Verbum – Analecta Neolatina XXV, 2024/1
ISSN 1588-4309; https://doi.org/10.59533/Verb.2024.25.1.7
Abstract: Through his works, d’Azeglio (1798–1866) contributed to the formation of Italian national identity in the Risorgimento. This paper aims to examine d’Azeglio’s changing perspectives on Unification in the different stages of his career. Between 1829–30 and 1844–45, he wrote historical novels (Ettore Fieramosca (1833), Niccolò de’ Lapi (1841)) in which he portrayed the value of brotherhood. From 1845, he dealt with the institutional, political and social problems of the Risorgimento in many pamphlets: Degli ultimi casi della Romagna (1846), I lutti di Lombardia (1848), Questioni urgenti (1861). These works show that the author arrived at increasingly negative considerations towards unification. His last work, the incomplete autobiography I miei ricordi (1867), represents that he felt that unification had only caused the degradation of Italy. The evolution of the author’s opinion highlights the complexity of the period and also shows why his reception underwent various changes in the last 150 years.
Keywords: Massimo d’Azeglio, Risorgimento, Unification, opinione pubblica, national identity, historical novel, political discourse, autobiography
Riassunto: D’Azeglio (1798–1866) attraverso le sue opere contribuì alla formazione dell’identità nazionale italiana nel Risorgimento. Questo lavoro si propone di esaminare il mutamento delle prospettive di d’Azeglio sull’Unità nelle diverse fasi dell’attività letteraria. Tra il 1829–30 e il 1844–45 scrisse romanzi storici (Ettore Fieramosca (1833), Niccolò de’ Lapi (1841)) in cui rappresenta il valore della fratellanza. Dal 1845, in molti pamphlets, si occupò dei problemi istituzionali, politici e sociali dell’epoca: Degli ultimi casi della Romagna (1846), I lutti di Lombardia (1848), Questioni urgenti (1861). Queste opere dimostrano che l’autore arrivò a considerazioni sempre più negative nei confronti dell’unificazione. Dall’ultima opera, l’autobiografia incompiuta I miei ricordi (1867), si deduce che ritenne che l’unificazione avesse causato soltanto la degradazione dell’Italia. L’evoluzione del pensiero dell’autore relativo al Risorgimento evidenzia la complessità del periodo, inoltre dimostra perché la sua ricezione subì vari mutamenti negli ultimi 150 anni.
Parole-chiave: Massimo d’Azeglio, Risorgimento, l’unificazione, opinione pubblica, l’identità nazionale, romanzo storico, discorso politico, l’autobiografia
Negli eventi tumultuosi della vita politica e culturale della prima metà dell’Ottocento, Massimo Taparelli d’Azeglio (1798–1866), proveniente dalla nobiltà piemontese del Regno Sardo, fu uno degli esponenti maggiori del Risorgimento italiano. Fu un personaggio poliedrico: prima pittore, poi scrittore e infine soldato-politico,2 egli mirava allo sviluppo dell’opinione pubblica della società e contribuiva, con il suo talento artistico, alla creazione dello Stato unito e alla formazione della coscienza nazionale.3 La ricezione della sua figura e della sua importanza ha subito dei mutamenti nella storia politico-culturale italiana dagli anni 1840–50 fino ai giorni d’oggi. Claudio Gigante pone l’attenzione sul fatto che, al di fuori della sua attività esemplare e riconosciuta all’epoca, alcuni dei contemporanei di d’Azeglio lo ritenevano buontempone, un dilettante della politica e ammiratore esagerato del sesso debole.4 Nel periodo post-unitario e, soprattutto dopo la sua morte, fino alla fine del secolo, veniva considerato uno dei simboli dell’indipendenza nazionale, ma in seguito, proprio per tale appellativo, durante il dominio di Mussolini, fu ritenuto uno dei precursori del fascismo.5 Come Giuseppe Mazzini nell’Ottocento, Antonio Gramsci critica d’Azeglio nei primi decenni del XX secolo. Mazzini credeva che le idee moderate di d’Azeglio fossero prive di profondità e scopo nazionale, incapaci di portare l’Italia all’Unità, mentre, secondo Gramsci, “[…] d’Azeglio era un Cavour meno intelligente e meno uomo di Stato, ma politicamente si rassomigliavano: non si trattava tanto per loro di unificare l’Italia, quanto di impedire che operassero i democratici.”6 Nella storia politico-culturale dell’Italia di oggi, d’Azeglio viene ricordato per la sua opposizione ai tentativi garibaldini e all’unificazione del Nord e Sud Italia.7
