Verbum – Analecta Neolatina XXII, 2021/2

ISSN 1588-4309; ©2021 PPKE BTK



Il lettore comprenderà sin dal titolo, come questo articolo tratti della proposta di un’interpretazione dell’origine dell’ungherese narancs /ˈnɒrɒnʧ/, diversa da quella finora comunemente condivisa dalla letteratura specifica. Come si vedrà di seguito, numerose ragioni ci hanno indotto a ritrattare il problema dell’origine di questo sostantivo ungherese.

Per cominciare, citiamo i due principi fondamentali relativi alla ricerca etimologica, formulati da László Hadrovics.1 Il primo, riferito alle “pseudo-etimologie” di alcune parole, recita che

Oltre a queste parole [sc. “di etimologia difficile” o “senza speranza”] se ne trovano anche altre, in gran numero, la cui etimologia è chiarita soltanto apparentemente. Tempo addietro, forse ottanta o novant’anni fa, qualcuno, sull’onda dell’estro e sulla base di una consonanza, ha messo una parola in rapporto con una parola straniera: l’etimo costruito in questo modo peregrina da un libro all’altro, da un articolo all’altro. Tali etimi, anche se nessuno li crede davvero fondati, vengono ripresi senza essere sottoposti a un esame approfondito. Sono queste le etimologie formalmente risolte o, con altro nome, le pseudo-etimologie. Esse si rivelano molto più pericolose di quelle che ammettono l’origine sconosciuta o discussa di una parola, perché il falso etimo può ostacolare lo studio della soluzione giusta anche per decenni (Hadrovics 1965: 3, ‒ trad. nostra. I. V.).

Il secondo principio, relativo al metodo dell’etimologia, suona così: “Ho sempre evitato quel tipo di procedimento con cui si crea una forma presumibile dal punto di vista fonetico per poi farne derivare la parola in questione con mano sicura, risolvendo così il problema” (Hadrovics 1965: 7, ‒ trad. nostra).

Questo metodo è l’adattamento di quello seguito dalla linguistica storico-comparativa che, partendo da forme linguistiche sincroniche e diacroniche attestate, risale nel tempo per ricostruirne la forma ipotizzata nella lingua base. Il procedimento è caratterizzato dalla comparazione di un numero più o meno grande di esempi usati come punti di riferimento e di comparazione. Il metodo è idoneo per il raggiungimento degli obiettivi delle ricerche di ricostruzione nell’indo-germanistica, nell’ugrofinnistica, nella slavistica, ecc., ma si rivela poco proficuo nella ricerca etimologica che non intende risalire alle origini remote, bensì si limita a estendere il proprio raggio ad un periodo di tempo più breve. Questo è, per esempio, il caso della ricerca dei prestiti romanzi delle lingue. La romanistica si trova in una posizione privilegiata, perché dispone di profonde conoscenze sulla lingua latina, di numerosi testi e lavori di storia linguistica e dialettologia (dizionari, monografie, grammatiche storiche, dizionari etimologici, ecc.). Ciò consente di limitare la necessità di creare forme ipotizzate e di individuare gli etimi con maggiore precisione, potendo utilizzare anche i fattori extralinguistici noti (rapporti politico-economici, culturali e simili) o, se ciò non viene raggiunto, di ridurre almeno il numero degli etimi possibili.

Il presente articolo si propone pertanto di modificare, rettificandolo, il metodo adottato dai linguisti ungheresi nello studio dell’origine dell’ungherese narancs; di individuare in modo più preciso il possibile etimo italoromanzo; di verificare se la parola ungherese possa effettivamente derivarne; di cercare, in caso negativo, un altro etimo possibile. Si terrà conto a) della struttura fonologica degli etimi possibili e b) della distribuzione dei fonemi della lingua mutuante (l’ungherese), che condiziona le modalità dell’adattamento del prestito al sistema fonomorfologico della lingua mutuante. Questi due fattori fondamentali sono stati trascurati dalla ricerca precedente relativa a naramcs.

Che l’ungherese naramcs sia un prestito dall’italiano è da tempo un’opinione largamente condivisa dalla letteratura specifica. La spiegazione etimologica impostata da Ferenc Karinthy (1946, 1947a, 1947b, 1947c) e completata da Lajos Kiss (1966), è stata confermata da altri (ESz, EWUng, TESz, Szabó & Fábián 2010).

