Verbum – Analecta Neolatina XXII, 2021/2
ISSN 1588-4309; ©2021 PPKE BTK
Abstract
This paper classifies and analyses references to cultural, geographical, and other characteristics of the Balkan peninsula by Italian medieval and Renaissance authors including Dante, Boccaccio and Petrarch. The concept that is today known as ‘the Balkans’, in its cultural and geographical sense, only started to be researched in the 19th century. Evidently, this territory had its own historical and cultural development before it became known as ‘the Balkans’. Given the geographical closeness between the Balkan peninsula and that of Italy, interrelations were inevitable, and are witnessed by many Italian medieval and Renaissance authors. This research endeavours to classify these literary allusions and determine their importance for the culture of Italy, as well as that of the Balkan peoples, but also for the intercultural relations between Italy and the populations residing in the Balkan peninsula.Nel confrontare l’impatto tra due culture, nonché determinare in quale caso una delle due venga considerata di maggiore prestigio rispetto all’altra, si rischia di attribuire l’influenza in primo luogo ai fattori economici ed alle imprese militari, piuttosto che alle peculiarità di quella stessa cultura. In questa trappola può cadere qualsiasi ricercatore che cerca di fare luce sul rapporto tra la cultura italiana, di Dante e Boccaccio, e quella balcanica, la quale non sembra presentare una fisionomia unitaria, bensì appare come un conglomerato di culture differenti. La questione dell’identità balcanica fu posta molto più tardi rispetto a quella dell’italianità. Questo è da attribuire alle fasi di sviluppo storiche, politiche e culturali che il territorio geografico dei Balcani ha dovuto attraversare. Ogni genere di sviluppo si realizza in un più vasto contesto identitario e si analizza più facilmente nel confronto con un altro evento geograficamente o culturalmente prossimo. Gli studi comparativi fanno parte della metodologia scientifica contemporanea: la letteratura va ricercata nell’ambito degli studi culturali e un’opera letteraria, perfino un’intera letteratura nazionale, non è più studiata come un argomento a sé stante.
L’approccio comparativo tra la letteratura italiana e le letterature di alcuni popoli balcanici, o tutte insieme, può trarci nell’inganno di cui abbiamo avvertito. Per evitarlo, dunque, nel presente lavoro si tenterà di individuare il concetto dei Balcani attraverso il prisma della letteratura italiana, da Dante all’Ariosto.
Nella sua Divina Comedia, Dante Alighieri (1265–1321) riporta le proprie opinioni su tanti aspetti della sapienza della sua epoca: letteratura, storia e filosofia si intrecciano alle esperienze del Dante poeta, raffigurato nel protagonista Dante pellegrino. Il concetto dell’Italia, come la vede Dante, è un tema ricorrente nella Commedia. Nel delimitare i confini dell’Italia, Dante, nel XIX canto dell’Inferno, nomina una parte della penisola adiacente: “sí com’a Pola, presso del Carnaro/ch’Italia chiude e suoi termini bagna”. Un altro riferimento al territorio che qui ci interessa si trova nel XXXI canto del Purgatorio, in uno dei suoi numerosi paragoni con la quotidianità della vita menziona i venti schiavi1 che dall’Oriente portano la neve in Italia.
La filosofia, nonché la mitologia antica, erano praticamente ignorate all’epoca medievale.2 I valori antichi riemergono appena all’epoca rinascimentale. Bisanzio sarà considerata l’erede della cultura antica, specialmente per la conoscenza della lingua greca, a cui gli umanisti italiani attingeranno a piene mani. L’opera di Dante, però, abbonda di allusioni alla filosofia e mitologia greca, ma è interessante notare che il Bisanzio non viene nominato da nessuna parte.3 Agostino Pertusi afferma che Dante non possedeva molte conoscenze concrete sulla cultura greco-bizantina.4 “Inoltre, Dante non sapeva nulla della evangelizzazione degli slavi e della questione del trilinguismo liturgico, … nulla di uno scisma tra Chiesa greca e Chiesa latina.”5 Quell’impero “sull’orlo d’Europa”, come lo chiama Dante nel VI canto del Paradiso, esiste soltanto fino alla coronazione di Carlo Magno, l’evento che Dante pone ventisette anni prima di quando accadde, facendolo sia nella Monarchia sia nella Commedia.6 Giustiniano è altrettanto importante come imperatore ed ebbe l’ambizione di unificare il grande impero latino, cioè di conquistare l’Italia e la Spagna, nonché i territori che Carlo Magno iniziò a conquistare, su cui si fonderà più tardi il Sacro Romano Impero. Secondo Dante non vi è più posto per un impero diverso da quello latino, sia pure un impero latino orientale.
