rimarca in Godimento (p. 108) un’ebbra apertura dell’enunciatore al dono della luce, che richiama tematicamente sia, anzitutto, il distico Mattina (p. 103), sia specularmente, dato il diverso momento della giornata quale contesto temporale, la comunione con la natura registrata nella già commentata Notte bella: “Mi sento la febbre / di questa / piena di luce // Accolgo questa / giornata come / il frutto che si addolcisce” (vv. 1–6). Il doppio enjambement tra questa e il sostantivo seguente mette in risalto tanto il dimostrativo, vagamente spaziale nella prima occ., temporale nella seconda, quanto piena di luce e giornata. Opposta a quella di Dormire appare la situazione tratteggiata in Un’altra notte (p. 110). Qui il consueto prossimale intensifica la sensazione greve del buio che assedia il soggetto; tale oscurità allude, come in altri componimenti, al clima cupo della guerra, nel quale il poeta si sforza comunque di preservare la consapevolezza della propria identità, e quindi della propria dignità, rappresentata dal viso: “In quest’oscuro / colle mani / gelate / distinguo / il mio viso” (1–5). Nuovamente rafforzata dal deittico enunciativo-espressivo questo, l’immagine della notte come metafora della tetra congiuntura bellica e delle tenebre esistenziali che ne derivano riappare nel componimento successivo, Giugno (p. 111–113), al quale conferisce circolarità venendo riproposta nel distico finale interrogativo: “Quando / mi morirà / questa notte […] Mi morirà / questa notte?” (vv. 1–3, 59–60). In questa lirica Ungaretti immagina di congiungersi passionalmente alla “donna amata in Alessandria”,53 cosicché, come si precisa nelle Note,54 il testo oscilla fra tratti dell’ambiente di guerra e altri del paesaggio africano sul quale si staglia la sensuale figura femminile. Questi due spazi sono idealmente collegati nell’undicesima strofa non solo dalla delicata analogia tra la chiusura, letterale e metaforica, del cielo terso in trincea e i gelsomini non ancora sbocciati, e dunque chiusi, dell’Egitto, ma anche da due cronodeittici indicanti contemporaneità, messi in risalto dalla loro coincidenza con i vv. 49 e 52 rispettivamente: “Ora / il sereno è chiuso / come / a quest’ora / nel mio paese d’Affrica / i gelsumini” (vv. 49–54). L’attimo presente diviene così punto di congiunzione di geografie distanti, delle quali quella legata alla prima giovinezza continua evidentemente a sopravvivere nell’immaginazione e nei sentimenti dello scrivente.
Ad anticipare la nuova stagione poetica che si esprimerà organicamente in Sentimento del Tempo è, com’è noto, l’ultima sezione dell’Allegria, Prime. Già il testo che la apre, Ritorno (p. 129), preannuncia l’emergere più netto dei motivi dell’assenza e della memoria e l’incipiente tendenza alla distensione metrica.55 Nella stessa lirica contribuisce a segnalare il momento inaugurale di un percorso tematico e formale distinguibile da quello dell’Allegria la ripetizione in posizione anaforica del deittico temporale ora in due versi legati dall’isocolo dato dalla sequenza ‘Ora è un + aggettivo + nome’: “Ora è un pallido involucro […] Ora è un arido manto” (vv. 2, 4). Il processo memoriale sembrerebbe innescato proprio dalla percezione dell’inespressività e aridità della superficie delle cose e dalla consapevolezza di quanto sia necessario, con il ritorno post-bellico dalla Francia in Italia,56 un ritorno a ritroso nel tempo in reazione al vuoto presente.
Il percorso Parigi–Milano porta l’io lirico a riproporre il confronto tra l’alienante vita urbana europea e la terra egiziana delle origini nella prosa lirica L’Affricano a Parigi (p. 130); denota l’immersione del poeta nella prima anche l’uso del prossimale questa: “Chi dall’esultanza di mari inabissati in cieli [= i luoghi natii] scenda a questa città, trova una terra opaca e una fuliggine feroce. Lo spazio è finito.” (rr. 4–6). La città in questione sembrerebbe Parigi, come potrebbe dedursi dal titolo, ma nelle Note il poeta precisa che il referente è un altro e che forse non si tratta affatto di un luogo ben preciso, ma di un’ideale convergenza di realtà urbane diverse accomunate dall’appartenenza all’Europa: “Non è Parigi, è Milano, od è sintesi di varie città d’Europa in quel momento.”57 Alla luce di tale glossa, la valenza realistico-enunciativa del deittico sfuma verso il livello minimo-simbolico: questa città è una città europea in senso lato, contrapposta, nel suo presentare (si noti l’icastico isocolo) una terra opaca e una fuliggine feroce, ai mari inabissati in cieli dell’Africa. A quest’ultima rinvia anche l’immagine del sole, rimarcata dal deittico astanziale-evocativo quel, speculare a questa: “Concesso mai non mi sarà più un allarme spregiudicato né in quel sole che scatenava e accomunava felici cose, incantevoli soste?” (rr. 7–9).
Il paesaggio parigino ricompare, come attesta lo stesso autore nelle Note,58 nella successiva prosa lirica, Ironia (p. 131). Le impressioni suscitate dall’avvento della primavera, percepito durante una malinconica passeggiata notturna grazie a un’empatica partecipazione al travaglio del Creato che rinasce (“Iddio non si dà pace. Solo a quest’ora è dato, a qualche raro sognatore, il martirio di seguirne l’opera.”, rr. 8–10),59 sono rese più vivide da un corredo di deittici spaziali e temporali che hanno il potere di attualizzare la suggestiva esperienza del poeta. Il dimostrativo che accompagna il sintagma tristezza di ritorni conferisce, invece, una certa densità al sentimento provato al ripetersi dei cicli naturali e, posto a inizio rigo grazie a un mirato enjambement, sembra avere una funzione di rafforzamento emotivo:
Si può seguire solo a quest’ora [la primavera] […]. È l’ora delle finestre chiuse, ma / questa tristezza di ritorni m’ha tolto il sonno. Un velo di verde intenerirà domattina da questi alberi, poco fa quando è sopraggiunta la notte, ancora secchi. […] Solo a quest’ora è dato, a qualche raro sognatore, il martirio di seguirne l’opera. Stanotte, benché sia d’aprile, nevica sulla città. (rr. 1–2, 4–7, 9–11).
L’iterazione della locuzione temporale solo a quest’ora rimarca l’eccezionalità del momento e quindi l’esperienza privilegiata del soggetto lirico, raro sognatore che, aggirandosi tra le case da solo, assorto nei propri pensieri, riesce a captare l’esordio della nuova stagione.