Sándor Kőrösi si è occupato a più riprese dell’origine della parola ungherese, individuandone l’etimo nel sostantivo veneziano naranza (/naˈrantsa/),2 con cui si può essere completamente d’accordo, sebbene Kőrösi non renda conto del valore fonetico del grafema 〈z〉. La sua spiegazione, per cui naranza risalirebbe alla melarancia della lingua letteraria (attestata dalla metà del sec. XIII; GDLI 10: 17) è inaccettabile (v. Kőrösi 1884: 546‒547; Kőrösi 1892: 33). La venez. naranza (/naˈrantsa/) risalirebbe ad una it. menarancia (/menaˈranʧa), sorta in seguito ad una dissimilazione /l/ → /n/ in menarancia (Kőrösi 1884: 546‒547). Kőrösi non espone le ragioni culturali per cui la parola veneziana sarebbe un prestito dall’italiano letterario. Non regge neanche il tentativo dell’autore di far risalire la parola arancia nei dialetti toscani a menarancia, presupponendo la caduta della prima sillaba. Nei dialetti toscani, infatti, la caduta di un’intera sillaba in posizione iniziale è un fenomeno atipico (cfr. Rohlfs 1996: §§ 128, 137; Tekavčić 1980: § 2.3.2.). Manca inoltre la spiegazione delle ragioni della sostituzione del fonema it. /ʧ/ → venez. /ts/, e del fatto se 〈z〉 sia da interpretare come /ts/ (v. supra). Non sorprende che l’etimologia di Kőrösi sia stata respinta (Kiss 1966: 211).

Un’altra proposta etimologica è stata fatta da Géza Bárczi, che considera possibili due spiegazioni: la prima vuole che l’etimo di narancs sia da ricercare in un dialetto dell’Italia nordorientale, cfr. venez. naranza, mil. naranz, spiegazione che riprende le idee di Melich e di Kőrösi. La seconda sostiene che l’etimo della parola ungherese sia da individuare nelle lingue dei Balcani, idea che necessita ancora di chiarimenti (SzófSz: 212). La supposizione di Bárczi relativa alla collocazione e al tipo dei dialetti risulta alquanto grossolana: i dialetti lombardi, per la loro posizione geografica, appartengono alla zona centrale dell’Italia settentrionale, tipologicamente sono nettamente distinti da alcuni dialetti dell’Italia nordorientale, come il veneziano e i dialetti veneti, tra loro tipologicamente affini. Essa è vieppiù infirmata anche da fattori culturali e storici: l’Ungheria aveva rapporti prima di tutto con Venezia.

I contributi di Ferenc Karinthy dedicati all’etimologia della parola ungherese, in numerosi lavori (Karinthy 1946: 60; 1947a; b), presentano un arco evolutivo di spiegazioni molto interessanti: respingendo la parola veneziana naranza (/naˈrantsa/) come etimo, interpretando il grafema 〈z〉 in naranza come ([dz]) e sostenendo che non si può spiegare una sostituzione venez. (/dz/) → ung. (/ʧ/) (Karinthy 1946: 60), Karinthy commette un errore enorme. Gli sfugge infatti che il grafema 〈z〉, sia nell’italiano letterario che nel dialetto veneziano – pur in mancanza di un’ortografia standardizzata di quest’ultimo – è il segno dei fonemi /ts/ e /dz/. Per il veneziano sarebbe stato sufficiente consultare con maggior attenzione il dizionario di Boerio (DDV) che tra l’altro è citato nella bibliografia riportata da Karinthy. In mancanza di ciò, egli propone come etimo narancio o narancia: “Finora si è cercato di derivare naramcs soltanto da forme italiane con z: naranza, naranz […], ma un cambiamento c > cs ([ts/ → /ʧ]) è dimostrato al massimo soltanto all’inizio di parola. […] È molto più probabile, quindi, che anche la parola italiana avesse cs ([ʧ]): narancio” (Karinthy 1947a: 23; 1947b: 23 ‒ trad. nostra, I. V.). Tra le parole citate da Karinthy si trovano it. narancio, narancia, ven. arancia, naranza, naranz (Karinthy 1947a: 11; 1947b: 11). L’etimo qui proposto evita anche di affrontare il problema della sostituzione del fonema /ts/ → /ʧ/.3 Karinthy cita le forme narancio e narancia da dizionari sincronici, rispettivamente bilingui e monolingui (O. Bulle & G. Rigutini: Neues italienisch-deutsches und deutsch-italienisches Wörterbuch 1935; P. Petrocchi: Novo dizionario scolastico della lingua italiana, 1942). Insolito è questo procedimento, perché di solito non si usano dizionari sincronici a fini storico-etimologici. È anche sorprendente che Karinthy non abbia utilizzato l’AIS, da cui risulta che le forme di tipo naransa /naˈransa/ sono diffuse nei dialetti dell’Italia nordorientale (VII: c.1272). È altrettanto strano che, oltre all’AIS, non siano state consultate altre opere importanti come l’Italienische Grammatik di Wilhelm Meyer-Lübke (Leipzig, 1890), la Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti di Francesco D’Ovidio & Wilhelm Meyer-Lübke (Milano, 1906), nonché il dizionario della lingua italiana di Tommaseo & Bellini (accessibile nell’edizione del 1865‒1879 a Budapest).