Posto che gli esponenti della dinastia La Roche erano anche i duchi d’Atene, essendo sovrani di Bisanzio in seguito alla conquista e la divisione dello stato da parte di Francesi e Veneziani, non si può non affermare che l’eco dell’evento non avesse raggiunto solo Dante, ma anche Boccaccio: Teseo viene definito da entrambi il duca d’Atene. Pure quando Dante si riferisce a qualche santo ortodosso, come Giovanni Crisostomo7 e Dionigi pseudo-Areopagita,8 essi sono già noti alla cultura occidentale. Nel lemma sulla civiltà bizantina nell’Enciclopedia Dantesca, Pertusi discute con altri Dantisti come Tripanis, sulla domanda se Dante conoscesse il trattato De Virtutibus et passionibus, “attribuito ora a s. Efrem siro, ora a s. Giovanni Damasceno”,9 che Dante, secondo Tripanis, prese come riferimento per l’ordinamento morale delle colpe dell’Inferno. Pertusi nega l’argomento, ponendo, allo stesso momento, la domanda se Dante conoscesse le opere di san Dionigi pseudo-Areopagita, sulla cui base realizzò il suo concetto di Paradiso e, in caso affermativo, se ne fosse venuto a conoscenza tramite delle traduzioni oppure le numerosi citazioni in San Tommaso D’Acquino. Se ne venne in possesso tramite traduzioni, ne perse molto, essendo egli stesso consapevole che molti dettagli possono perdersi in una traduzione tra lingue di “spirito differente”.10 Pertusi conclude che Dante entrò in contatto con questi testi almeno verso il 1316, mentre scriveva il Paradiso. Pertusi fonda la sua conclusione sul misticismo ortodosso rintracciabile nell’angelologia del Paradiso, nonché su alcuni riferimenti al concetto di Dio attribuibili alla terminologia liturgica ortodossa piuttosto che a quella cattolico romana, per esempio, il sintagma Il Re dei re. In conclusione, la questione dell’impatto del misticismo ortodosso su Dante è stata analizzata in modo marginale. Tuttavia, da quanto esposto, si può dedurre che Dante avesse una certa riserva verso entità storico-politiche in Europa diverse da quella italiana, o almeno derivanti dalla cultura latina, ma non poté evitare alcune influenze religiose provenienti dall’Oriente.
Domenico Consoli scrive che Dante, quando desidera enfatizzare la superbia con cui una persona si esprime, utilizza l’espressione parlar greco: “ed ella mi rispose come un greco”. Questo stereotipo è pienamente in armonia con la vista del mondo latino medievale dei Greci dell’epoca.11
I venti schiavi, già menzionati sopra, comunicano anch’essi qualcosa sulla conoscenza della situazione storica da parte del poeta. Se Pertusi, come abbiamo visto, afferma che Dante non sapeva nulla dell’evangelizzazione degli Slavi, qui non lo possiamo affermare, tenuto conto che ne fa riferimento con determinati termini e un verso. Quando nel XIX canto del Paradiso dice: “lì si conosceranno, e quel di Rascia/che male ha visto il conio di Vinegia”,12 si tratta di uno dei tre re cristiani che sono “la peste della Cristianità”.13 Chi sarebbe quel di Rascia? L’unica cosa di cui si può essere certi è che Rascia è la Serbia, all’epoca chiamata Raška. La maggioranza degli interpreti di Dante 14 crede che si tratti del re serbo Milutin. Dante lo minaccia con l’inferno, cioè, che il re sarà con i falsari, perché coniava le proprie monete facendo così concorrenza alla repubblica veneziana.15
Non tutti sono sicuri che si tratti di re Milutin, si potrebbe anche pensare che il re in questione fosse Stefan Uroš I. L’argomento in questione richiederebbe approfondimento, sebbene non abbia rilevanza riguardo all’opinione del poeta circa la cultura del popolo della Rascia. Se Dante situa un re di Rascia tra altri Cristiani, chiunque egli sia, con due altri, di Portogallo e di Norvegia, come si può affermare che non sapeva niente riguardo all’evangelizzazione degli Slavi?