Tuttavia, la voglia di fare patriottica caratterizzò tutta la sua carriera. Questa sua determinazione, riportata anche nel titolo, è descritta nella lettera del 24 settembre 1865, indirizzata a Gaspero Barbèra.8 Le parole di d’Azeglio rappresentano una sintesi del suo credo artistico: nel 1865, l’autore aveva 67 anni e, pur essendo consapevole delle sue deboli condizioni di salute, parlava della sua vocazione al presente, e non come se fosse già terminata, insinuando che non si finisce mai di essere patriota. Il pensiero secondo cui ognuno deve sottoporsi ai doveri imposti dall’epoca nonostante gli ostacoli personali o provocati dalla situazione politica, diventa un messaggio patriottico che implica, per la società, un modello di comportamento da seguire, allo scopo di raggiungere l’unificazione politica e sociale della penisola. Inoltre, in base a questo concetto, è ragionevole supporre che d’Azeglio ritenesse la propria vita, la carriera e la produzione letteraria utili e meritevoli di essere ricordata anche dalle generazioni successive: in tal modo, il suo credo artistico e politico non sarebbe rimasto legato al passato, ma sarebbe sopravvissuto nel futuro come esempio sempre attuale.
Partendo da questa idea, il presente contributo si propone di esaminare l’evoluzione della questione dell’identità nazionale nell’opera di d’Azeglio. Secondo l’ipotesi, è possibile identificare una relazione tra i mutamenti del pensiero dazegliano riguardo alla coscienza nazionale e i passaggi da un genere letterario all’altro: ogni cambiamento nel suo modo di pensare, è seguito da una svolta nella sua produzione letteraria e trattatistica.
Innanzitutto, per comprendere l’evoluzione del pensiero nazionale dal punto di vista politico, occorre descrivere e distinguere i termini come opinione pubblica e spirito nazionale (o spirito pubblico) i quali, benché in due modi diversi, avevano un ruolo fondamentale nel tentativo di rendere la società più cosciente del suo ruolo nella creazione dell’Unità. Opinione pubblica è un termine oggettivo che delineava la capacità della società di poter ragionare in base a valori comuni e che mirava a creare una comunità che fosse sensibile e interessata ai problemi sociali, politici, culturali, in modo da poterne discutere costruttivamente.9 Spirito nazionale è una categoria più soggettiva che rappresenta l’insieme dei tratti e dei sentimenti del popolo o della comunità. Nel contesto Ottocentesco, riguarda il modo con cui il popolo si rivolge alle autorità e ai sovrani: ad esempio l’indole rivoluzionaria (uno spirito nazionale frequentemente presente nel Risorgimento), dal punto di vista dei cittadini, è la manifestazione della loro scontentezza ed è valorizzata nel nome della causa italiana, mentre, per le autorità e per i sovrani oppressivi, è una minaccia al loro potere.10 Lo spirito nazionale reagisce agli eventi dell’epoca, mentre la società unita nella sua opinione pubblica può diventare l’ente ineludibile della politica e dell’ambito civile.
La funzione della letteratura di influenzare efficacemente il modo di pensare della società venne riconosciuta nel periodo risorgimentale perciò, accanto alla politica, la letteratura divenne un altro campo di battaglia nelle questioni nazionali. Basta menzionare alcune opere: Le ultime lettere di Jacopo Ortis (1802) di Foscolo, le canzoni civili di Leopardi, le tragedie (Il Conte di Carmagnola (1820), l’Adelchi (1822)) e I promessi sposi (1827, 1840) di Manzoni.