Stranamente Karinthy annovera, probabilmente per disattenzione, naranz (/naˈrans/) tra le forme veneziane, seppur menzionata dallo slavista János Melich che la considera parola milanese (Karinthy 1946: 60; Melich 1910: 116). Conviene ricordare che narans /naˈrans/ oltre ad essere attestato nell’Italia nordorientale soltanto nei dialetti del Trentino (AIS VII: c. 1272), è documentato anche nel parmigiano e nel reggiano, dialetti che non fanno parte tipologicamente dei dialetti dell’Italia nordorientale.

È strano inoltre che nessuno abbia pensato di istituire un rapporto riguardo all’adattamento dell’etimo presupposto di narancs e quello dell’ungherese lándzsa (/ˈlanʤɒ/) ‘lancia’ < lancia, ant. dial. lanza (/ˈlantsa/) (TESz. 2: 716), malgrado la presenza della stessa sequenza fonematica /nʧ/ in tutt’e due le parole. Come si vedrà, il dizionario etimologico ungherese (TESz), citando diversi etimi attinti alla lingua letteraria e ad alcuni dialetti, considera risolto il problema degli etimi di narancs. Per quanto riguarda l’adattamento di lancia all’ungherese, avvenne una sonorizzazione /ʧ/ → /ʤ/ che non trova riscontro nell’adattamento della presupposta /naˈranʧa/ in cui cade anche la vocale finale /-a/. È da rilevare ancora che mancano persino gli argomenti capaci di spiegare una sostituzione /ts/ → /ʧ/ nel caso di un possibile etimo lanza /ˈlantsa/, e anche la sonorizzazione di /ʧ/ → /ʤ/.

L’etimo narancio (con [-ʧ-]) è condiviso dallo slavista Lajos Kiss che, escludendo un’eventuale mediazione croata – il dizionario etimologico della lingua croata e serba non era ancora stato pubblicato a quell’epoca – stabilisce che la croata naranča (/ˈnaranʧa/) risale alla venez. naranza (/naˈrantsa/) (Kiss 1966: 212‒214). È da sottolineare che Kiss prende in considerazione soltanto la forma scritta delle parole in questione, senza tener conto della struttura fonologica delle parole citate come possibili etimi.