Il rientro in Italia porta Ungaretti a imbattersi nella città natale dei genitori, che dà il titolo alla prosa lirica Lucca (p. 133).60 La rievocazione della terra familiare prenatale era già avvenuta nell’undicesima strofa dei Fiumi, attraverso la convocazione memoriale del Serchio nei pressi dell’Isonzo. In Lucca, invece, l’io lirico appare fisicamente inserito negli spazi del comune toscano, menzionato con sintagmi accomunati dal topodeittico questo, avente comunque anche funzione anaforica dato che tali sintagmi rinviano al titolo del componimento: “questi posti” e “queste mura”, con sineddoche in entrambi i casi (nella prima occ., il plurale per il singolare, con effetto sfumante; nella seconda, le mura come parte – per il tutto – della città che marca visivamente l’identità municipale di Lucca), “queste persone” (rr. 2, 5, 10–11). Altro deittico spaziale, anch’esso anaforicamente riferibile al titolo, è qui: “Qui la meta è partire.” (r. 6). L’enunciato ricalca quello immediatamente precedente (“In queste mura non ci si sta che di passaggio.”, r. 5) sul piano semantico ma anche per la posizione iniziale dell’informazione spaziale, ed entrambe le affermazioni alludono al motivo dell’irrequietezza del soggetto girovago, aspetto che concorre a rendere il poeta simile agli abitanti della sua terra primigenia. In effetti a Lucca egli scopre la propria appartenenza ai luoghi degli avi e comprende anche il senso e la meta della vita che gli resta; questa presa di coscienza è affidata a passi di notevole intensità espressiva, contrassegnati dai deittici temporali ora (2 occ. in posizione anaforica) e ormai: “Ora lo sento scorrere caldo nelle mie vene, il sangue dei miei morti. […] Conosco ormai il mio destino, e la mia origine. […] Ora che considero, anch’io, l’amore come una garanzia della specie, ho in vista la morte.” (rr. 12–13, 19, 27–28, corsivo di anch’io nel testo).61
Lo slittamento dal passato al presente caratterizza anche il successivo e penultimo testo di Prime, Scoperta della donna (p. 134): al precedente tema del rapporto con le proprie origini, inteso anche come strumento di comprensione del futuro (la morte e la possibilità di sopravvivere tramite la prole), subentra qui il motivo altrettanto ma ancor più intimamente familiare del legame con la fida moglie, come si spiega anche nelle Note,62 dove il componimento è denominato epitalamio. Passato e presente si mescolano già al r. 1: “Ora la donna mi apparve senza più veli”: l’attimo presente, definito con un vaghissimo ora, riporta l’io lirico all’equivalente momento di un altrettanto indefinito passato (mi apparve), quello della conoscenza integrale della donna; ora sembra pertanto significare ‘in questa stessa ora tempo fa’. Con l’espressione, coerentemente generica, da quel tempo è quindi designato il tempo che segnò l’inizio di un’intimità fatta di sacralità, piacevolezza, spontaneità; un’intimità che perdura, come s’intuisce dall’uso del presente: “Da quel tempo i suoi gesti, liberi, sorgenti in una solennità feconda, mi consacrano all’unica dolcezza reale. In tale confidenza passo senza stanchezza.” (rr. 3–5). Dopo il ricorso a una deissi tendente al minimo, si torna, infine, all’attimo presente con la locuzione deittica In quest’ora, che le pur essenziali informazioni forniteci nel penultimo rigo, notte e chiarezza lunare, ci permettono d’inquadrare in una fase della giornata ricorrente nelle liriche ungarettiane e dotata di profonde risonanze semantiche: “In quest’ora può farsi notte, la chiarezza lunare avrà le ombre più nude.” (rr. 6–7).
Come anticipato e dimostrato, nell’Allegria è netta la prevalenza di deittici enunciativi; figurano anche casi di deissi espressivo-emotiva e di indicatori che si collocano a un livello indicale minimo e che proprio per questo accrescono la suggestività dei testi o caricano i vaghi referenti di un valore simbolico. Più rara è la comparsa di deittici astanziali, tuttavia preziosi strumenti di ancoraggio del presente a una sempre pregnante dimensione onirico-memoriale. Particolarmente espressivi risultano i deittici che ho definito autoreferenziali (Eccovi e questo/-a): la loro funzione enunciativa, infatti, si accompagna a una singolare sottolineatura di qualche aspetto della soggettività del poeta (lo spettro bellico della spersonalizzazione, l’inquietudine, la fragilità, ma anche il sentimento di appartenenza alla Nazione e alla comunità dei soldati-fratelli). La molteplice funzionalità dei deittici è dimostrata dal loro frequentissimo impiego in diversi contesti tematici, da quelli più strettamente biografico-esperienziali, nei quali gli indicatori definiscono spazi e tempi di una realtà dura e tragica o di una vitalità ritrovata o di una rigenerante armonia e simbiosi emotiva con la natura, a quelli in cui la memoria invade il presente e s’intreccia con esso, a quelli in cui si fanno spazio solenni momenti d’introspezione e di rivelazione epifanica. Si è mostrato come abbiano rilievo semantico anche i rapporti tra i deittici, investiti di un potere strutturante sul piano testuale. In particolare, la contrapposizione tra prossimali e distali (ess.: questo vs quello e (di) là) fissa distanze spaziali e temporali gravide di risonanze e opposizioni emotive, oppone e congiunge angustia di spazi reali e percezione di orizzonti indefiniti e liberanti (come in Pellegrinaggio), fragile materialità e inafferrabilità (come accade nella lirica Il porto sepolto nel definire l’agire del poeta), presente e passato. Nei frequenti casi in cui in un componimento troviamo più espressioni indicali, Ungaretti sembra affidare ai deittici il ruolo di perni del testo, ricorrendo, all’occorrenza, anche alla loro iterazione con eventuale variatio: essi non solo incorniciano ma anche scandiscono l’espressione di sentimenti e percorsi introspettivi e riflessivi, e tale funzionalità, che, come si è accennato, potremmo definire se non portante almeno strutturante, compare in liriche che presentano situazioni e processi tra loro diversi (benché accomunati a volte da immagini ricorrenti, come la notte), dimostrando la sua versatilità tematica. È emerso, infine, come anche la collocazione degli indicatori sia spesso ben studiata: troviamo casi in cui il deittico è ripetuto in posizione anaforica,63 o è posto a inizio o a fine verso, con ricorso all’enjambement, o coincide con un versicolo acquisendo spicco.
Il tema dello scorrere del tempo è introdotto già nella densa lirica di apertura della seconda silloge ungarettiana, O notte (p. 141), anticipatrice, sul piano retorico, della fascinazione barocca che caratterizza la nuova stagione poetica, e attraversata dal prediletto motivo della notte, metaforizzato dall’accostamento al potere dissolvente della morte e associato all’altrettanto metaforica allusione all’arida solitudine dello scrivente (“E già sono deserto.”, v. 12).64 La sensazione dominante trasmessa dal componimento è indicata dal poeta stesso al v. 13, efficacemente isolato ma connesso per assonanza e quasi consonanza al precedente ([…] deserto. // Perso […]), e a renderla quasi palpabile è il deittico questa, dotato di funzione espressiva: “Perso in questa curva malinconia.” Il modulo ‘deittico + sostantivo astratto’ indicante stato d’animo o condizione non è nuovo: come si è notato, figura più volte nell’Allegria (questa solitudine in Noia, questa […] nostalgia nei Fiumi, questa monotonia in Monotonia, questa tristezza di ritorni in Ironia).
Nella poesia Le stagioni (pp. 143–144) il cronodeittico ora, posto ad apertura della quarta e ultima sezione, parallelamente all’aulico Indi65 che apre la terza, esprime contemporaneità tra momento della scrittura e stagione invernale, cui corrisponde l’inverno della vita, la vecchiaia, simboleggiata dalla quercia spoglia ma resistente: “Ora anche il sogno tace. // È nuda anche la quercia, / Ma abbarbicata sempre al suo macigno.” (vv. 42–44). In Ricordo d’Affrica (p. 149) l’autore lamenta nostalgicamente l’impossibilità di rigustare le sensazioni offertegli dalla terra africana d’origine attraverso proposizioni coordinate negativamente con Non più ora […] né […] né più […] Né […] nella prima strofa, e l’uso di non più, Non e del vago e suggestivo rimando al passato un giorno nella seconda. La dolente rievocazione di un mondo mitico su cui si staglia la dea Diana, personificazione della luna,66 e che la memoria restituisce in una versione in negativo e come paralizzata sembra interrompersi bruscamente nell’ultimo verso: “Ah! questa è l’ora che annuvola e smemora.” (v. 23). Un improvviso smemoramento, metaforicamente associato a un passaggio di nuvole, sembra infatti impadronirsi del poeta, e l’espressione della simultaneità tra scrittura e appannamento dei ricordi è resa dall’interiezione Ah! e dal predicato nominale che, costruito con il dimostrativo questa enfaticamente collocato in posizione iniziale, fissa il momento in questione: il riferimento mitologico alla luna permette d’intuire che si tratta di un momento serale o notturno, che rimane comunque indefinito sul piano referenziale (deissi espressiva e tendente al minimo).
