Verbum Analecta Neolatina XXI, 2020/1–2

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Gli studi di questa raccolta sono incentrati intorno al problema di quella che possiamo chiamare “funzione aggettivale”, e che si articola in problemi più specifici come la definizione della classe di parole aggettivo, con i suoi risvolti morfologici, sintattici e semantici, e come l’uso di altre parti del discorso o di altre costruzioni per esprimere quello che è normalmente espresso con un aggettivo. Con il termine adjectivité i curatori del volume intendono appunto tutti i procedimenti morfologici e sintattici che realizzano questa funzione.

I 21 studi raccolti sono raggruppati in tre sezioni: la prima, Regards sur le français (capp. 1–5, pp. 25–126), è dedicata al francese, la seconda, Adjectivité et diversité linguistique (capp. 6–12, pp. 127–291), è dedicata ad altre lingue (finnico ed estone, lingue indigene del Messico delle famiglie oto-mangue e maya, cinese [mandarino], giapponese, russo, ebraico, inglese, italiano), la terza, infine, Approches comparées avec le français (capp. 13–21, pp. 293–490), a studi in teoria comparativi, ma in realtà non sempre tali, tra francese e altre lingue (inglese, nederlandese, tedesco, svedese, finnico, spagnolo, vietnamita, giapponese, arabo [standard e marocchino]). Il volume è completato da un’introduzione dei curatori (pp. 1–23) e da una conclusione di Adriana Orlandi e Michele Prandi (pp. 491–496), oltre che da un indice particolareggiato (pp. 497–507).

I capitoli sono molto diversi tra loro come impostazione: a capitoli che cercano di dare una descrizione complessiva del problema in una data lingua se ne affiancano altri che si concentrano su questioni particolari, anche piuttosto marginali; nonostante il titolo del volume parli di approcci descrittivi, molti capitoli contengono esposizioni teoriche o sono espressamente teorici (ma questo, naturalmente, non è un male).

Tra i molti problemi trattati, i più importanti dal punto di vista generale sono i seguenti:

1. la definizione dell’aggettivo come parte del discorso e l’individuazione del suo nucleo prototipico: esistono aggettivi “centrali” e aggettivi “marginali”, probabilmente non con una separazione netta, ma con un passaggio graduale tra i due tipi;

2. l’uso di altre parti del discorso per le funzioni tipicamente aggettivali (trasposizione, per usare il termine introdotto da Albert Sechehaye – i molti termini alternativi in uso sono utilmente discussi nell’Introduzione); il problema è strettamente connesso con il precedente perché la sua delimitazione dipende dalla definizione dell’aggettivo “centrale”: se infatti per un aggettivo “centrale” sembra logico parlare di espressione alternativa della funzione aggettivale, per gli aggettivi “marginali” il discorso potrebbe essere l’inverso, e questi aggettivi potrebbero essere “marginali” appunto perché trasposizioni di altre parti del discorso – per es. gli aggettivi di relazione potrebbero essere trasposizioni di nomi (nasale = del naso);

3. la distinzione, in una data lingua, di una classe di parole indipendente per quelle che sono le tipiche funzioni aggettivali.

Il problema della definizione dell’aggettivo e dei suoi tipi viene affrontato tra gli altri nel capitolo teorico di Marc Wilmet (1. Adjectif, adjectivité et adjectivite, 27–39), in quello più empirico di Jan Goes (2. Quels critères d’adjectivité pour… l’adjectif en français?, 40–60) e in quello dedicato all’italiano di Adriana Orlandi e Michele Prandi (12. L’adjectif, une catégorie partagée: le cas de l’italien, 270–291).

Il problema della trasposizione compare, oltre che nei capitoli di Wilmet e di Orlandi/Prandi, nei capitoli sul francese di Michèle Noailly (3. Peut-on présumer de la capacité d’un nom à s’adjectiver?, 61–76), di Charlotte Schapira (4. Les syntagmes prépositionnels en de assimilables aux adjectifs, 77–90) e di Franck Neveu (5. Détachement et adjectivité, 91–126), nel capitolo sul giapponese di Yayoi Nakamura-Delloye (8. Adjectivation et adjectivité en japonais, 187–212), in quello sull’inglese di Élise Mignot (11. Les noms composés de type nom + nom à accent tardif en anglais: un cas d’adjectivité, 254–269), in quello sul finnico di Eva Havu e Rea Peltola (17. L’adjectivité et le temps. Les propriétés permanentes et situationnelles des adjectfs finnois, 392–410), in quello sul vietnamita di Huy Linh Dao e Danh Thành Do-Hurinville (19. Adjectivité entre lexique, syntaxe et discours: le cas de la recatégorisation N → VQ en vietnamien, 422–445), e in quelli comparativi: francese-inglese di Daniel Henkel (13. L’adjectivité en anglais et en français, 295–332), francese-nederlandese di Peter Lauwers e Kristel Van Goethem (14. L’adjectivité face à la perméabilité catégorielle. Examen contrastif du néerlandais et du français, 333–355), francese-tedesco di Stéphanie Benoist (15. L’adjectivité en allemand et en français – étude comparative, 356–376) e francese-spagnolo di Álvaro Arroyo-Ortega (18. Détermination et adjectivité du nom attribut en espagnol et en français. Éléments de comparaison, 411–421).