Si potrebbe accennare alla risposta soffermandosi su alcuni versi del XXXI canto del Paradiso: “Qual è colui che forse di Croazia/viene a veder la Veronica nostra,/che per l’antica fame non sen sazia,/ma dice nel pensier, fin che si mostra:/‘Segnor mio Iesú Cristo, Dio verace,/or fu sí fatta la sembianza vostra?’;/tal era io mirando la vivace/carità di colui che ’n questo mondo,/contemplando, gustò di quella pace”.16 Dante poeta, quindi, paragona il protagonista, Dante pellegrino, ad un pellegrino di un paese lontano, forse dalla Croazia, allora parte dell’impero d’Ungheria, che non può che guardare il viso impresso sul velo con cui era coperto. Con quell’intensità Dante pellegrino guarda e si meraviglia di quello che vede e descrive, con la penna di Dante poeta. Qui la parola chiave è forse. Non importa, dunque, la provenienza geografica, quello che è importante in questo contesto è la lontananza, quanto geografica, tanto, e forse anche di più, quella culturale, nonostante lo stesso pellegrino croato immaginario sia cristiano. Niccolò Tommaseo, riferendosi agli altri interpreti, dice che Dante si decide proprio per la Croazia poiché è un paese di “gente selvatica e scostumata”.17 Va detto che Tommaseo aveva legami diretti con il mondo balcanico. Essendo un romanticista italiano, Tommaseo interpretava la commedia in chiave romanticista, quindi considerava ogni allusione agli slavi, più o meno rilevante che sia, come un fattore di coesione tra le due culture, ma anche di unificazione italiana e slava. Nemmeno lui però riesce ad eliminare la tesi secondo cui Dante vedeva i territori dei Balcani slavi come selvatici.
Francesco Petrarca (1304–1374) è da molti considerato il primo poeta rinascimentale, i cui successori, detti i petrarchisti, ma anche altri, fonderanno la letteratura sui valori antichi che, come già detto, sono quasi sconosciuti nel medioevo. Giovanni Boccaccio (1313–1375) fu il primo a conoscere la poesia greca e finanziò l’acquisto di molti scritti di Omero ed altri. Inoltre, fu tra i primi latini ad ascoltare l’Iliade “a Leontio in privato Yliadem audire”, e organizzò letture pubbliche delle opere di Omero “ut legerentur publice Homeri libri”.18 I libri dovettero essere procurati da Bisanzio poiché, come si è già detto, fino ad allora in Italia si disponeva solo di vecchie traduzioni in Latino. L’impresa di Boccaccio portò al contatto più diretto delle due culture, ma quel contatto divenne ancora più intenso quando gli umanisti, più tardi, portarono alcuni scolari da Bisanzio che non solo diffonderanno la cultura e letteratura in lingua originale, ma insegneranno il greco agli stessi umanisti. 19 Nelle sue lettere Seniles, Petrarca, tra l’altro, descrive i suoi viaggi durante i quali entrò più volte in contatto con i popoli balcanici. Per Petrarca tutti i popoli di cui all’epoca si sapeva poco, presenti sul territorio, erano Sciti, e Petrarca chiamava il loro territorio Scizia; allo stesso modo in cui i suoi modelli romani alla loro epoca si riferivano ad un altro popolo che viveva sulle coste del Mar Nero. Petrarca parla delle qualità positive di quegli uomini, che erano fedeli alla repubblica di Venezia, “li quali con maraviglioso esempio di fedeltà, non solo non acconsentirono a pravi pensieri de’ ribelli, ma né anco vollero ricevere o dar ricetto ad alcuno di loro”.20 Quando, però, li nomina ancora, descrivendo gli schiavi di origine slava, parla de “la bruttura e la deformità della scitica razza, piacente forse agli occhi di coloro che ne fanno mercato, ma schifosa ed orribile agli occhi miei”.21
Secondo le ricerche di Maria Todorova, i Balcani sono nominati come concetto geografico per la prima volta proprio in epoca rinascimentale da un Italiano.22 Il concetto, infatti, è l’omonima catena montuosa che attribuirà il nome all’intera penisola, allo stesso modo in cui le altre due penisole dell’Europa meridionale portano nomi delle proprie catene montuose dominanti. Todorova riporta che Filippo Buonaccorsi Calimaco, in un memorandum per papa Innocenzio VIII dal 1490, scrive che, durante una visita alla capitale dell’Impero Ottomano, Buonaccorsi vide la montagna all’epoca nota come Haemus, chiamata però Balkan dalla gente locale.