D’Azeglio, intorno al 1829–30, mentre lavorava ancora come pittore, riconobbe che la letteratura era assai più efficace di quanto non lo fosse la pittura nella trasmissione dei temi patriottici e nell’incentivare la comunicazione sociale sulla situazione politica e culturale in Italia.11 Riteneva la prosa, ma soprattutto il romanzo storico, uno strumento per trattare i temi patriottici attraverso cui svegliare l’orgoglio nazionale negli italiani. Fece il suo debutto da scrittore con Ettore Fieramosca o La disfida di Barletta (1833) e Niccolò de’ Lapi ovvero I Palleschi e i Piagnoni (1841). Assieme alla terza opera, Lega Lombarda (incompiuta, gli otto capitoli furono pubblicati nel 1857 su Il Cronista), queste segnano la prima vera e propria fase della sua carriera letteraria:12 tra il 1829–30 e il 1844–45, egli si occupò, oltre che della pittura, anche della letteratura di alto stile. In questo periodo, d’Azeglio credeva, senza alcun dubbio, nel successo dell’unificazione di tutta la penisola e scelse i romanzi storici per elaborare le proprie idee intorno alla questione. Il genere gli garantiva la trasmissione efficace dei modelli di comportamento patriottico, infatti, i romanzi storici del Risorgimento avevano proprio lo scopo di rievocare i valori e le virtù individuali, la morale e la gloria della società del Medioevo e del Rinascimento italiano.13
Il Fieramosca e il de’ Lapi sono opere accomunate dal messaggio patriottico e fanno capire i concetti di base dell’idea dazegliana: combattere contro lo straniero e liberare la penisola con la forza degli italiani uniti. In Fieramosca, tale messaggio è presente, ad esempio, nelle parole di Prospero Colonna, che incoraggia così i cavalieri prima del combattimento: “[…] voi Lombardi, Napoletani, Romani, Siciliani. Non siete forse tutti figli d’Italia ugualmente?”,14 mentre, in de’ Lapi, la fratellanza è elevata ad un livello sociale e civile, cioè, è in correlazione con il comportamento patriottico dei cittadini nell’ambiente politico-municipale.15 Il passaggio tra le due componenti centrali delle narrazioni, i sentimenti nazionali nel contesto cavalleresco e la coscienza politica, dimostra, da una parte, un lieve mutamento nel modo di pensare dell’autore, dall’altra, invece, evidenzia la complessità dell’interpretazione del concetto della nazione: Banti sottolinea che quest’ultima, secondo le considerazioni del tempo, doveva essere costituita sia dagli individui legati tra di loro da tratti e valori comuni, sia dall’esistenza di uno stato e di un diritto politico creato dagli stessi individui.16 Il valore della fratellanza acquisisce un’importanza maggiore quando è messo in atto per creare un contrasto con la rappresentazione dei nemici dell’Italia, in speciale modo se questi sono italiani che, per acquisire potere e soldi, si schierano a fianco degli stranieri, diventando traditori della patria. Il pensiero, secondo cui i veri nemici dell’Italia sono gli italiani stessi, riceverà un’altra sfumatura nella poetica dazegliana negli anni 1850–60, di cui si tratterà più in avanti. Tutto ciò si riferisce alla disunità ottocentesca: molti non riconoscono il valore della fratellanza nella nazione, oppure continuano a servire le potenze straniere. La decadenza morale provocava negli intellettuali italiani un senso di vergogna di cui anche d’Azeglio parla ne I miei ricordi.17 Silvana Patriarca spiega che la vergogna è uno dei motori più efficaci per sollevare i popoli dall’indifferenza; per questo veniva inserita molto spesso nella narrativa politico-artistica del Risorgimento.18 Tale ruolo, assunto dalla vergogna, è presente in Fieramosca nel motivo della disfida (l’accusa dei francesi all’onore italiano in cui si riconosce il concetto di foreigner’s gaze di Patriarca),19 in modo indiretto nel discorso già citato di Colonna, ma anche nel rimprovero di Brancaleone, quando Ettore si attarda perché vuole vedere Ginevra prima di andare al duello. Nel de’ Lapi, il protagonista anziano biasima i fedeli, la cui paura per la lotta ai muri della città crea trambusto e disturbo durante la messa. Una delle scene più forti, che unisce l’amor patrio e la vergogna di essere traditore della patria, è quella di Niccolò che caccia la figlia Lisa che, in segreto, si è sposata e ha avuto un bambino da Troilo, il nemico di Firenze. Il discorso contiene il ventaglio delle espressioni dell’epoca nel contesto del tradimento alla patria: “femmina d’inferno”, “vergogna”, “vergogna della tua casa”, “darti anima e corpo al nemico”, “perversa”, “scellerata”.20
Per contrastare la vergogna (nazionale) e creare un modello di virtù, d’Azeglio incarnò nei protagonisti Ettore e Niccolò i valori che riteneva importanti per la creazione della nuova società: il coraggio, la forza, l’onestà, l’onore, la fratellanza, l’amor patrio, il sacrificio di se stessi. Banti sottolinea che d’Azeglio, in questi romanzi, elaborò molto bene gli archetipi letterario-sociali dell’epoca: l’eroe, il traditore e l’eroina, la cui figura simboleggia l’Italia venerata dall’eroe e disonorata dal traditore.21 I due protagonisti posseggono il senso di dovere e la voglia di fare a cui si riferisce la citazione nel titolo, che d’Azeglio formulò similmente anche nell’introduzione del de Lapi’: “Questo secondo lavoro, che anch’esso si raggira su un fatto non meno onorevole al nome Italiano, promette […] non aver un affetto, non un pensiero, che non sia dedicato alla patria.”22 Grazie al loro atteggiamento, descritto nei romanzi, l’Italia riacquista l’onore, il che fa capire che, all’inizio della sua carriera, d’Azeglio riteneva possibile l’ascesa della società italiana.