Il problema, infine, dell’individuazione (o meno) di una classe di parole specifica per la funzione aggettivale è al centro dei capitoli sul cinese di Dan Xu (7. Adjectifs en mandarin: verbe ou adjectif?, 170–186), sull’ebraico di Jonas Sibony (10. Y a-t-il des structures morphologiques spécifiquement adjectivales en hébreu?, 234–253), sullo svedese di Mats Forsgren (16. Adjectivité: statut et description grammaticale de l’adjectif dans la tradition scandinave, notamment suédoise, 377–391) e sull’arabo di Nizha Chatar-Moumni (21. L’adjectivité en arabe. L’état d’annexion et la relative, 469–490), oltre a ritornare in vari dei capitoli già citati, in particolare in quello sul francese di J. Goes e in quelli sul giapponese, sull’italiano, sul nederlandese e sul vietnamita.

Un po’ tutti i problemi vengono fuori anche nello studio di Jean Léo Léonard (6. L’adjectivité dans deux antipodes typologiques, en termes de concentricité/ exocentricité, 129–169), tentativo piuttosto confuso di stabilire una relazione tra l’opposizione tipologica introdotta da Johanna Nichols tra lingue Head Marking e Dependent Marking e la natura piuttosto verbale o pittosto nominale degli aggettivi di queste lingue. I due studi rimanenti trattano di problemi più limitati (9. La mise en saillance et les réduplications adjectivales en russe, 213–233, di Olga Artyushkina, Tatiana Bottineau e Robert Roudet; e 20. Quelques cas particuliers de l’adjectivité en français et en japonais, 446–468, di Naoyo Furukawa).

L’accordo è generale per quello che riguarda la funzione degli aggettivi. J. Goes definisce l’aggettivo prototipico (del francese) come quella parte del discorso che dipende semanticamente e sintatticamente da una base nominale rispetto alla quale può fungere da attributo e da predicato; inoltre, è accordata in genere e numero col nome da cui dipende, in funzione di attributo può essere anteposta al nome e in tutte le sue funzioni può essere modificata dall’avverbio di grado très ‘molto’. Questa definizione individua gli aggettivi qualificativi come il nucleo della classe: con beau/belle ‘bello/-a’, per es., possiamo avere in posizione attributiva: une (très) belle maison (una molto bella casa) e une maison (très) belle (una casa molto bella) e in posizione predicativa: la maison est (très) belle (la casa è molto bella). Gli aggettivi di relazione non sono invece aggettivi prototipici: accanto a le elezioni presidenziali non abbiamo né *le presidenziali elezioni, né *queste elezioni saranno presidenziali, né *le elezioni molto presidenzialipresidenziale mostra cioè solo due delle cinque proprietà elencate: si accorda e può essere usato come attributo postnominale, ma non può essere usato come attributo prenominale, né come predicato, e non ammette l’avverbio di grado. Nonostante questo possiamo parlare di una classe di parole aggettivo perché c’è una notevole permeabilità tra aggettivi prototipici e aggettivi non-prototipici. Per es. gli aggettivi di relazione possono entro certi limiti essere usati come qualificativi: questo abito è (molto) femminile (ma non *un femminile abito); un aggettivo qualificativo può assumere un significato di quasi-quantificatore e perdere le sue proprietà prototipiche: un grand kilo ‘un chilo abbondante’ (ma: *un kilo grand, *ce kilo est grand, *un très grand kilo).

Anche A. Orlandi e M. Prandi individuano negli aggettivi qualificativi il prototipo dell’aggettivo e propongono una classificazione piuttosto dettagliata degli usi non prototipici; alcune proposte in questo senso sono discusse anche da J. Goes. In tutti e due gli studi gli aggettivi sono tenuti distinti da determinanti e quantificatori, mentre M. Wilmet ingloba anche queste categorie nella classe degli aggettivi.