Boccaccio non dimostra interesse diretto per queste terre nelle sue opere, salvo i fatti già menzionati riguardanti il patrimonio bizantino. Certe conclusioni possono però essere tratte soffermandosi brevemente sulla sesta novella della quinta giornata del Decameron. Restituta, figlia di Marino Bolgaro, viene sequestrata e portata al cospetto del re Napoletano. Gianni da Procida, innamorato di lei, decide di salvarla. Impresa che porta a termine con successo, non prima di essere stati entrambi imprigionati e condannati a morte. Il Re, però, cambia la sua decisione quando un uomo, riconoscendo Gianni, lo informa sull’identità dei due, con l’enfasi sul fatto che il re sia ancora al potere grazie ai meriti del padre della ragazza.23
Ogni ricercatore interessato a questo tema troverà curioso il nome del padre della protagonista. Analizzando i protagonisti del Decameron, Snežana Milinković nota che la categoria del cognome, come si usa ai tempi moderni, all’epoca non era costante, così il cognome spesso designava la provenienza della persona.24 In tal modo, Bolgaro (Bulgaro) fa pensare che Marino Bolgaro possa avere origini nei territori balcanici. Il Dizionario Biografico Treccani lo riporta sotto il nominativo Marino Bulgaro.25 Fu un personaggio realmente esistito, era un nobile di Ischia, conosciuto da Boccaccio verso il 1328, mentre abitava a Napoli. Bulgaro, il vecchio cortigiano, “peritissimo dalla sua giovinezza nell’arte marinaresca”,26 gli parlava di tempi passati. I pochi documenti che ne fanno riferimento, lo menzionano appunto come marinaio ai tempi di Roberto D’Angiò, mentre più tardi, a giudicare dalla novella, Bulgaro passò dalla parte degli Aragonesi. Si potrebbe, quindi, determinare che aveva una grande influenza alla sua epoca. Se si cerca di rintracciare le origini di Bulgaro nei territori balcanici, l’unica traccia concreta si trova nelle ricerche sulle colonie bulgare in Italia meridionale del Medioevo. Georgi Dimov, in un suo articolo sul tema, afferma che i Bulgari, trasferitisi in Italia, furono presto assimilati, ma che nei monumenti e nella toponomastica rimase la radice etimologica bulg/bolg.27 Dimov afferma anche, riferendosi ai documenti Napoletani, che nel 1076 un tale Stefano Bolgaro ottenne un titolo nobiliare, insieme al fatto che il cognome Bulgaro sia più presente nell’Italia meridionale che in quella settentrionale.28 Sarebbe, dunque, lecito supporre che Marino Bolgaro fosse un discendente di Stefano, discendente a sua volta dei bulgari trasferitisi in alcune parti dell’Italia meridionale. Dunque, se il cognome Bolgaro indica la provenienza, supponendo che all’orecchio italiano esso potrebbe essere l’associazione al proprio significato elementare, si potrebbe sostenere che Boccaccio si decise proprio per questi protagonisti per introdurre nella novella il tocco esotico tramite l’origine della protagonista illustrata nel cognome, rintracciata a un Paese lontano e sconosciuto.