Questa lacuna sarà da noi colmata come segue. Il sostantivo croato presenta la sequenza di fonemi /ˈnaranʧa/, mentre quello veneziano ha una sequenza di fonemi diversa (/naˈrantsa/). Kiss fa risalire l’ungherese narancs a un narancio [/naˈranʧo/], parola dell’Italia settentrionale, mentre l’etimo del croato naranča sarebbe una narancia (!) (/naranʧa/) dell’Italia settentrionale oppure la venez. naranza (/naˈrantsa/) (Kiss 1966: 214). A Kiss sarà sfuggito che narancio nell’Italia settentrionale non è attestato, cosa che è stata ripresa senza critica dal TESz e da altri che si sono dedicati all’origine di narancs. Kiss, servendosi dei dati del dizionario storico della lingua croata e serba (AR), traccia la diffusione del prestito italoromanzo nel territorio linguistico croato e serbo. Afferma che naranča (/ˈnaranʧa/), prestito dall’italiano, si sarebbe diffuso nel dominio linguistico croato, mentre narandža/nerandža (/ˈnaranʤa/ˈneranʤa/), nel dominio linguistico serbo, risalirebbe al turco (Kiss 1966: 212‒213). Oltre alle parole citate è attestata anche un’altra forma, naranža (/ˈnaranʒa/), documentata in due punti distanti l’uno dall’altro nel territorio linguistico croato, la prima come hapax nell’opera “Vila Slovinka” (‘Fata slava’, 1614) del poeta zaratino J. Baraković (1548‒1628), mentre sulla seconda, attestata in Istria (AR 7: 553; ERHJS 2: 503), mancano informazioni ulteriori. È molto probabile che naranža venisse portata in Istria da profughi croati provenienti dai territori meridionali, che erano sfuggiti ai Turchi. La conservazione del fonema /ʒ/ che resistette al /ts/ della ven. naranza /naˈrantsa/, imprestata dai dialetti croati, conferma che si tratta di una forma da molto tempo radicata. Anche gli Albanesi fuggiti all’invasione turca ed insediatisi nell’Italia meridionale nel secolo XV, conservarono la propria parola nerënxë (/nərəndzə/) ‘narancia’ di origine turca nel nuovo ambiente linguistico (Pellegrini 1992: 176). Così, l’esistenza di naranža che non può risalire a un etimo italoromanzo, ‘stona’ con l’immagine del dominio linguistico croato presentata da Kiss.

Il lemma del TESz, basato fondamentalmente sullo studio di Kiss (1966), riporta altre forme dei dialetti dell’Italia nordorientale, attinte all’AIS, naránsa, naranŝa, naranşo, naránŝi, naránŝ, narants, ecc. (TESz 2: 999), senza dare ulteriori informazioni sul valore fonetico e sulla struttura fonologica delle parole citate. Tuttavia il volume introduttivo dell’AIS, concentrandosi soltanto sulla pronuncia dei suoni delle singole parole e trascurando di interpretarle sotto l’aspetto fonologico, fornisce indicazioni relative alla pronuncia dei singoli segni: [ŝ] (realizzazione del fonema /s/) = un suono tra [s] e [δ]4, [ş] = un suono tra [s] e [ʃ]5 (Jaberg & Jud 1928: 27). Tenuto conto del fatto che l’Italia nordorientale ha un’estensione geografica alquanto ampia, in cui oltre a dialetti veneti, come già detto, vengono parlati anche dialetti friulani e ladini, conviene esaminare da vicino le fonti dialettali delle parole qualificate come nordorientali dal TESz. Le forme narants, naránŝ provengono dal Trentino, naránsa dalle vicinanze di Vicenza, Venezia e Latisana (quest’ultima appartenente parzialmente al dominio friulano) e la forma plurale naránŝi dall’Istria (Pirano/Piran). Eccezion fatta per naransa le altre parole hanno, per motivi storici e culturali, uno scarso valore probante per l’etimologia della parola ungherese.

Dal breve panorama della letteratura specifica si ricavano due considerazioni molto importanti. La prima è che gli studiosi non hanno fornito una interpretazione fonetico-fonologica dei grafemi, rispettivamente 〈z〉 e 〈ci〉. La seconda rende evidente come alla maggioranza degli studiosi che si sono occupati in modo dettagliato del problema, mancassero, per dirla eufemisticamente, profonde conoscenze di italianistica. Ne consegue che la validità delle loro constatazioni può creare dubbi.

È noto che la maggior parte dei prestiti italoromanzi della lingua ungherese proviene dal dialetto veneziano. Questo fatto, condiviso anche dagli studiosi, è confermato da circostanze storiche e da fatti di storia culturale.

Kiss traccia il percorso delle vie commerciali tra l’Italia e l’Ungheria, menzionandone le tappe principali come Segna (cr. Senj), Modruš, Zagabria (cr. Zagreb), Križevci, Koprivnica (Kiss 1966: 212). È da notare che il percorso Segna-Modruš è soltanto il tratto iniziale di una via, la cui descrizione non viene completata da Kiss, che non si cura di dare una risposta all’eventuale domanda su dove avrebbe raggiunto, questa via commerciale, il tratto Zagabria-Križevci. È noto che era difficilissimo raggiungere il porto di Segna dalle regioni croate e ungheresi del retroterra, che, in assenza di strade costruite, era collegato soltanto tramite un sentiero di carovane con l’entroterra. Per questi motivi la praticabilità del percorso che partiva da Segna sembra più ipotetica che reale. Il trasporto dell’arancia doveva svolgersi su un percorso terrestre che, attraversando parte dell’odierna Slovenia, collegava Venezia con Zagabria. Tuttavia lo studio di Kiss dimostra che l’arancia importata da Venezia raggiunse l’Ungheria attraverso Zagabria, cioè su una via che attraversava territori croati e parzialmente sloveni. D’altro canto abbiamo buone ragioni per supporre che i mercanti veneziani nominassero il proprio prodotto nel loro dialetto, senza dover usare i nomi di altri dialetti/lingue romanze.