Nella seconda fase della sua carriera, che durò dal 1844–45 fino al 1861, d’Azeglio intraprese l’attività politica e quindi, dalla scrittura letteraria, passò alla scrittura politica esprimendo i suoi pensieri sull’andamento del Risorgimento in pamphlets, trattati e discorsi politici.23 D’Azeglio, per trattare i temi nazionali e patriottici, non rappresentò più personaggi dotati di una perfezione e solidità nelle virtù quasi irrealizzabile, ma intraprese una via molto più pratica e molto più comprensibile ai lettori. Grazie a questo cambiamento, egli divenne uno dei primi esponenti dei sostenitori e coltivatori dell’opinione pubblica in quanto permetteva la formazione diretta del modo di pensare degli italiani. In questo periodo, d’Azeglio scrisse, ad esempio, Degli ultimi casi della Romagna (1846), I lutti di Lombardia (1848), Dell’emancipazione civile degl’israeliti (1848), Questioni urgenti (1861). Viene collocata in questi anni anche la raccolta postuma Scritti politici e letterari (1872). Nel presente lavoro vengono analizzate le opere del 1846 e del 1861.
Nella trattatistica, d’Azeglio fece il suo debutto nel 1846 con Degli ultimi casi della Romagna. Meriggi afferma che fu proprio quest’opera a gettare le basi della formazione dell’opinione pubblica italiana,24 De Sanctis la considerava il primo scritto veramente politico in Italia25 ed era fonte di ispirazione e modello per Luigi Settembrini nella stesura del suo trattato Protesta del popolo delle due Sicilie (1847).26 D’Azeglio, andando contro l’ideologia e lo spirito nazionale di allora, sottolinea che le rivoluzioni, fra le quali anche quella della Romagna del 1845, sono controproducenti27 e ci vorrebbe un unico leader politico per liberare la penisola. Quindi, parla poco della rivolta mentre, al contrario, descrive dettagliatamente la sofferenza e l’arretratezza dello Stato Pontificio e il potere temporale del Papa che, in verità, non rappresenta l’unità dei cristiani, e impedisce qualsiasi modernizzazione dello Stato. Secondo le posizioni di d’Azeglio, dunque, i problemi dello Stato Pontificio non si originano soltanto dalla negligenza del Papa, ma anche dall’arretratezza della Chiesa rispetto alle idee moderne considerate da essa “pericolose”:28 con ciò si spiega perché si rifiutava di migliorare il sistema ferroviario, lo sviluppo dei porti e del commercio, e perché poneva scarsa attenzione all’unificazione dei sistemi fiscali e doganali. D’Azeglio crede fermamente — perché convinto delle sue opinioni anticlericali così come della controproduttività dell’atteggiamento del Papa — che, se il Pontefice provasse a correggere i difetti e le ingiustizie del sistema giuridico, “[…] avrebbe grandissima difficoltà […] riformando il suo Stato […] egli regge per via ministri che […] l’userebbero contro il principe quando volesse correggerli a danno del loro utile privato.”29 Per questi motivi, il nostro non poteva mai vedere nella Chiesa corrotta e impotente una forza unificatrice della nazione.30
La rivoluzione del 1848, la prima e la seconda guerra d’indipendenza degli anni 1849 e 1859 lasciarono d’Azeglio deluso: nello svolgimento degli eventi non riuscì a vedere la formazione della società virtuosa e basata sulla fratellanza per cui egli combatteva. All’alba del raggiungimento dell’Unità, tra gennaio e marzo 1861, scrisse il trattato Questioni urgenti, in cui analizza i decenni del Risorgimento e le sue promesse non realizzate. La sua delusione è dovuta al fatto che la società, benché avesse capito l’importanza dell’opinione pubblica, non riuscì ad “unificarsi”, rendendosi, così, facilmente influenzabile dalle varie ideologie e tendenze.31