Nell’epico Lo Balzino, Rogeri de Pacienza di Nardò, il poeta di corte napoletano, nel 1497 scrisse dei versi considerati oggi giorno il primo poema popolare epico serbo fin ora documentato.29 Al seguito della corte della regina Isabella del Balzo, il poeta si trovò in una città dell’Italia meridionale, detta Gioia del Colle. In onore della regina fu organizzata una festa, dove certi slavi si esibirono con una canzone. Le parole della canzone furono notate dal poeta ma, dato che egli non aveva alcuna conoscenza di lingue slave, le trascrisse come le sentì. Notò anche i nomi delle persone che cantavano, con una precisione molto più elevata rispetto a quella con cui trascrisse il testo della canzone. De Pacienza nota che questi Slavi bevevano come si usava da loro, e cantavano saltando come delle capre: “E nel ballare ciascaun romanza/ Gridando ad alta voce in lor sermoni;/ E po ciascun bevea a lor usanza,/ Mascoli, donne, grandi, ancor garzoni;/ Saltondo como caprii girava,/ Et insiem tutti tal parol cantava.”30 Evitando di addentrarci nei dettagli di analisi dei versi riportati dal poeta, ci limiteremo soltanto ad accennare all’importanza di questi versi per la cultura dei popoli iugoslavi, in particolare per la cultura e letteratura serba. Il contesto dei versi cantati dal gruppo degli slavi a Gioia del Colle è prezioso, in quanto l’azione del poema si svolge nelle prigioni della città di Smederevo, costruita qualche decennio prima dal despota Giorgio (Đurađ) Brankovic, quindi si potrebbe suppore che gli slavi in questione portarono con sé questi versi fuggendo dalle conquiste ottomane. Il protagonista è Janos Hunyadi, un personaggio importante per la storia serba, croata ma anche ungherese, che di fatto trascorse un periodo nelle prigioni di Smederevo.31 Hunyadi appare anche in diverse poesie popolari epiche serbe già note, il che potrebbe portare alla conclusione che il gruppo degli slavi a Gioia del Colle fosse di etnia serba.
Alla fine del Quattrocento l’Italia fu scossa da guerre, risvegliando l’interesse per temi cavallereschi. 32 Ludovico Ariosto (1474–1533), un nobile di Ferrara, decise di dare il proprio contributo letterario e, continuando la storia dell’Orlando Innamorato di Matteo Maria Boiardo, scrisse un grande epico che sarebbe stato stampato per avere un pubblico più vasto, l’Orlando Furioso.33 Vi esistevano tre edizioni la cui differenza principale si rispecchia nella lingua usata, cioè la terza edizione rispetta lo standard di lingua italiana proposto da Pietro Bembo. Questo fatto permise alla terza edizione di avere un pubblico più vasto anche fuori la città di Ferrara, nonostante l’epico sia dedicato alla famiglia D’Este. Gli italiani finalmente diventano consapevoli del pericolo rappresentato dalle conquiste di popoli non cristiani in Europa. Costantinopoli fu conquistata e l’Impero Ottomano otteneva territori sempre più vasti. Se Dante riteneva importante l’unità del mondo latino, questo pericolo chiama all’unità dell’intero mondo cristiano, il che sarebbe diventato uno spunto importante nelle opere di Ariosto.