Anche nella seconda sezione, La fine di Crono, compaiono rari ma significativi crono-indicatori enunciativi di contemporaneità. In Aprile (p. 160) oggi, in posizione di fuoco dell’enunciato, rimarca l’avvento della stagione primaverile, personificata e associata all’adolescenza, secondo una corrispondenza molto cara a Ungaretti tra fasi dell’anno e della natura e periodi dell’esistenza umana:67 “È oggi la prima volta / Che le può aprire gli occhi, / L’adolescente.” (vv. 1–3). In Ti svelerà (p. 167) la locuzione di grande forza espressiva in quest’ora voraginosa, fonicamente enfatizzata dalla ripetizione di ora all’interno dell’aggettivo seguente e dall’assonanza di o e a, riguarda il momento in cui il poeta, sfidando il potere fagocitante della morte, si rende disponibile alla riscoperta delle sue memorie giovanili, vivamente invocate con triplice apostrofe nella speranza che, per mezzo della poesia, riemergano dalla voragine del passato:68 “Bel momento, ritornami vicino. // Gioventù, parlami / In quest’ora voraginosa. // O bel ricordo, siediti un momento.” (vv. 1–4). È da notare l’andamento isocolico dei versi 1, 2 e 4, che precedono la barocca descrizione dell’ora in oggetto nella quarta strofa, costruita anch’essa con un ritmo isocolico e contenente un triplice parallelismo ‘sostantivo + aggettivo’ e gli ossimori luce nera e stridi muti, che paiono sottolineare il combattimento tra lo sforzo della memoria per riportare alla luce ciò che fu e gli ostacoli rappresentati dalle tenebre e dai silenzi conseguenti alla finitudine del tempo: “Ora di luce nera nelle vene / E degli stridi muti degli specchi, / Dei precipizi falsi della sete…” (vv. 5–7).
Prima di passare alla parte successiva del volume, si noti quello che sembra essere l’unico caso, nel corpus in esame, di deissi propriamente fantasmatica,69 al v. 19 della poesia L’isola (p. 154), raffinata descrizione di un’avventura mitica che ha per protagonista un misterioso pastore viaggiatore e si svolge in un incontaminato ed enigmatico paesaggio arcadico:70 “Qua pecore s’erano appisolate / Sotto il liscio tepore” (vv. 19–20). Il topodeittico si riferisce a un prato con alberi che filtrano i raggi solari, appartenente a tale paesaggio insulare onirico e incantato, e contribuisce a immergere il lettore dentro quest’amena atmosfera bucolica.71
Il deittico di simultaneità ora viene nuovamente impiegato nella terza sezione, Sogni e accordi, ad ancorare l’attimo poetico alla vita naturale, in modo simile a quanto registrato in liriche della prima raccolta come Lindoro di deserto e La notte bella:72 “Ho atteso che vi alzaste, / Colori dell’amore, / E ora svelate un’infanzia di cielo.” (Rosso e azzurro, p. 187, vv. 1–3); “Nel fumo ora odo grilli e rane” (Sera, p. 191, v. 5). In entrambi i casi il cotesto consente di collocare intuitivamente il momento della giornata in cui il poeta annota il suo sintonizzarsi con la natura: il risveglio mattutino nel primo componimento, l’appressarsi della sera nel secondo (“Appiè dei passi della sera”, v. 1).
Sempre all’interno di Sogni e accordi, nella lirica Ultimo quarto (p. 178) il distale quelle pone in suggestiva lontananza un gregge di capre che, come altri animali, rivolge alla luna, apostrofata dall’io lirico nella prima strofa, misteriose domande di senso, che richiamano l’allocuzione alla luna del leopardiano Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, dove pure compare la greggia del pastore: “E alla pallida che diranno mai […] In sogno quelle capre […]?” (vv. 6, 8, 11). Lo stesso deittico ricorre nel Capitano (pp. 195–196), componimento di apertura della sezione successiva, Leggende; qui esso ha, però, valore astanziale-memoriale, additando la camera da letto dalla quale il poeta, da bambino, udiva latrati notturni che lo trasportavano, complice il tratto di sacralità della stanza stessa, in una dimensione spirituale trasognata, misteriosamente capace di rasserenarlo: “Se bimbo mi svegliavo / Di soprassalto, mi calmavo udendo / Urlanti nell’assente via, / Cani randagi. Mi parevano / Più del lumino alla Madonna / Che ardeva sempre in quella stanza, / Mistica compagnia.” (vv. 3–9). In Caino (pp. 212–213, quinta sezione: Inni), invece, al valore astanziale dello stesso deittico è associata una funzione enfatizzante: “quella mano / Che spezza come nulla vecchie querci” (vv. 7–8). Nel componimento in cui Caino rappresenta la focosa energia vitale dell’uomo, il dimostrativo, additando la mano, rimarca l’immagine sineddochica del vigore fisico.
In una raccolta che si fonda sulla dialettica tra precarietà dell’esistenza terrena e vagheggiamento di altrove mitici ed eternizzanti, punto di partenza di slanci verso un oltre che sembra venire incontro al tormentato desiderio di pienezza vitale del poeta è comunque il quaggiù: ed è proprio questo topodeittico enunciativo-espressivo, riferito non a un luogo ben definito ma alla limitatezza e alla finitudine della vita sulla terra, che compare in due liriche incluse tra le Leggende, Dove la luce (p. 199) ed Epigrafe per un caduto della rivoluzione (p. 203). Nel primo caso, il poeta invita un tu che potrebbe identificarsi con la persona amata a raggiungere con lui una dimensione atemporale, da cui sono banditi desiderio e afflizione, a compiere dunque un volo verso giorni nuovi, che comporta il lasciarsi alle spalle la terra e i suoi mali, compresi il pensiero della morte e la minaccia della guerra: “Ci scorderemo di quaggiù, / E del male e del cielo, / E del mio sangue rapido alla guerra, / Di passi d’ombre memori / Entro rossori di mattine nuove.” (vv. 4–8). Il significato del deittico è quindi in parte esplicitato nei vv. 5–7, ritmati dal polisindeto e dalla ripetizione della preposizione di (E del […] e del […] E del […] Di).
In Epigrafe è il combattente cui si riferisce il titolo a prendere la parola, affermando che proprio la lotta condotta in nome dei sogni, delle credenze e dell’amor patrio lo ha sottratto alla vita di quaggiù, mentre la Patria gli offriva in soccorso la propria “mano materna” (v. 8), accogliendo e conservando a eterna memoria il suo “giovane cuore” (v. 11): “Ho sognato, ho creduto, ho tanto amato / Che non sono più di quaggiù.” (vv. 1–2). Il tono del componimento è solenne e ispirato, come mostrano nel primo verso il tricolon con asindeto, l’assonanza in tanto amato e l’omoteleuto, e negli altri l’allitterazione di m (consonante con la quale iniziano i vv. 3–6) e artifici come il chiasmo (tra bella mano e mano materna nei vv. 3 e 8: “Ma la bella mano che pronta / Mi sorregge il passo già inerme […] È la mano materna della Patria.”), l’iperbole (“Mi pesa il braccio che ebbe volontà / Per mille”, vv. 6–7), la personificazione della Patria come madre e l’enumerazione per asindeto (“Forte, in ansia, ispirata, / Premendosi al mio petto, / Il mio giovane cuore in sé immortala.”, vv. 9–11), l’inversione finale (v. 11).