Per quanto riguarda la questione dell’Unità, sin dagli anni 1850, si può identificare un mutamento nel pensiero dell’autore, che è probabilmente correlato al riconoscimento della mancanza di una vera nazione. Nonostante i tentativi letterario-culturale-politici del nostro, la penisola rimase frammentata, il che indicava l’impossibilità di portare a termine l’unificazione organica. La lettera scritta a Castelli, il 12 settembre 1860, dimostra che, nonostante d’Azeglio desiderasse tanto acquistare Napoli alla causa nazionale, gli pareva impossibile.32 Come è stato chiarito sopra, ai suoi occhi fu sempre più evidente che la fratellanza era minacciata dalla rivalità: negli anni 1850–60, d’Azeglio non riteneva più che l’Austria fosse il nemico più pericoloso per il futuro Stato unito bensì il Regno delle Due Sicilie.33 Allo stesso modo, pensava che gli italiani stessi, più che gli stranieri, fossero pericolosamente d’ostacolo alla nascita della società unita italiana.
Quest’ultimo pensiero deluso introduce I miei ricordi, l’autobiografia incompiuta e pubblicata postuma nel 1867. L’opera principale dell’autore, che contrassegna la terza e l’ultima fase della sua carriera, e che costituisce anche un ritorno alla scrittura non trattatistica, è la sintesi di tutto il Risorgimento. Nell’opera, la rappresentazione dei momenti della vita (raccontata dalla nascita fino a maggio del 1846) serve da cornice per affrontare i pensieri dell’autore in merito alla politica, società, cultura, economia risorgimentale. Nella premessa, l’autore chiarisce che vuole offrire le sue esperienze alla nazione: Claudio Gigante vede in tutto ciò un ultimo tentativo dazegliano di educare gli italiani e fissare nella memoria della nazione il ruolo che egli aveva negli avvenimenti risorgimentali.34 Tuttavia, l’ultima lezione ai suoi contemporanei è la conclusione tragica sull’epoca: “[…] gl’Italiani hanno voluto far un’Italia nuova, e loro rimanere gl’Italiani vecchi […].”35 Durante gli anni del Risorgimento, negli italiani non si verificò una rinascita della morale e del comportamento patriottico: secondo Silvana Patriarca, l’autore metteva proprio la rinascita della morale in rilievo nella formazione della nazione, “fare gli Italiani” non aveva lo scopo di rendere gli italiani omogenei culturalmente.36
L’incompiutezza del libro pone anche un’ulteriore domanda: ovvero se la mancanza di rievocazione degli ultimi vent’anni della sua vita fosse spiegabile esclusivamente con la morte dell’autore, oppure se ci fosse dietro un silenzio voluto intorno alla fine del processo unitario. In base agli appunti del manoscritto custodito nell’Archivio di Stato di Torino, Schema per i miei ricordi, si può supporre che l’autore avesse l’intenzione di raccontare la propria vita fino ai primi eventi della rivoluzione del 1848, dato che riteneva fosse quello il primo momento in cui erano risultati evidenti gli ostacoli del Risorgimento, cioè l’inizio della delusione.37
In sintesi, nell’opera di d’Azeglio, si può identificare l’evoluzione del pensiero nazionale-patriottico, che trova echi anche nel passaggio tra i vari generi che egli scrisse. Nel caso dei romanzi storici, il messaggio nazionale è più idealizzato e messo in scena attraverso i protagonisti, che sembrano elaborati ed artificiosi per essere presi come modelli. A causa della sua svolta politica e, probabilmente, per sollecitare meglio lo spirito del popolo nella società, d’Azeglio scrisse, dagli anni 1840, i trattati politici e i pamphlet: in questo modo, la trasmissione dell’importanza dell’Unità acquisì un tono più civile per poter parlare concretamente, e non moraleggiando, dei problemi politico-sociali che erano presenti in Italia. La scelta di ritornare alla letteratura può essere spiegata dal fatto che il genere dell’autobiografia gli permetteva di parlare della sua vita elaborando, con un forte tono di ironia, il tema della delusione, e di rendere evidente il suo ruolo nella formazione della nazione. Non si tratta, però, di vanagloria, bensì di umiltà e di modestia, in quanto la vita è degna di essere raccontata solo se l’individuo la interpreta nel contesto socio-politico in cui vive: quindi colloca le esperienze personali nella storia della comunità.