Il fascino dalle grandi scoperte geografiche era una caratteristica dell’epoca. Ariosto trasporta i protagonisti dell’epico per la mappa del mondo allora noto, inserendo nella narrazione eventi fantastici di vario genere. L’azione però si svolge all’epoca di Carlo Magno, quindi i protagonisti, il paladino Orlando e gli altri, riescono a trovarsi ovunque vi fossero conflitti, specie contro i saraceni, che rappresentano il nemico ottomano. Sia detto per inciso, nel XVII canto l’Ariosto “esorta Spagnoli, Francesi, Svizzeri e tedeschi a combattere contro ‘il turco immondo’ anziché tra di loro per spartirsi l’Italia”.34
Il territorio che ci interessa appare per la prima volta nel canto XXII, in cui si descrive il viaggio del paladino Astolfo in Inghilterra dall’Asia Minore. Egli viene per mare in Tracia per continuare lungo il Danubio, senza però ricorrere ad alcuni mezzi di trasporto fantastici. Un’altra parte dei Balcani, però, occupa il centro di attenzione più tardi nel canto XLIV.35 Uno dei protagonisti del poema, Ruggero, Saraceno cristianizzato e il capostipite della famiglia D’Este, dopo le numerose avventure, ottiene l’occasione di sposare la sua amata Bradamante. Carlo Magno, il padre di Bradamante, all’oscuro del loro amore, la promette al figlio dell’imperatore di Bisanzio. Per impedire l’inevitabile, Ruggero parte per Bisanzio, trovando l’imperatore e suo figlio in battaglia contro i Bulgari a Belgrado, cioè, a dirla con le parole del poeta, “Ove la Sava nel Danubio scende”.36 È chiaro che si tratta dei combattimenti tra bizantini e bulgari del VIII secolo, ai tempi dell’imperatore Costantino Copronimo, intorno alla città allora ancora detta Singidunum la quale, però, Ariosto definisce Belgrado, benché la città avrà quel nome solo un secolo più tardi. 37 Quest’uso del nome attuale della città, invece di quello dell’epoca descritta, potrebbe significare che l’Ariosto alludesse ad un evento contemporaneo ai lettori cui si rivolge. Morlino ritiene che l’evento in questione possa essere la liberazione di Belgrado dall’assedio dell’esercito ottomano sotto il Sultano Maometto II da parte dell’esercito ungherese comandato da Janos Hunyadi nel 1456, in seguito alla caduta di Costantinopoli, conquistata dallo stesso Maometto II. Il corso della battaglia è realistico, piuttosto che fantastico, il fiume Sava rappresenta il punto strategico più importante per entrambe le parti, fino all’entrata di Ruggero in battaglia, quando torna il momento epico, con cui si permette il cambiamento del corso del combattimento a favore dei Bulgari. Ruggero vuole eliminare Leone, il figlio dell’imperatore, per impedirne il matrimonio con Bradamante. Non ci riesce, ma vince la battaglia per i Bulgari, i quali lo dichiarano il proprio re, dato che il loro sovrano cade all’inizio della battaglia, prima dell’entrata in scena di Ruggero. Ruggero accetta la corona bulgara poiché lo status di sovrano gli permetterà di chiedere legittimamente Bradamante in sposa.
Nel canto successivo Ruggero è catturato dai Bizantini e imprigionato in una città che nel poema è definita Novengrado, ma in seguito viene liberato da Leone, meravigliato dalle sue imprese in battaglia. Nel frattempo, l’imperatore Costantino ritira l’esercito dalla Sava nella città di Beleticche. Secondo Morlino, Novengrado potrebbe essere la fortezza di Smederevo, costruita proprio nel XV secolo, mentre Beleticche potrebbe essere la città di Belogracik in Bulgaria.38
L’assedio di Belgrado del 1456 è descritto anche in un breve poema popolare in dialetto veneto intitolato Istoria del gran Turcho quando fo roto a Belgrado in Ongaria, scritto verso il 1460.39 Si potrebbe pensare che Ariosto conoscesse almeno questo poema se non l’evento in questione, in quanto la Sava rappresenta il punto strategico più importante anche in questi versi. Ne è la conclusione anche il fatto che l’Ariosto due volte rima il nome della città di Belgrado con la parola guado — passare a guado è un motivo ricorrente nella poesia epica. L’allusione a Belgrado, notata da Morlino, appare anche nel poema Angelica innamorata di Vincenzo Brusantini: “…e lungo l’istro per la destra riva/tanto cavalca, ch’a Belgrado arriva”.40 Gli stessi versi appaiono anche nell’Ariosto. 41