L’impiego contrappositivo degli indicatori spaziali, già riscontrato nell’Allegria, ricompare in modo originale nella lirica La preghiera (pp. 214–215), appartenente agli Inni. In essa l’invocazione al Signore (“Da ciò che dura a ciò che passa, / Signore, sogno fermo, / Fa’ che torni a correre un patto. […]”, vv. 10–12) segna il passaggio dall’amara constatazione della durezza della vita terrena, conseguente al peccato di presunzione, all’espressione del desiderio della salvezza, possibile solo se si ricostituisce un’alleanza tra Dio e l’uomo e se quest’ultimo si apre alla comprensione dell’amore divino e alla possibilità d’impiegare il cammino terreno attraverso la carne come “scala di riscatto” (v. 19) per giungere alla vita eterna. Il peso opprimente della condizione umana frustrata da illusioni di onnipotenza è espresso per mezzo di un’icastica similitudine, contenente l’avverbio distale liggiù, di sapore letterario,73 e volta a offrire una dimostrazione analogica realistica e concreta della fragilità dell’uomo: “La vita gli è di peso enorme / Come liggiù quell’ale d’ape morta / Alla formicola che la trascina.” (vv. 7–9). Il liggiù dove si muove la formica, la quale fa pensare, a sua volta, all’instancabile ma precario affaccendarsi delle formiche della lirica montaliana Meriggiare pallido e assorto (1916; in Ossi di seppia nel 1925),74 rimanda alla bassezza e alla meschinità di una vita priva di orientamento spiritualmente verticale. Dalla quarta strofa (vv. 10–12), sopra citata, l’invocazione prosegue in una strofa monostica, in cui figura il deittico questi con funzione espressiva: “Oh! rasserena questi figli.” (v. 13). A liggiù non si contrappone un avverbio prossimale – e sta qui la peculiarità di questo testo riguardo alla deissi – bensì un altro distale, lassù, indicante, nell’ultima strofa, l’agognato, unificante approdo alla patria celeste: “Vorrei di nuovo udirti dire / Che in te finalmente annullate / Le anime s’uniranno / E lassù formeranno, / Eterna umanità, / Il tuo sonno felice.” (vv. 21–26).
L’incombere delle tentazioni mondane, della cui pericolosità il poeta è pure consapevole, ricompare, tuttavia, in chiave soggettiva nella successiva poesia, Dannazione (p. 216). Come accade nei componimenti della prima silloge Perché? e Dolina notturna,75 anche qui si registra l’uso di un deittico autoreferenziale, in quanto nel dire espressivamente quest’anima lo scrivente indica in terza persona sé stesso, in modo simile a quando si era definito questo pazzo e questo nomade rispettivamente nelle due liriche appena rimenzionate: “Quest’anima / Che sa le vanità del cuore / E perfide ne sa le tentazioni […] Perché non può soffrire / Se non rapimenti terreni?” (vv. 7–14). Sia in questo che nei due casi precedenti l’oggettivazione di sé si dà in corrispondenza di momenti lirici di grande tensione, nei quali Ungaretti confessa la propria inquieta ricerca di significato e denuda la propria fragilità.
Meritano menzione, inoltre, ancora due occ. dell’indicatore di contemporaneità ora. In Sentimento del tempo (p. 218), lirica che chiude la sezione Inni, l’avverbio sottolinea la raggiunta consapevolezza dello scorrere del tempo, scandito dai palpiti del cuore, in direzione della morte: “Ogni mio palpito, come usa il cuore, / Ma ora l’ascolto, / T’affretta, tempo, a pormi sulle labbra / Le tue labbra ultime.” (5–8). È proprio l’incidentale Ma ora l’ascolto, coincidente con il v. 6 e contenente il cronodeittico in questione, a esprimere tale matura presa di coscienza. L’altra occ. di ora si ha in Canto (p. 230), seconda poesia della settima e ultima sezione, L’Amore: l’indicatore temporale tristemente segnala, a inizio verso, il momento in cui il poeta si ritrova a dolersi della propria solitudine, dovuta alla definitiva separazione dalla donna amata, rievocata, in un contesto di appassionata intimità fisica, nella prima strofa: “E la crudele solitudine / Che in sé ciascuno scopre, se ama, / Ora tomba infinita, / Da te mi divide per sempre.” (8–11). Va segnalato l’efficace accostamento di ora all’intensa metafora tomba infinita, che denuncia il carattere “irrimediabilmente mortifero”76 della solitudine provata.
Hanno valore anaforico in senso testuale, oltre a trovarsi in posizione anaforica, i dimostrativi questa e questo che troviamo in Canto beduino (p. 229), primo componimento della sezione finale: “Una donna s’alza e canta / La segue il vento e l’incanta / E sulla terra la stende / E il sogno vero la prende. // Questa terra è nuda / Questa donna è druda / Questo vento è forte / Questo sogno è morte.” L’associazione tra canto, incantesimo, passione amorosa e sogno che s’identifica con il sonno eterno (e non si dimentichi l’ascendenza leopardiana del legame tra amore e morte) è affidata a una musicale sequenza di ottonari nella prima strofa e di settenari nella seconda, animata eccezionalmente da rime baciate nonché dall’anafora di E oltre che dei dimostrativi, dal polisindeto nella prima quartina e dalla struttura isocolica nella seconda. Pur avendo, come si è detto, una funzione anaforica, questo e questa presentano anche una sfumatura deittica nella misura in cui, grazie anche alla martellante ripetizione, conferiscono concretezza alla scena pittoresca e travolgente della donna cantante e amante (si noti la ricercata ed espressiva voce letteraria druda ‘dedita ai piaceri dell’amore’77), vinta dal vento della passione e da un’ebbrezza onirica infine mortale.78
La presenza meno diffusa di deittici in Sentimento del Tempo rispetto all’Allegria non implica affatto, come si è notato, l’attribuzione di un minor rilievo semantico a quelli adoperati. Semmai negli indicatori del secondo libro si può riconoscere complessivamente un valore meno realistico-concreto e più riflessivo-esistenziale, in sintonia con la profonda e complessa riflessione, densa di suggestioni letterarie e mitologiche, sul tempo, sulla memoria, sul “sublime religioso”,79 sulla morte e sull’amore, che anima la seconda grande fase della poesia ungarettiana, caratterizzata da un’allusività della parola più sottile e misteriosa e dalla tendenza all’aulicismo e alla profusione barocca di accorgimenti retorici. Sono emersi moduli deittici comuni alle due sillogi, come la combinazione di deittico e sostantivo astratto o l’autodeissi espressa in terza persona, e affine tra L’Allegria e Sentimento è l’uso del cronodeittico di contemporaneità ora nel registrare attimi di sintonia tra io lirico e natura. Proprio quest’indicatore è abbastanza frequente in Sentimento, segnalando di volta in volta, ben a prescindere da una funzione strettamente e meramente referenziale, l’importanza dell’attimo poetico quale momento integrante e anzi miliare delle tappe e inquietudini del percorso biografico e della maturazione interiore del poeta. Ai deittici, come si è visto, è anche assegnata la funzione di concorrere all’espressione del dualismo tra il qui (o il liggiù) e l’oltre, ispirata da un sentire religioso-cristiano ora cosciente e stilisticamente supportato da “una poetica della solennità”.80 È evidente che in questi casi gli indicatori non additano referenti precisi e circoscritti ma piuttosto dimensioni ontologiche di ampio respiro. Non mancano casi di deissi astanziale, con finalità ora evocativa ora enfatizzante, ed emerge la forte connotazione espressiva, spesso associata a referenti spazio-temporali suggestivamente sfumati, di cui gli indicatori sono investiti.