L’importanza data al problema della trasposizione è senz’altro stata innescata dalla grande libertà che ha il francese di usare nomi in funzione aggettivale, e non solo in posizione attributiva, come in italiano (incontro chiave), ma anche in posizione predicativa: ça va être clef (ciò va essere chiave) ‘sarà decisivo’; questi nomi possono inoltre essere modificati da avverbi di grado: un parcours un peu limite (un percorso un po’ limite) ‘…estremo’, un scénario démocratique qui est très limite (un quadro democratico che è molto limite) ‘…che quasi ne eccede i limiti’. In altre lingue queste possibilità sono più limitate o assenti – le lingue germaniche per gli usi attributivi ricorrono in genere a parole composte: concetto chiave = ted. Schlüsselbegriff, ned. sleutelbegrip, ingl. key concept. Ma E. Mignot (e un po’ meno chiaramente D. Henkel) fa notare che in inglese il primo elemento di questo tipo di composti mostra proprietà aggettivali:2 può per es. essere modificato da un avverbio (a too exclusively London standpoint ‘un punto di vista troppo esclusivamente londinese’) – cfr. anche in nederlandese een erg luxe hotel (un molto lusso albergo) ‘un albergo molto di lusso’ (sulla base di luxehotel ‘albergo di lusso’).

Un metodo più tradizionale per trasporre un nome in aggettivo in francese è, oltre all’uso di un suffisso aggettivale, l’uso di una preposizione, normalmente de (cfr. il capitolo di Ch. Schapira), come in italiano di in un uomo di coraggio, e specialmente una ragazza bella e di sani principi (con la trasposizione coordinata a un aggettivo). In altre lingue domina la derivazione, come per es. in finnico e in nederlandese (accanto alla composizione), mentre in giapponese alla derivazione (suffissi aggettivali -i e -na) fa concorrenza la trasposizione sintattica con no ‘di’: genjitsushugisha-na imôto (persona-realista-na sorella-minore) vs. genjitsushugisha no imôto (persona-realista di sorella-minore), ambedue ‘sorellina realista’ – oltre alla composizione: genjitsushugi-sha (realismo-persona) ‘persona realista’.

Al centro dell’attenziono è anche l’uso di forme participiali in funzione aggettivale nel confronto francese-inglese (D. Henkel) e l’uso di aggettivi, nomi e participi in funzione appositiva, anche in apposizioni staccate dal sintagma nominale di riferimento (tipo Convinto interventista, nel 1915 Gadda si arruolò negli alpini), in francese (F. Neveu) e nel confronto francese-tedesco (S. Benoist).

Come si può dedurre anche solo da questa breve presentazione, il volume offre molto materiale interessante sia a livello descrittivo, sia a livello di analisi. Il capitolo sull’unica lingua di cui mi possa considerare veramente competente, l’italiano, è, nella sua parte descrittiva, la miglior sintesi sull’argomento che sia stata prodotta finora. Ho trovato molto informativi e spesso illuminanti anche i capitoli di J. Goes sul francese, di Y. Nakamura-Delloye sul giapponese, di J. Sibony sull’ebraico, di P. Lauwers e K. Van Goethem sul nederlandese, di M. Forsgren sullo svedese, di H. L. Dao e D. Th. Do-Hurinville sul vietnamita e di N. Chatar-Moumni sull’arabo. Il capitolo di M. Wilmet sintetizza in poche pagine la sua teoria grammaticale ed è piuttosto un invito ad affrontarla più per esteso.

Il lettore non allenato avrà qualche difficoltà con la terminologia guillaumista presente nell’Introduzione e nei capitoli di M. Wilmet e di F. Neveu (quest’ultimo, a dir la verità, un po’ sbilanciato su temi non strettamente aggettivali), ma, a parte il capitolo piuttosto nebuloso di J. L. Léonard, per il resto l’esposizione è sempre chiara e accessibile anche ai non specialisti delle singole lingue. A proposito di accessibilità devo però notare che trovo farisea la scelta di aggiungere una traduzione francese a tutte le citazioni da testi di linguistica scritti in inglese – eccetto che nei due capitoli dedicati all’inglese, dove né le citazioni né i numerosissimi esempi sono tradotti.

Dal punto di vista formale si sente purtroppo la mancanza di un serio lavoro redazionale: sono frequenti i refusi, i rimandi bibliografici sono spesso imprecisi, ci sono errori nella strutturazione del testo e alcune sviste nella formulazione potevano essere evitate (per es. p. 46, schema 5, r. 16: peuple ancien, recte: histoire ancienne; p. 110, r. 5: ayant eu, recte: ayons eue; p. 149, punto 22: Japonais, recte: bon; p. 247, r. 4: préfixe, recte: suffixe; p. 306, r. 12: nuit, recte: jour; p. 464, nota, ultima r.: nom suffixal, recte: suffixe nominal).


  1. Berlin & Boston: Walter de Gruyter, 2020, IX + 507 pp.↩︎

  2. Che in inglese si tratti non di composizione, ma di una costruzione sintattica, è dimostrato da J. Payne e R. Huddleston in base a vari test sintattici che distinguono questo tipo di costruzione, chiamato composite nominals, dai composti veri e propri (Nouns and noun phrases, in R. Huddleston & G. K. Pullum (eds.): The Cambridge Grammar of the English Language, Cambridge: Cambridge University Press, 2002, 323–523, alle pp. 448–451).↩︎