Il dialetto veneziano, lingua internazionale del commercio e della navigazione nel bacino orientale del Mediterraneo per molti secoli, aveva un alto prestigio. È poco probabile che i mercanti veneti, al posto della parola veneziana, usassero il termine del loro dialetto che d’altronde, anche nel caso peggiore, non doveva differire molto da quello veneziano, se non era addirittura identico. Il dialetto veneziano aveva due varianti per indicare il denotato, rispettivamente naranza /naˈrantsa/ e naransa /naˈransa/ (cfr. DDV: 436). La prima era propria del registro alto dell’alta e media borghesia della città fino alla metà del secolo XIX, mentre la seconda, contenente il fonema /s/, era usata nel registro plebeo del veneziano (cfr. DDV: 11‒12; Rohlfs 1966-1969: §§ 152, 290). La forma naransa /naˈransa/ del veneziano odierno ha prevalso in seguito al declino del peso economico e sociale della grande borghesia veneziana, venuto meno in seguito all’incorporamento della repubblica in organizzazioni statali più ampie (prima in Austria, poi in Italia). Nel Veneto è attestata naransa /naˈransa/ oggi nel veronese (PDVI: 146), nel chioggiotto (VDCh: 334), nel gradese (Bottin 2003: 315), nel muggese, nei dialetti di tipo veneto di Capodistria/Koper, di Buie d’Istria/Buje, di Parenzo/Poreč. La variante naranza /naˈrantsa/ è attestata nel veronese, nel bisiàc (VFDB: 296), e nei dialetti di tipo veneto di Cherso/Cres, Lussingrande/Lošinj (PDVI: 146; VG: 671). Le forme narancia/narancio /naˈranʧa/naˈranʧo/, usate fino a poco tempo fa nei dialetti di tipo veneto di Pirano d’Istria/Piran e di Isola d’Istria/Izola sono, secondo noi, il risultato dell’incrocio della veneta naranza /naˈrantsa/ e dell’it. arancia /naˈranʧa/. I dialetti di Pirano e d’Isola sono da escludere dal punto di vista storico come fonti del prestito ungherese.

Anche il dialetto triestino odierno di stampo veneto, che nel secolo XVIII ha soppiantato il vecchio dialetto locale di tipo friulano, presenta fenomeni simili a quelli del dialetto veneziano. Nella letteratura specifica si distinguono due registri del triestino: il triestino patoco e il triestino negron. Il primo, usato dalla borghesia rispettivamente alta e media, è caratterizzato dall’uso di forme contenenti il fonema /ts/, p. s. naranza (/naˈrantsa/), panza (/ˈpantsa/), lanza (/ˈlantsa/), mentre nel registro plebeo sono tipiche le forme con il fonema /s/ (Doria 1978: 41‒42, 101‒104, 134‒135, 138, 177).

È chiaro che, volendo identificare l’etimo italoromanzo dell’ungherese narancs, s’impongono le forme veneziane naranza (/naˈrantsa/) oppure naransa (/naˈransa/).

Tra i dati dell’AIS relativi all’Italia nordorientale solo una forma è attestata senza il fonema iniziale /n-/, la gradese aranşa (/a’ransa/) (AIS 7: c. 1272). Si tratta, con ogni probabilità, della contaminazione di una parola dialettale con quella dell’italiano standard.