“…la letteratura non si era preoccupata affatto, o si era preoccupata poco e male, di eventi politici e militari che pur avevano avuto larga eco e conseguenze gravi.”42 In conseguenza appare difficile trovare testimonianze scritte rilevanti nel periodo di quasi un intero secolo tra le opere di Boccaccio ed il poema Istoria del gran Turcho quando fo roto a Belgrado in Ongaria. Laddove però vi sono riferimenti diretti o indiretti a qualsiasi caratteristica riguardante geografia, storia, cultura e identità di popolazioni presenti nella penisola balcanica essi sono duplici. Un gruppo dei motivi ricorrenti si potrebbe legare all’impero e al patrimonio bizantino, mentre l’altro si riferisce a quello che ne resta dopo. Bisanzio è una delle due colonne della civiltà europea medievale che, col tempo, si trasforma in erede della cultura antica a cui l’arte rinascimentale torna. Tuttavia, il rapporto da parte della letteratura italiana in periodi qui descritti verso tutto quello che va considerato al di fuori dal contesto bizantino non è diverso da quello da secoli coltivato dagli antichi romani verso i nuovi territori, donde il nome Scizia assegnato da Petrarca allo spazio geografico qui trattato. Una tale tendenza potrebbe essere interpretata come segno d’intenzioni di conquista, forse anche di imporvi la cultura latina. L’espansione della Repubblica di Venezia porterà a un contatto più intenso della letteratura italiana con il territorio dell’allora Bisanzio, insieme al fatto che gli esuli greci, dopo la caduta dell’impero, venivano proprio a Venezia. Tutto ciò che rimane di esterno a questo contatto, fuori dall’influenza bizantina, è ormai considerato sconosciuto ed esotico, rientrante nel patrimonio ottomano, quindi fuori dall’interesse del mondo cristiano. Perfino quando sono presenti in un territorio noto al poeta, gli slavi saltano come capre, cioè eseguono riti descritti così dal poeta per meraviglia di qualcosa a lui totalmente ignoto. Il panorama di un rapporto più serio si intravede appena quando Ruggero accetta il trono bulgaro per poter chiedere Bradamante in sposa da Carlo Magno in modo legittimo. Questo momento letterario mette in mostra l’uguaglianza di questi popoli meritata almeno alla comune fede cristiana, esistente anche prima ma venuta alla luce solo all’incombere della minaccia del conquistatore maomettano sull’intera civiltà cristiana, cui appartengono anche i paesi slavi in maggior parte già occupati. Si potrebbe concludere che il pericolo comune rappresentasse il fattore di coesione più forte tra le due culture, nonostante entrambe condividano molti più elementi, sia come parte del patrimonio greco-bizantino, sia come fattori generali della cultura comune cristiana. La cultura balcanica non viene ancora vista come unica, a differenza di quella italiana.
Inoltre, si può concludere che una ricerca basata più sulla letteratura stessa che alle fonti storiografiche possa offrire risposte più concrete alla domanda come gli italiani vedano la penisola balcanica attraverso la propria letteratura solo in periodi successivi a quelli trattati nel presente lavoro, quanto a causa delle pretese veneziane tanto, in seguito, a causa del romanticismo, delle ribellioni contro gli Ottomani da una parte ed il Risorgimento dall’altra, per le differenze nel capire i Balcani e il Balcanismo rispetto all’orientalismo e, infine, a causa di altri eventi storici in cui gli entrambi territori hanno preso parte d’importanza cruciale.