L’ancoraggio della poesia alla lacerante esperienza dei lutti familiari e alla tragedia storica di una nuova guerra: è questa la funzione complessiva che Ungaretti sembra aver attribuito ai deittici impiegati nella terza raccolta. Le numerose occ. di ora, come si è detto all’inizio del § 2, fissano nel complesso la coincidenza tra momento lirico e intensità drammatica di situazioni segnate da acuta sofferenza e talvolta anche da barlumi di rigenerante speranza.
Già nella lirica eponima (e unica) della prima sezione, Tutto ho perduto (p. 241), il cronodeittico di simultaneità segna uno spartiacque tra la fase della vita precedente la morte del fratello del poeta, alla cui memoria la poesia è dedicata, e quella successiva alla sua scomparsa, che ha significato per Ungaretti l’irrimediabile perdita del legame memoriale con l’infanzia: “L’infanzia ho sotterrato / Nel fondo delle notti / E ora, spada invisibile, / Mi separa da tutto.” (vv. 4–7). Si noti come il v. 6 richiami il v. 10 del già ricordato Canto: “Ora tomba infinita”. In entrambi i casi ora è seguito da una vigorosa e struggente metafora, che nel componimento del Dolore designa la stagione infantile identificata con il fratello e smarrita per sempre. Valore presentativo-espressivo ha il deittico autoreferenziale eccomi, che accresce il dolente pathos della terza strofa: “Di me rammento che esultavo amandoti, / Ed eccomi perduto / In infinito delle notti.” (vv. 8–10).
Si torna alla tonalità diaristica dell’Allegria, ma in una prospettiva tragicamente rovesciata, ossia non più aperta a sviluppi sperabilmente positivi bensì, sul piano degli eventi, irreparabilmente chiusa, con il poemetto Giorno per giorno (pp. 245–249), coincidente con la seconda parte del volume: esso riguarda gli ultimi giorni di vita e la morte del figlio Antonietto e la conseguente disperazione del poeta, frammista a sublimi e agrodolci momenti di percezione della voce angelica del defunto.81 Il deittico temporale ora presenta 4 occ., tre delle quali poste a inizio verso e due delle quali anche a inizio strofa (la seconda e la quinta). Esso rimarca l’amarezza del sentimento della perdita – solo parzialmente compensata dall’immaginare e baciare il fanciullo vivo in sogno –, la sconfortata ricerca della voce innocente e rincuorante del figlio, e al contempo la sensazione di udirne dall’aldilà il celestiale richiamo, che in virtù della sua importanza esclusiva attutisce ogni altra voce terrena:
Ora potrò baciare solo in sogno / Le fiduciose mani… (vv. 8–9);
Ora dov’è, dov’è l’ingenua voce / Che in corsa risuonando per le stanze / Sollevava dai crucci un uomo stanco?… (vv. 20–22);
Ogni altra voce è un’eco che si spegne / Ora che una mi chiama / Dalle vette immortali… (vv. 25–27);
Inferocita terra, immane mare / Mi separa dal luogo della tomba / Dove ora si disperde / Il martoriato corpo… (vv. 32–35).
Il componimento contiene anche deittici spaziali. Il primo indica genericamente la vita mortale, come già in Dove la luce e in Epigrafe per un caduto della rivoluzione: “Ascolto sempre più distinta / Quella voce d’anima / Che non seppi difendere quaggiù…” (vv. 36–38). Non sfugga all’attenzione il dimostrativo quella, che pur non avendo qui un valore propriamente deittico, senz’altro dà risalto alla parola-chiave voce. Altri due topodeittici figurano nell’ultima strofa, dove il poeta immagina di sentir avvicinarsi a lui (qui vicino) l’anima di Antonietto, la quale, prendendo la parola, gli addita il sole (Questo sole) come simbolo di speranza e di una pace interiore ancora possibile, fondata sulla consapevolezza che la morte non impedirà al giovinetto di far avvertire al padre, bramoso di un contatto con lui, la propria delicata e luminosa presenza, promessa di eternità: “Fa dolce e forse qui vicino passi / Dicendo: ‘Questo sole e tanto spazio / Ti calmino. Nel puro vento udire / Puoi il tempo camminare e la mia voce. / Ho in me raccolto a poco a poco e chiuso / Lo slancio muto della tua speranza. / Sono per te l’aurora e intatto giorno’.” (vv. 88–94). L’avverbio rafforzativo vicino accentua la sensazione della misteriosa prossimità del bambino; il dimostrativo questo, poi, inserito nel discorso diretto attribuito allo stesso Antonietto, contribuisce a restituire di quest’ultimo una plastica immagine, come se davvero egli, apparendo al padre, indicasse il sole con un cenno della mano.
Le occ. di ora si addensano nella sezione Roma occupata, ispirata, come l’ultima (I ricordi), agli eventi bellici degli anni Quaranta: in particolare, nelle prime due delle tre parti di Mio fiume anche tu (pp. 268–270) troviamo ben 11 occ. della locuzione cronodeittica ora che in posizione anaforica, 2 di ora e una di ora ora. Come suggerisce la congiunzione anche del titolo della poesia, il fiume in questione, il Tevere, si ricollega ai fiumi biograficamente rilevanti citati nella lirica dell’Allegria I fiumi, ma, a differenza degli altri, diventa anche l’interlocutore, il confidente (“Mio fiume anche tu, Tevere fatale”, v. 1) di un’appassionata denuncia delle sofferenze prodotte dalla guerra, salvo cedere il posto a Cristo, salvatore sofferente, nei vv. 26–28 (“Cristo, pensoso palpito, / Perché la Tua bontà / S’è tanto allontanata?”) e quindi nella seconda strofa della seconda sezione e nella terza sezione. La martellante anafora di ora che, in 4 casi alleggerita dal solo che (vv. 7, 9, 11, 14), suona come il “salmodiante rintocco di una liturgica elencazione delle malefiche sciagure della storia presente”82 e genera una lunghissima successione di proposizioni temporali separate da punti e virgola (tranne che nel passaggio dalla prima alla seconda parte), che determina una sintassi a cascata e sospesa: questa provoca, a sua volta, una lunga, inquietante e spossante attesa, che culmina nella frase principale, contenuta solo nell’ultimo verso (v. 46) della seconda sezione:
Ora che notte già turbata scorre; / Ora che persistente / E come a stento erotto dalla pietra / Un gemito d’agnelli si propaga / Smarrito per le strade esterrefatte (vv. 2–6);
Ora che scorre notte già straziata (v. 13);
Ora che già sconvolta scorre notte (v. 18);
Ora che insopportabile il tormento / Si sfrena tra i fratelli in ira a morte; / Ora che osano dire / Le mie blasfeme labbra: / “Cristo, pensoso palpito, / Perché la Tua bontà / S’è tanto allontanata?” (vv. 22–28);
Ora che pecorelle cogli agnelli / Si sbandano stupite e, per le strade / Che già furono urbane, si desolano; / Ora che prova un popolo / Dopo gli strappi dell’emigrazione, / La stolta iniquità / Delle deportazioni; / Ora che nelle fosse / Con fantasia ritorta / E mani spudorate / Dalle fattezze umane l’uomo lacera / L’immagine divina / E pietà in grido si contrae di pietra; / Ora che l’innocenza / Reclama almeno un’eco, / E geme anche nel cuore più indurito; / Ora che sono vani gli altri gridi; / Vedo ora chiaro nella notte triste. (vv. 29–46).