Alla luce di questi fatti linguistici risulta più che sorprendente la spiegazione etimologica del TESz, ripresa anche dall’EWUng, che non prende in considerazione dovuta i fatti linguistici:

Sulla base di criteri di geografia linguistica e di fonetica, i dialetti dell’Italia nordorientale costituiscono la fonte del prestito. Le varianti con n iniziale sono infatti attestate in quella zona e le forme dialettali della zona possono avere anche precedenti con č, cfr. ancora l’it. letterario arancio ‘albero d’arancia’, arancio, arancia 〈frutto〉. La parola ungherese, che potrebbe essere il prestito di una forma italiana senza vocale finale, può essere derivata anche da una parola uscente in vocale (naranča, ecc.), in seguito alla caduta della vocale finale a, interpretata come formante, cfr. szombat (‘sabato’), kamat (‘interesse’), tömlöc (‘prigione’) ecc. (TESz. 2: 999, ‒ trad. nostra, I. V.).

Tale spiegazione si basa in parte su ipotesi che contraddicono ai fatti di storia linguistica. Il lemma cerca di conciliare la proposta – ipotetica, aggiungiamo subito – di Karinthy e Kiss, con i dati dell’AIS (v. supra), in un ragionamento formulato parzialmente al condizionale, quindi come possibilità, senza preoccuparsi di individuare in modo più preciso l’etimo del prestito.

L’EWUng rinvia un etimo dell’ungherese narancs ai dialetti dell’Italia nordorientale, elencando una serie di voci dialettali istriane (narancia, narancio), giuliane (naransa, naranso), romagn. naranž (/naˈranʒ/) con un fonema finale /ʒ/ più che discutibile), bol. narensa, Vittorio Veneto narans, venez. naranza, narancia, it. arancia, arancio, senza precisare più da vicino la forma dialettale che sarebbe passata nell’ungherese, senza neanche pensare di spiegare la struttura fonologica del possibile etimo.

Neanche gli italianisti Zuzsanna Fábián e Győző Szabó, che seguono la proposta etimologica dell’EWUng citando, salvo due eccezioni, gli esempi dello stesso, accennano alla struttura fonologica degli etimi possibili e della loro pronuncia (Fábián & Szabó 2010: 58).

Secondo il parere unanime degli etimologi italiani l’it. arancio, arancia (/aˈranʧo, aˈranʧa/), nonché le varianti dialettali, sono prestiti dall’arabo (< pers. naranğ (/naranʤ/) (DEI 1: 266; DELIUN 2002: 120). Gli studi di Giorgio Pasquali e di Giovan Battista Pellegrini hanno dimostrato che il frutto venne diffuso dagli Arabi in Sicilia, dove le prime attestazioni della parola risalgono al secolo XII (Pasquali 1964: 317‒318; Pellegrini 1972: 117). Anche Mario Doria fa risalire la triest. naranza (/naˈrantsa/) all’arabo (GDDT: 397), mentre, stranamente, la corrispondente veneziana manca nel dizionario etimologico di Angelico Prati (EV). Visto che nel dialetto veneziano (e nei dialetti veneti, salvo alcuni) non si trovano gruppi consonantici in posizione finale di parola, al sostantivo arabo venne aggiunta una vocale finale. Tra i fonemi possibili /o/ e /a/ venne scelta quest’ultima, sorretta anche dalla sequenza finale -anza /-antsa/ che è abbastanza frequente nel dialetto veneziano, e che a sua volta spiega anche la sostituzione del fonema arabo /ʤ/ → /ts/ (cfr. Rohls 1969‒1969: § 1106).

Il recente dizionario etimologico della lingua ungherese, accettando l’origine italiana di narancs, fornisce una spiegazione sorprendente dell’etimo italiano, secondo la quale le parole italoromanze citate risalirebbero al sostantivo spagnolo naranja (ESz: 562), tesi formulata per la prima volta nell’EWUng (1016) discostandosi dal TESz (2: 999) che sostiene l’origine araba delle forme italoromanze. L’origine della spiegazione dell’EWUng risale con grande probabilità al DudEt. Non avendo potuto accedere alla sua edizione del 1989, consultata probabilmente dagli autori dell’EWUng, in cui manca il riferimento al DudEt, ci siamo valsi – per la nostra verifica – della seconda ristampa del 1997, nella quale il ted. Orange è indicato come un prestito dal francese che, insieme con l’italiana arancia, risalirebbe, tramite la mediazione dello spagnolo naranja, all’arabo nāranǧ (/naranʤ/) (< pers. nārinǧ (/narinʤ/)) (DudEt: 501). È da ricordare che un altro dizionario etimologico tedesco presenta una trafila modificata: ted. Orange < fr. (pomme d’) orange (/oranʒ/) < sp. naranja (/naranxa/) < ar. nāranǧ < pers. nārinǧ, omettendo, giustamente, l’etimo dell’it. arancia (Kluge 1999: 603).