Purgatorio XXXI 87.↩︎
Confronta Giulio Ferroni: Profilo storico della letteratura italiana, Milano: Mondadori, 1992: 205.↩︎
Adolfo Cecilia: ‘Bisanzio’, in: Enciclopedia Dantesca, 1970 (https://www.treccani.it/enciclopedia/bisanzio_%28Enciclopedia-Dantesca%29/).↩︎
Agostino Pertusi: ‘Bizantina, Civiltà’, in: Enciclopedia Dantesca, op.cit.↩︎
Idem.↩︎
Idem.↩︎
Paradiso XII 136–137.↩︎
Paradiso X 115–117 e XXVIII 130–132.↩︎
Agostino Pertusi: ‘Bizantina, Civiltà’, in: Enciclopedia Dantesca, op.cit.↩︎
Idem.↩︎
Domenico Consoli: ‘Greco’, in: Enciclopedia Dantesca, op.cit.↩︎
Paradiso XIX 140–141.↩︎
Vittorio Sermonti: La Commedia di Dante raccontata da Vittorio Sermonti: Firenze: Giunti editore, 2012.↩︎
Angelo Tambora: ‘Stefano II, Uros Milutin’, in: Enciclopedia Dantesca, op.cit.↩︎
Srđan Šarkić: ‘Stefan Uroš Milutin – Sveti kralj’ ili stanovnik Danteovog pakla’, Novi Sad: Zbornik radova Pravnog fakulteta, 2007: 59–70, p. 59.↩︎
Paradiso XXXI 103–111.↩︎
Niccolò Tommaseo: Commedia di Dante Allighieri con ragionamenti e note di Niccolò Tommaseo. Google Books, 2015: 621 (https://tinyurl.com/28kf759c).↩︎
Snežana Milinković: Dekameron: knjiga o ljubavi, Beograd: Arhipelag, 2011: 25.↩︎
Confronta Giulio Ferroni: Profilo storico della letteratura italiana, Milano: Mondadori, 1992: 205.↩︎
Francesco Petrarca: Seniles, vol. 1: a cura di G. Fracassetti: Successori Le Monnier, 1869: 196.↩︎
Ibid.: 102.↩︎
Maria Todorova: Imagining the Balkans, Oxford: Oxford University Press: 2009.↩︎
G. Boccaccio: Il Decameron: A cura di Amedeo Quondam: Milano: RCS Libri S.p.A, 2013.↩︎
S. Milinković: Dekameron…, op.cit.: 25.↩︎
Walter Ingeborg: ‘Bulgaro, Marino’, in: Dizionario Biograffico Treccani, Edizione Online: 2972.↩︎
Idem.↩︎
Dimov, Georgi: ‘Българите в Южна Италия през Средните векове [I Bulgari nell’Italia meridionale in epoca medievale]’, Сборник в чест на професор дин Красимира Гагова, Sofia, 2013: 98–119, p. 111.↩︎
Ibid.: 110.↩︎
Boško Suvajdžić: ‘Orao se vijaše nad gradom formula’, Promišljanja tradicije Folklorna i literarna istraživanja Zbornik radova posvećen Mirjani Drndarski i Nenadu Ljubinkoviću, Belgrado: L’Istituto di letteratura e Arte, 2014: 147–165, p. 147.↩︎
Mario Marti: Rogeri de Pacienza di Nardò, Opere (cod. per. F 27), a cura di Mario Marti, Lecce: Edizioni Milella, 1977.↩︎
Confronta Suvajdzic 2014.↩︎
Confronta Giulio Ferroni: Profilo storico della letteratura italiana, Milano: Mondadori, 1992: 292.↩︎
Idem.↩︎
Luca Morlino: ‘“Ove la Sava nel Danubio scende”. Una chiosa sull’assedio di Belgrado nell’Orlando Furioso (e in altre ottave quattro-cinquecentesche’, Italica Belgradensia 1, 2014: 29–47, p. 36.↩︎
Confronta Morlino 2014 (29–47), che analizza con dettagli i temi Balcanici ricorrenti nell’Ariosto e altre opere rinascimentali rilevanti.↩︎
L. Ariosto: Orlando Furioso: A cura di Cesare Segre: Milano: Mondadori, 1990: c. XLIV o. 79.↩︎
Luca Morlino: ‘“Ove la Sava nel Danubio scende”…’, op.cit.: 30.↩︎
Ibid.: 33.↩︎
Ibid.: 37.↩︎
Ibid.: 39.↩︎
L. Ariosto: Orlando Furioso: A cura di Cesare Segre: Milano: Mondadori, 1990: c. XLIV o. 78.↩︎
Carlo Dionisotti. Geografia e storia della letteratura italiana: Einaudi: Torino, 1967: 202.↩︎