Il v. 46, in cui è ancora replicato, con funzione enfatizzante, l’avverbio ora, indica il raggiungimento di una chiarificante consapevolezza pur nell’atmosfera tenebrosa del momento, metaforicamente rappresentata dalla notte triste, che, “turbata”, “straziata” e “sconvolta”, compare già, enunciata dalla locuzione ora che, nei vv. 2, 13, 18. Tale presa di coscienza sarà illustrata nei vv. 47–51. Intanto si osservi come i vv. 2, 13 e 18 siano fortemente legati non solo dall’anafora dell’espressione temporale ma anche dall’epanalessi, con variazione degli attributi riferiti alla notte, e da una struttura chiastica: tra notte già turbata scorre e scorre notte già straziata, quindi tra scorre notte già straziata e già sconvolta scorre notte. La locuzione ora ora, messa in risalto dalla cesura che la segue, apre, invece, il v. 20 e con maggior enfasi accentua la simultaneità tra poesia e tragica realtà: “Ora ora, mentre schiavo / Il mondo d’abissale pena soffoca” (vv. 20–21). Infine, il v. 47, “Vedo ora nella notte triste, imparo”, che include una parziale ripetizione del verso precedente, introduce, insieme al climax ascendente formato dai verbi vedo, imparo e so, l’oggetto della “risolutiva agnizione”83 cui il poeta è pervenuto: la tribolazione s’innesca sulla terra se l’uomo, guidato dalla follia, rifiuta di condividere la passione del Signore, cioè di farsi carico generosamente del dolore universale: “Vedo ora nella notte triste, imparo, / So che l’inferno s’apre sulla terra / Su misura di quanto / L’uomo si sottrae, folle, / Alla purezza della Tua passione.” (vv. 47–51). Il motivo metaforico della notte non è certo una novità di questa raccolta; figura, ad es., come si è ricordato, nella poesia I fiumi, in cui troviamo anche l’accostamento tra ora che e la registrazione dal vivo di un momento notturno: “ora ch’è notte / che la mia vita mi pare / una corolla / di tenebre” (vv. 66–69).
Ora che riappare in collocazione anaforica nel primo testo dei Ricordi, L’angelo del povero (p. 275). Il momento stavolta evidenziato è quello in cui le oscurate menti, cioè i superstiti della guerra ancora storditi dalla violenza e dalla sofferenza, prendono coralmente coscienza dei lutti causati dal conflitto, e il silenzio delle perdite subite fa spazio a una lacerante pietà. Con una sintassi simile a quella adoperata in Mio fiume anche tu ma molto più snella, a due proposizioni temporali fa seguito la principale, che anche in questo caso con il deittico ora, esprime la speranza di un risveglio di umanità, più che mai necessario nel momento presente e personificato dall’angelo del povero, pia immagine di antico sapore bozzettistico e crepuscolare, dietro la quale si potrebbe anche scorgere il poeta stesso: “Ora che invade le oscurate menti / Più aspra pietà del sangue e della terra, / Ora che ci misura ad ogni palpito / Il silenzio di tante ingiuste morti, // Ora si svegli l’angelo del povero, / Gentilezza superstite dell’anima…” (vv. 1–6).
Se la ricercatezza stilistica della terza silloge è eredità di Sentimento del Tempo, il vigore drammatico e l’urgenza emotiva e comunicativa del Dolore (e nel caso di Giorno dopo giorno anche il taglio simil-diaristico) fanno pensare al primo libro di poesie, pur essendo differenti le fasi storiche, i motivi ispiratori e le stesse condizioni di scrittura. E proprio la pulsione a tradurre in canto ora la sfuggente ma preziosa voce di chi non c’è più, ora la denuncia della brutalità umana e del dolore che questa produce, ora lo smarrimento cagionato dai lutti, ora epifanie di senso e aneliti di fraternità, conferisce spessore espressivo anche ai deittici enunciativi, nel Dolore prevalentemente temporali.
Più in generale, per mezzo degli indicatori i testi ungarettiani si agganciano più saldamente alla vita reale, individuale e collettiva, o ai contenuti della memoria e dell’immaginazione, e introiettano l’esperienza del mondo e dello spirito dentro coordinate la cui osservazione può arricchire la comprensione, l’interpretazione e la valorizzazione del messaggio poetico.
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Zublena, P. (2014): Dopo la lirica. In: Antonelli, Motolese & Tomasin (2014; 2018; 2021), vol. I (Poesia: 403–452).
Tra gli ormai numerosissimi contributi su Ungaretti, rientranti principalmente nell’ambito della storia e della critica letteraria, si vedano, riguardo alla lingua e allo stile delle due sillogi maggiori, almeno i seguenti e i riferimenti bibliografici ivi indicati: l’ancora utilissimo P. Spezzani: ‘Per una storia del linguaggio di Ungaretti fino al «Sentimento del tempo»’, in: F. Bandini et alii: Ricerche sulla lingua poetica contemporanea, Padova: Liviana, 1966: 91–160, che offre anche un’accurata ricostruzione dei riferimenti letterari dell’autore; P. V. Mengaldo, ‘Giuseppe Ungaretti’, in: P. V. Mengaldo (ed.): Poeti italiani del Novecento, Milano: Mondadori, 1978: 381–391; P. V. Mengaldo: Storia dell’italiano nel Novecento, seconda ed., Bologna: il Mulino, 2014: 218–222, 397–399; V. Coletti: ‘Forme della testualità in Ungaretti’, Stilistica e metrica italiana 2, 2002: 217–233, sulla messa in discussione dell’unità-testo, evidente soprattutto in Sentimento del Tempo; A. Afribo & A. Soldani: La poesia moderna. Dal secondo Ottocento a oggi, Bologna: il Mulino, 2012: 81–87, 194–197; le osservazioni sparse in S. Bozzola: ‘La crisi della lingua poetica tradizionale’, in: G. Antonelli, M. Motolese & L. Tomasin (eds.): Storia dell’italiano scritto, 6 voll., vol. I (Poesia), Roma: Carocci, 2014: 353–402; P. Zublena: ‘Dopo la lirica’, in: Storia dell’italiano scritto, op.cit.: 403–452, pp. 410–412; U. Motta (ed.): Tra grido e sogno. Forme espressive e modelli esperienziali nell’Allegria di Giuseppe Ungaretti, Atti del Convegno, Friburgo 20–21 marzo 2014, Bologna: Emil, 2015. Fondamentale il profilo dell’autore tracciato da A. Saccone: Ungaretti, Roma: Salerno Editrice, 2012; utili anche il ritratto di Ungaretti poeta costituito dalla riedizione aggiornata di diversi contributi di C. Ossola: Ungaretti poeta, Venezia: Marsilio, 2016, e l’ormai antico ma sempre valido C. Ossola: Giuseppe Ungaretti, Milano: Mursia, 1975 (ed. ampliata 1982). Pregevole, infine, la rilettura dell’intera esperienza poetica ungarettiana sulla base del motivo fondativo del naufragio, offerta da G. Savoca: Naufragio senza fine. Genesi e forme della poesia di Ungaretti, Firenze: Olschki, 2019. I numeri di pagina associati ai componimenti che saranno citati si riferiscono all’ed. G. Ungaretti: Vita d’un uomo. Tutte le poesie, testi secondo l’ed. “I Meridiani” 2009 a cura di C. Ossola, cronologia di L. Piccioni, con studi di L. Piccioni, G. De Robertis, A. Gargiulo & P. Bigongiari, Milano: Mondadori, 2016, alla quale si rinvia anche per gli studi introduttivi.↩︎