L’evoluzione del pensiero dazegliano è in simbiosi con gli eventi politico-militari e riguarda fortemente la forma e gli strumenti con cui d’Azeglio elabora l’argomento nazionale, la voglia di formare l’opinione pubblica e l’identità nazionale non cambia. In base alla sua opera, si può supporre che d’Azeglio abbia immaginato un nuovo stato basato sulle riforme moderate, sull’opinione pubblica e sul sistema anticlericale.
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Per quanto riguarda il profilo politico, d’Azeglio tra il 1848 e il 1849 partecipò alla prima guerra d’indipendenza da colonnello dell’esercito papale, dal 1849 fino al 1852 fu il primo ministro del Regno Sardo. Nel 1959 ebbe il ruolo del Commissario straordinario nelle Romagne, e tra il 1860 e il 1861 fu eletto il Governatore della Provincia di Milano. In tutta la sua carriera politica condivise le idee del filone politico-ideologico dei moderati-liberali. Il Partito Moderato aveva l’obiettivo di ottenere l’Unità attraverso le riforme e non con i mezzi rivoluzionari. Tuttavia c’erano delle differenze tra i moderati: Gioberti voleva che l’Italia diventasse unita sotto la confederazione dei singoli stati con la direzione del papa, mentre secondo Balbo la soluzione l’ideale era la nascita di una monarchia, giudata dalla casata Savoia, che avrebbe inglobato tutta la penisola. D’Azeglio apparteneva al filone rappresentato da Balbo, ma negava l’importanza di qualunque setta o società segreta: nella sua opinione l’Italia unita doveva nascere dovuto alla morale e al modo di pensare comune del popolo italiano ed un tale atteggiamento andava formato dall’opinione pubblica. L’idea dell’opinione pubblica, che si riferisce alla capacità della società di discutere costruttivamente e di possedere un modo di pensare unico sul futuro dell’Italia, divenne la parola-chiave del pensiero dazegliano.↩︎
M. Brignoli: Massimo d’Azeglio. Una biografia politica, Milano: Mursia, 1988; C. Gigante: La nazione necessaria. La questione italiana nell’opera di Massimo d’Azeglio, Firenze: Franco Cesati Editore, 2013: 16.↩︎
C. Gigante: La nazione…, op.cit.: 20.↩︎
Idem.: 11.↩︎
A. Gramsci: Quaderni del carcere, Torino: Einaudi, 1975: 213.↩︎
C. Gigante: La nazione…, op.cit.: 11.↩︎
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M. Meriggi: ʻOpinione pubblicaʼ, op.cit.: 160–162.↩︎
“[…] mi venne considerato che, data l’importanza del fatto, e l’opportunità di rammentarlo per mettere un po’ di foco in corpo agl’Italiani, sarebbe riuscito molto meglio, e molto più efficace, raccontato che dipinto. – Dunque raccontiamolo! dissi. E come? – Un poema? che poema! Prosa, prosa, parlare per esser capito per le vie e per le piazze, e non in Elicona!” M. d’Azeglio: I miei ricordi, Firenze: Barbera, 1891: 464.↩︎