Per confutare l’origine spagnola dell’it. arancia sono sufficienti alcuni rapidi controlli dell’adattamento dei prestiti spagnoli al sistema fonomorfologico dell’italiano, che mostrano la sostituzione di fonemi sp. /x/ → /ʤ/, nonché /x/ → /ʃʃ/, p. s. sp. flojo (/ˈfloxo/) → it. floscio (/ˈfloʃʃo/); sp. jarra (/ˈxarra/) → it. giara (/ˈʤara/); sp. gitano (/xiˈtano/) → it. gitano (/ʤiˈtano/), jalapa (/xaˈlapa/) → it. gialappa (/ʤaˈlappa/); sp. junquillo (/xunˈkiʎo/) → it. giunchiglia (/ʤunˈkiʎʎa/); sp. junta (/ˈxunta/) → it. giunta (/ˈʤunta/) (DELIUN: 593, 656, 657, 666, 669). L’origine spagnola dell’it. arancia e anche di naranza e parole consimili, è inammissibile sia dal punto di vista linguistico che da quello storico.

Tornando al presunto etimo italoromanzo del sostantivo narancs, non ci resta altro che esaminare se sia possibile farlo derivare dalle veneziane naranza /naˈrantsa/ e naransa /naˈransa/; in caso negativo, bisognerà individuare un altro etimo. Prima di passare alla disamina, conviene fare una digressione.

Gli esempi di naranzi (/naˈrantsi/) riportati nel dizionario storico della lingua italiana, non confermano l’etimo (con /ʧ/) proposto da Karinthy. Questi esempi sono attinti alle opere di autori nati a Venezia o nel Veneto (G. Barbaro, G. Capodilista, M. Sanudo), oppure a Piacenza (G. Parabosco), operanti nella città lagunare, nei quali il grafema 〈z〉 è il segno del fonema /ts/. La forma naranzi è sorta, secondo noi, in seguito alla contaminazione della venez. naranza /naˈrantsa/ con l’arancio /aˈranʧo/ dell’it. letterario.

Oltre alle forme citate sono attestati anche naranci (Maestro Martino, F. Colonna, R. da Sanseverino, Ariosto) e narancia (G. Barbaro) (GDLI 11: 177). Il digramma 〈ci〉 in questi testi non è il segno del fonema /ʧ/ dell’italiano letterario. Già Bruno Migliorini ha rivelato che nei testi del secolo XV il nesso 〈ci〉, alternandosi con 〈ti〉 davanti a vocale, veniva usato per indicare il fonema /ts/ (Migliorini 1971: 269). Pier Vincenzo Mengaldo sottolinea inoltre che l’uso del digramma 〈ci〉 per /ts/, diffuso nell’Italia settentrionale, veniva rafforzato anche da tendenze ipercorrettistiche (Mengaldo: 1963: 94‒95; cfr. Rohlfs 1966: § 289). Tra gli autori che usano i grafemi 〈ci〉 per il fonema /ts/ alcuni sono di origine veneziana (G. Barbaro, F. Colonna), altri di origine settentrionale (Maestro Martino), ancora altri, pur se di nascita meridionale, operarono a lungo tempo nell’Italia settentrionale (R. da Sanseverino). L’uso del digramma 〈ci〉 da parte di questi autori per indicare il fonema /ts/ è segno di ipercorrezione che si basa sulla corrispondenza venez. (e sett.) /ts/: it. /ʧ/, /tʧ/, p.es. (lat. quinque >) venez. zinque /tsinkwe/: it. cinque /ʧinkwe/; (lat. facio >) ven. fazo /fatso/: it. faccio /fatʧo/, ecc. Non mancano poi forme contaminate come naranzi, (per naranci /naranʧi/) presso il veneziano G. Barbaro e aranzi (per aranci /aranʧi/) del toscano Pietro Aretino, che operò a lungo a Venezia.