Così il poeta definisce sé stesso in Pellegrinaggio (p. 84, v. 12).↩︎
Per una trattazione comparativa della deissi spaziale in italiano e nelle lingue europee si veda F. Da Milano: La deissi spaziale nelle lingue d’Europa, Milano: FrancoAngeli, 2005. Sui deittici dell’italiano si vedano almeno C. Andorno: Che cos’è la pragmatica linguistica, Roma: Carocci, 2005: 36–42; A.-M. De Cesare: Deittici, in: R. Simone (directed by): Enciclopedia dell’Italiano, 2 voll., vol. I, Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana, 2010: https://www.treccani.it/enciclopedia/deittici_(Enciclopedia-dell’Italiano)/ (consultato il 04.10.2021); M. Palermo: Linguistica testuale dell’italiano, Bologna: il Mulino, 2013: 119–142.↩︎
Tale “‘trionfo’ della prima persona” (A. Afribo & A. Soldani: La poesia moderna, op.cit.: 83) si esprime anche attraverso moduli iterativi. Solo tre ess. dalla sezione Il Porto Sepolto: “Chi mi accompagnerà pei campi […] Resto docile […] E piombo in me // E m’oscuro in un mio nido” (in A riposo, p. 64); “Colle mie mani plasmo il suolo […] mi modulo […] M’ama non m’ama / mi sono smaltato […] mi sono radicato […] sono cresciuto […] mi sono colto […] mi fisso […] mi trasmuto […] Ho sulle labbra / il bacio di marmo” (in Annientamento, pp. 67–68); “Mi tengo a quest’albero mutilato […] e guardo […] Stamani mi sono disteso […] ho riposato // L’Isonzo scorrendo / mi levigava […] Ho tirato su / le mie quattr’ossa / e me ne sono andato […] Mi sono accoccolato / vicino ai miei panni […] mi sono chinato a ricevere / il sole […] mi sono riconosciuto / una docile fibra […] Il mio supplizio / è quando / non mi credo / in armonia // Ma quelle occulte / mani / che m’intridono / mi regalano / la rara / felicità // Ho ripassato / le epoche / della mia vita […] i miei fiumi […] gente mia campagnola / e mio padre e mia madre […] il Nilo / che mi ha visto / nascere e crescere […] mi sono rimescolato / e mi sono conosciuto // Questi sono i miei fiumi […] Questa è la mia nostalgia / che in ognuno / mi traspare […] la mia vita mi pare / una corolla / di tenebre” (in I fiumi, pp. 81–83).↩︎
Italia (p. 95, v. 2).↩︎
Per la deissi nel primo Ungaretti cfr. C. Ossola: Giuseppe Ungaretti, op.cit.: 248–253.↩︎
Girovago (p. 123, vv. 24–25).↩︎
P. V. Mengaldo: ‘Giuseppe Ungaretti’, op.cit.: 384.↩︎
Scrive Ungaretti: “La mia poesia è nata in realtà in trincea […]. La guerra improvvisamente mi rivela il linguaggio […] poche parole piene di significato che dessero la mia situazione di quel momento” (M. Diacono & L. Rebay [eds.]: G. Ungaretti: Vita d’un uomo. Saggi e interventi, Milano: Mondadori, 1974: 820).↩︎
Cfr. A. Afribo & A. Soldani: La poesia moderna, op.cit.: 87.↩︎
V. Coletti: ’Forme della testualità in Ungaretti’, op.cit.: in part. 230–233.↩︎
Ibid.: 222.↩︎
Cfr. E. Testa: ‘“Sur la corde de la voix”. Funzioni della deissi nel testo poetico’, in: U. Rapallo (ed.): Linguistica, pragmatica e testo letterario, Genova: il melangolo, 1986: 113–146. Casi d’incrinatura di un rapporto cristallino tra deittici e referenti extratestuali, e di “deissi della leggerezza” e della lontananza, in cui i rapporti istituiti tra forme linguistiche e oggetti si fanno più impercettibili, sfaccettati, cangianti e sfumati, non mancano, tuttavia, neppure nella prosa narrativa, come mostra E. Testa: ‘Deissi della leggerezza e segni dell’attesa’, Autografo 19, 1990: 3–18, citando alcuni racconti italiani degli anni Ottanta del Novecento. In tali occasioni “le forme deittiche […] sfiorano le cadenze che spesso assumono nel testo poetico” (ibid.: 7).↩︎
Ibid.: 15.↩︎
E. Testa: ‘“Sur la corde de la voix”’, op.cit.: 117.↩︎
Ibid.: in part. 120–121, 128.↩︎
Ibid.: 128–131.↩︎
Ibid.: 129, corsivo nel testo.↩︎
Ibid.: 136–139.↩︎
Il corsivo delle forme deittiche nelle citazioni che seguiranno è sempre mio.↩︎
A. Afribo & A. Soldani: La poesia moderna, op.cit.: 82.↩︎
Sta per ‘occorrenze/-a’.↩︎
Sul processo variantistico cui è sottoposto il componimento, in direzione dell’“essenzialità lirica” e di una maggiore suggestività, si veda P. Spezzani: ‘Per una storia del linguaggio di Ungaretti’, op.cit.: 122–124.↩︎
‘Note a cura dell’Autore e di Ariodante Marianni’, in: G. Ungaretti: Vita d’un uomo. Tutte le poesie, op.cit.: 557–637, p. 580.↩︎
Idem.↩︎
Ibid.: 581.↩︎
Idem.↩︎
M. Diacono & L. Rebay [eds.]: G. Ungaretti: Vita d’un uomo. Saggi e interventi, op.cit.: 492, corsivo nel testo. Si vedano A. Saccone: Ungaretti, op.cit.: 50–51; C. Ossola: Ungaretti poeta, op.cit.: 29. Sulla deissi nell’Infinito e anche nella successiva produzione poetica leopardiana si veda P. Zublena: ‘L’infinito qui. Deissi spaziale e antropologia dello spazio nella poesia di Leopardi’, in: C. Gaiardoni (ed): La prospettiva antropologica nel pensiero e nella poesia di Giacomo Leopardi, Atti del XII Convegno Internazionale di Studi Leopardiani, Recanati 23–26 settembre 2008, Firenze: Olschki, 2010: 365–376.↩︎
Si veda l’autoparafrasi parziale della poesia in M. Diacono & L. Rebay [eds.]: G. Ungaretti: Vita d’un uomo. Saggi e interventi, op.cit.: 298.↩︎
A. Saccone: Ungaretti, op.cit.: 68.↩︎
‘Note a cura dell’Autore’, op.cit.: 585.↩︎
A. Saccone: Ungaretti, op.cit.: 69. Sulla polisemia del nome-locuzione lind’oro, segnalata anche dalle sue mutazioni ortografiche, si veda Ibid.: 52, 68–69.↩︎
Sulle cadenze crepuscolari rintracciabili nella poesia ungarettiana, e sul lavoro variantistico e di rielaborazione delle liriche che vede la progressiva eliminazione di queste influenze si vedano G. De Robertis: ‘Sulla formazione della poesia di Ungaretti’ (1945/2016) in: G. Ungaretti: Vita d’un uomo. Tutte le poesie, op.cit.: LI–LXVI, pp. LI–LXI; P. Spezzani: ‘Per una storia del linguaggio di Ungaretti’, op.cit.: 94–95, 110–112, 121–122, 152–153.↩︎
Nelle ‘Note a cura dell’Autore’, op.cit.: 586, il poeta precisa che il caffè remoto del testo “allude a uno di quei caffè frequentati dai miei amici che facevano la rivista neoellenica ‘Grammata’ e dove andavamo Sceab e io a sorbirci il serale yogourth.”↩︎
Idem.↩︎