Nel fondo d’Azeglio dell’Archivio di Stato di Torino sono custodite delle poesie patriottiche attribuite a d’Azeglio, tuttavia la datazione di queste opere è sconosciuta (carte del ASTo, Carte d’Azeglio, Mazzo 2, n. 22.). Si può sostenere che appartengano ad un’esercitazione giovanile o scolastica e che probabilmente d’Azeglio non ne era soddisfatto, dal momento che egli non menziona nessuna poesia nella sua autobiografia. Sergio Romagnoli afferma che d’Azeglio non si occupò di letteratura prima del 1829–30, il che fa supporre che queste ultime siano state scritte proprio in quegli anni, precedentemente al debutto letterario. (S. Romagnoli: ʻNarratori e prosatori del Romanticismoʼ, in: E. Cecchi & S. Romagnoli (eds.): Storia della letteratura italiana. Volume ottavo. Dall’Ottocento al Novecento. Milano: Garzanti, 1968: 7–88, pp. 56–57.) Tuttavia, benché probabilmente siano opere di prova, l’autore scelse come argomento uno dei topoi della letteratura italiana: il contrasto tra la gloria antica e l’Italia schiava del presente (“[…] O Italia, ai mali immensi e tanti/ Ch’han te ridotta di regina schiava.” ASTo, Carte d’Azeglio, Mazzo 2, n. 22.), i domini stranieri (“[…] le Tedesche fiere/Vengon tra noi com’è lor uso antico.” ASTo, Carte d’Azeglio, Mazzo 2, n. 22.). Descrivendo la situazione triste della penisola, prova a risvegliare il senso patriottico degli italiani. Farkas M.: ʻ”gl’italiani […] pensano a riformare l’Italia, […] per riuscirci bisogna, prima, che si riformino loro […].” Massimo d’Azeglio hazafias gondolatainak megjelenése az I miei ricordi című önéletrajzában és a Torinói Állami Levéltár kapcsolódó kézirataibanʼ, in: D. Molnár & D. Molnár (eds.): Tavaszi Szél 2021/Spring Wind 2021. Tanulmánykötet I., Budapest: Doktoranduszok Országos Szövetsége (DOSZ), 2021: 427–437, pp. 430–431.↩︎
R. Risso: ʻ”La patria pericolante:” i romanzi storici del primo Ottocento e la formazione dell’Italia e degli Italianiʼ, Carte Italiane VIII, no. 15 (2012): 15–27, p. 17; G. Petrocchi: Il romanzo storico nell’800 italiano, Torino: ERI, 1967: 46. D’Azeglio formulò la sua poetica sul romanzo storico tra l’altro in una lettera, datata il 17 novembre 1855, in cui spiega a Luigi Capranica che il vero romanzo storico è un’opera patriottica che fa imparare e interiorizzare la storia nazionale ma, perché abbia un ruolo sociale, deve essere nazionale. MCRR (Museo Centrale del Risorgimento di Roma) Busta 501/19 Massimo d’Azeglio a Luigi Capranica (Torino, 1855 novembre 17).↩︎
M. d’Azeglio: Ettore Fieramosca o La disfida di Barletta, Firenze: Le Monnier, 1923: 232.↩︎
Malgrado Mazzini criticasse l’ideologia di d’Azeglio, riconobbe il de’ Lapi perché, nel protagonista Niccolò, vedeva la manifestazione dello spirito nazionale e della propria idea repubblicana: secondo lui, Niccolò è un vate saggio che riesce ad unire il popolo e guidarlo verso una nuova società costruita sui valori della repubblica. C. Gigante: La nazione…, op.cit.: 13–14.↩︎
A. M. Banti: Il Risorgimento italiano, Bari: Laterza, 2014: VI.↩︎
M. d’Azeglio: I miei…, op. cit.: 178.↩︎
S. Patriarca: ʻA Patriotic Emotion. Shame and the Risorgimentoʼ, in: S. Patriarca & L. Riall (eds.): The Risorgimento Revisited Nationalism and Culture in Nineteenth-Century Italy, London: Palgrave Macmillan, 2012: 134–151, pp. 135–136.↩︎
Ibid.: 136–140.↩︎
M. d’Azeglio: Niccolò de’ Lapi ovvero i palleschi e i piagnoni, Firenze: Le Monnier, 1920: 136.↩︎
A. M. Banti: Il Risorgimento… op.cit.: 56.↩︎
M. d’Azeglio: Niccolò…, op.cit.: 3.↩︎