Si vedano C. Ossola, F. Corvi & G. Radin (eds.): Commento a L’Allegria, in: G. Ungaretti: Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura e con un saggio introduttivo di C. Ossola, Milano: Mondadori, 2009: 813–908, p. 866; l’illuminante commento a C’era una volta di A. Saccone: Ungaretti, op.cit.: 69–71. Sempre a proposito di questa lirica, non convince l’opinione di E. Testa: ‘“Sur la corde de la voix”’, op.cit.: 143, n. 5, tra l’altro espressa sbrigativamente e con scarsa chiarezza, secondo cui i deittici qui raggiungerebbero “assoluta indeterminazione” e costruirebbero uno spazio testuale-verbale autoreferenziale, chiuso in sé stesso. Il principio del valore assoluto della parola su cui si fonda la poetica ungarettiana e con cui il suddetto studioso tenta di giustificare la propria interpretazione coesiste piuttosto con la puntuale ricerca di radicamento della soggettività nel mondo empirico e, tramite questo, in un altrove anteriore e/o immaginativo. Sia la funzione astanziale che quella realistico-enunciativa degli indicatori rafforzano anzi la capacità del testo di accogliere e collegare per via analogica esperienza dal vivo e vissuto compreso nella sfera della memoria e del sogno.↩︎
Si veda la n. 4.↩︎
Si veda il commento di A. Saccone: Ungaretti, op.cit.: 58–60.↩︎
Nelle ‘Note a cura dell’Autore’, op.cit.: 586, Ungaretti fornisce un’interpretazione esistenziale del sintagma quelle occulte mani, non in contrasto con quella più letterale qui fornita, se s’intende che il fiume assume per un momento la funzione di restituire il poeta al suo destino di elemento vitale dell’universo: “Sono le mani eterne che foggiano assidue il destino di ogni essere vivente.”↩︎
Per la definizione di incapsulatore anaforico, estensibile, mutatis mutandis, anche alle forme cataforiche, si veda M. Palermo: Linguistica testuale dell’italiano, op.cit.: 86–87.↩︎
A. Saccone: Ungaretti, op.cit.: 60.↩︎
Si veda il puntuale commento di A. Afribo & A. Soldani: La poesia moderna, op.cit.: 194–197.↩︎
Ibid.: 195.↩︎
Idem.↩︎
Ibid.: 195–196, corsivo nel testo.↩︎
A. Saccone: Ungaretti, op.cit.: 69.↩︎
Ibid.: 63.↩︎
Idem.↩︎
Si veda il § 1. Si veda l’accurato commento al componimento in A. Saccone: Ungaretti, op.cit.: 56–58, 60–63.↩︎
Nelle ‘Note a cura dell’Autore’, op.cit.: 586, Ungaretti confessa che questa poesia coincide con un suo iniziale avvicinamento consapevole alla fede dei padri.↩︎
“Fui accolto, in quella licenza, nella vastissima casa napoletana del mio amico Gherardo Marone.” (Ibid.: 587).↩︎
Idem.↩︎
Idem.↩︎
Idem.↩︎
Si veda A. Saccone: Ungaretti, op.cit.: 85.↩︎
‘Note a cura dell’Autore’, op.cit.: 588.↩︎
Idem.↩︎
Idem.↩︎
Il medesimo motivo della rinascita della terra come sfiancante fatica appare già in Si porta (p. 122, sezione Girovago).↩︎
Si veda il commento di A. Saccone: Ungaretti, op.cit.: 77–82.↩︎
Come si nota finemente in Ibid.: 82, “lo scoprirsi esito di una tradizione è il presupposto per la realizzazione del futuro. Questo per il poeta Ungaretti significherà riacquistare il senso del tempo, senza il quale si è privi di passato e di presente […], ritornare alla misura dei classici”: è ciò che avverrà in Sentimento del Tempo.↩︎
‘Note a cura dell’Autore’, op.cit.: 588–589.↩︎
Va tenuta distinta, ovviamente, l’accezione retorico-strutturale di anafora, adoperata in questo caso come anche nelle pagine precedenti, dall’accezione testuale, anch’essa adottata da chi scrive con attenzione a evitare, di volta in volta, confusione tra i due significati.↩︎
Si veda il commento di A. Saccone: Ungaretti, op.cit.: 111–113.↩︎
Definito “letter.” in S. Battaglia & G. Bàrberi Squarotti (eds.): Grande Dizionario della Lingua Italiana, 21 voll., Torino: UTET, 1961–2002: http://www.gdli.it/ (consultato il 21.06.2022).↩︎
Cfr. ‘Note a cura dell’Autore’, op.cit.: 598.↩︎
Si veda A. Saccone: Ungaretti, op.cit.: 111.↩︎
Commentando Ti svelerà, scrive il poeta nelle ‘Note a cura dell’Autore’, op.cit.: 599: “Il prodigio del momento poetico e della presenza del passato accentuano il sentimento tragico della fuga del tempo. Non si può nulla cogliere, se non sotto forma di ricordo poetico, come se la morte sola fosse capace di dare forma e senso a ciò che fu vissuto. […] La memoria trae dall’abisso il ricordo per restituirgli presenza, per rivelare al poeta se stesso.”↩︎
In presenza di deissi fantasmatica, pur utilizzando deittici enunciativi, “il locutore chiama il destinatario a trasferirsi idealmente in un campo indicale diverso da quello dell’enunciazione. Immaginiamo la seguente conversazione: ‘Quando arrivo a casa, dove trovo il controller della play-station?’ ‘Apri il mobile sotto la TV e te lo trovi subito qui a destra’.” (M. Palermo: Linguistica testuale dell’italiano, op.cit.: 121, grassetto nel testo).↩︎
Per una sintetica ma esaustiva illustrazione del contenuto e dello stile del testo si veda A. Saccone: Ungaretti, op.cit.: 115–117.↩︎
P. Spezzani: ‘Per una storia del linguaggio di Ungaretti’, op.cit.: 145, ha colto in questo testo affinità stilistiche, lessicali, di situazione e soprattutto di atmosfera con L’isola delle capre, XVIII frammento dell’Ultimo viaggio contenuto nei Poemi conviviali (1904) di Pascoli. Qui basti aggiungere che anche quest’ultimo impiega un deittico fantasmatico (qui) per rinviare a un luogo pianeggiante (il lido) che invita al sonno; nell’Isola ungarettiana a dormire sono delle pecore, nel componimento pascoliano sono i navigatori giunti nell’isola, abitata da capre: “E giunse alfine all’isola selvaggia / ch’è senza genti e capre sole alleva. / E qui vinti da sonno e da stanchezza / dormian sul lido a cui batteva l’onda.” (vv. 4–7).↩︎
Si veda il § 2.↩︎
Come conferma s.v. S. Battaglia & G. Bàrberi Squarotti (eds.): Grande Dizionario della Lingua Italiana, op.cit. (consultato il 21.06.2022).↩︎
Si noti come Montale, a differenza di Ungaretti, dia una collocazione nello spazio ben più precisa alla sua immagine: “Nelle crepe del suolo o su la veccia / spiar le file di rosse formiche / ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano / a sommo di minuscole biche.” (G. Zampa [ed.]: E. Montale: Tutte le poesie, Milano: Mondadori, 1990: 30, vv. 5–8).↩︎
Si veda il § 2.↩︎
A. Saccone: Ungaretti, op.cit.: 137.↩︎
Cfr. drudo in Grande Dizionario Italiano dell’Uso, ideato e diretto da T. De Mauro, con la collaborazione di G.C. Lepschy & E. Sanguineti, 6 voll., Torino: UTET, 1999–2000 (8 voll., seconda ed. 2007).↩︎
Si veda A. Saccone: Ungaretti, op.cit.: 136–137.↩︎
Ibid.: 124.↩︎
Ibid.: 125.↩︎
Si vedano G. Guglielmi: Interpretazione di Ungaretti, Bologna: il Mulino, 1989: 80; il puntuale commento al componimento di A. Saccone: Ungaretti, op.cit.: 214–218.↩︎
Ibid.: 224.↩︎
Ibid.: 225.↩︎