Oltre ai suoi interessi politici sin dalla giovane età, nella formazione del pensiero politico di d’Azeglio gli scambi di idee con suo cugino, Cesare Balbo ebbero un ruolo fondamentale dagli anni 1840. Tra il 1844-46 succesero due eventi che lo convinsero di dedicarsi alla politica. Il primo, che alla fine del 1844 andò nella Romagna per incontrare la nobiltà locale e scoprire se fossero disponibili nel caso di una rivolta possibile contro l’Austria. Il secondo momento fu il dialogo con il re piemontese Carlo Alberto, durante il quale gli riferò sui risultati positivi del suo viaggio. La risposta del re è riportata anche ne I miei ricordi: “Faccia sapere a que’ Signori che stiano in quiete e non si muovano, non essendovi per ora nulla da fare; ma che siano certi, che presentandosi l’occasione, la mia vita, la vita dei miei figli, le mie armi, i miei tesori, il mio esercito, tutto sarà speso per la causa italiana.” (M. d’Azeglio: I miei…, op. cit.: 559.) Anche Luigi Polo Friz vede in questi momenti il passo finale per intraprendere la carriera politica. (L. Polo Friz: ʻMassimo d’Azeglio e il secondo proclama di Moncalieri ʼ, Italies 6, 2002: 43–8.)↩︎
M. Meriggi: ʻOpinione pubblicaʼ, op.cit.: 167.↩︎
F. De Sanctis: La letteratura italiana nel secolo XIX. Volume secondo. La scuola liberale e la scuola democratica, Bari: Laterza, 1954: 429.↩︎
L. Settembrini: Ricordanze della mia vita, Firenze: La Nuova Italia, 1965: 113; C. Gigante: La nazione…, op.cit.: 53.↩︎
Guidobaldi sottolinea che d’Azeglio fu sempre antirivoluzionario, in Degli ultimi casi egli dice che preferirebbe una “congiura al chiaro giorno” (M. d’Azeglio: Degli ultimi casi della Romagna, Firenze: Fabiani, 1846: 117.) L. Guidobaldi: ʻDal pennello alla parola, dalla spada all’azione. Il soldato Massimo d’Azeglioʼ, Italies 20, 2016: 25–39.↩︎
M. d’Azeglio: Degli ultimi…, op. cit.: 107.↩︎
Ibid.: 97.↩︎
Benché non rifiutasse l’importanza socio-culturale della religione (presente anche nei sui romanzi storici Ettore Fieramosca e Niccolò de’ Lapi), non prendeva in considerazione la religione nella sua concezione di nazione unita. F. Di Giannatale: ʻIl principio di nazionalità. Un dibattito nell’Italia risorgimentaleʼ, Storia e Politica VI, n. 2, 2014: 234–269, p. 239.↩︎
M. d’Azeglio: Questioni urgenti, Scotts Valley, Calif: Createspace Independent Publishing Platform, 2015: 14–16.↩︎
ASTo, Carte Castelli, n. 21 (Mazzo D’Azeglio Massimo), 1860 12 sett.↩︎
M. d’Azeglio: Scritti e discorsi politici III, Firenze: La Nuova Italia, 1931–1938: 357.↩︎
C. Gigante: La nazione…, op.cit.: 19.↩︎
M. d’Azeglio: I miei…, op.cit.: 4.↩︎
S. Patriarca: Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Bari: Laterza, 2011: 40. Paola Boni Fellini ne Il Gazzettino Venezia commemora similmente la vita di d’Azeglio nell’articolo intitolato D’Azeglio più che l’Italia mirava a fare gli italiani il 4 maggio 1966 (MCRR Gior 44–15(20)).↩︎
Esistono (almeno) due tentativi di ampliare I miei ricordi: Giuseppe Torelli aggiunse delle informazioni sul periodo tra il 1846 e il 1860 (M. d’Azeglio. & G. Torelli: Lettere di Massimo D’Azeglio a Giuseppe Torelli: con frammenti di questo in continuazione dei Miei ricordi, Milano: Carrara, 1870.), mentre Don Giulio Ratti continuò l’opera degli eventi in riferimento agli anni 1846 e il 1866 (MCRR 826/33).↩︎