Ora passiamo ad esaminare l’adattamento della veneziana naranza /naˈrantsa/ come possibile etimo al sistema fonomorfologico ungherese. Il primo compito è chiarire le ragioni di un’eventuale sostituzione del venez. /ts/ → ungh. /ʧ/. Il fonema /ts/, attestato nella lingua ungherese dalla metà del secolo XI in poi (Bárczi 1958: 82), è documentato nel nesso consonantico /nts/ all’interno di parola ma anche in posizione finale dalla prima metà del secolo XII in poi, cfr. i nomi geografici Vasonca (1278/1430), Berzence (c 1288/1230), Kemence (1156), Lesence (1262) (FNETSz 2: 743, 1: 205, 1: 510, 1: 710, 2: 29); Ablánc-patak (1233), Alvinc (1342/1359), Grabonc (1335), Gönc (1219/1550), Ivánc (p. 1237/1353), Losonc (1247), Nagyszalánc (1270/1272), Rohonc (1259‒1273), Szenc (1252) (FNEtSz 1: 51, 97, 335, 527, 639, 2: 47, 211, 421, 553).

Questa serie può essere completata da alcuni nomi comuni di data antica, in cui il segmento consonantico /nts/ si trova in posizione finale: harminc (‘trenta’; verso 1405),6 lánc (‘catena’; 1219/1550), tánc (‘ballo’; 1350), kilenc (‘nove’; 1378),7 gerinc (‘spina dorsale’; 1575), konc (‘preda’; 1181/1288/1366/sec. XVI) (TESz 2: 714‒715, 3: 837, 2: 488‒489, 1: 1053, 2: 545, 3: 1114, 2: 61‒62).

Nessun ostacolo distribuzionale del nesso /nts/ imponeva dunque la sostituzione venez. /ts/ → ungh. /ʧ/, cosa che infirma la validità dell’ipotesi del prestito di naranza.

Neanche la forma venez. naransa come etimo possibile, imponeva la necessità di una sostituzione venez. /s/ → ungh. /ʧ/. Anche se il nesso /ns/ non si trova in posizione intervocalica nelle parole ungheresi, la sua comparsa possibile in alcune forme agglutinate di pochi sostantivi in /ns/ finale, cioè al limite di un morfema, seguito da una desinenza, p. s. fajanszot ‘faenza’ (acc. di fajansz + legamento o + t, segno dell’accusativo), sanszot ‘possibilità’ (acc. di sansz + legamento o + t, segno dell’acc.), essendo plausibile, non rende necessaria una sostituzione di venez. /-ns-/ → ung. /-ns/8.

Quanto esposto finora rivela la difficoltà di spiegare la presenza del fonema /ʧ/ della parola ungherese nel caso di una presupposta origine veneziana, sia con /ts/ sia con /s/. Bisogna, quindi, rinunciare all’etimo veneziano ed estendere la ricerca dell’origine di narancs ad altre lingue che per motivi storico-culturali possano essere prese in considerazione, per arrivare a conclusioni più soddisfacenti.

Già nel suo articolo citato supra, Kiss rivela che Zagabria era un luogo importante nel commercio di arance nella prima metà del sec. XVI (Kiss 1966: 213). Nessuna difficoltà ostacola la derivazione di narancs dal sostantivo croato naranča /ˈnaranʧa/. L’unico problema, valido anche nel caso di un’origine italoromanza, è costituito dalla necessità di spiegare il motivo della caduta della /a/ finale. Il problema non è considerato insormontabile dallo stesso Kiss, che cita una serie di prestiti slavi dell’ungherese in cui le vocali finali dell’etimo slavo sono cadute: tömlöc (/ˈtømløts/)9 ‘prigione’, szombat (/ˈsombat/)10 ‘sabato’, ecc. (Kiss 1966: 214). L’autore, non escludendo una possibile origine croata del sostantivo ungherese, è propenso però ad accettare, per motivi fonetici ed altre considerazioni, l’etimo italoromanzo, considerandolo più semplice e convincente (Kiss 1966: 214).

Siamo del parere che né ragioni storiche, né storico-culturali, né fonologiche, contraddicono all’origine croata di narancs. L’esame di questa possibilità richiede che tutte le forme attestate nei dialetti croati e serbi vengano analizzate. Le forme narandža/nerandža /ˈnaranʤa/ˈneranʤa/ e naranža /ˈnaranʒa/ sono prestiti dal turco narenc /narenʤ/ (ERHSJ 2: 503). Tenuto conto del fatto che il croato e il serbo originariamente non possedevano il fonema /ʤ/, nello strato più arcaico dei prestiti turchi avvenne la sostituzione /ʤ/ → /ʒ/ (cfr. Kakuk 1973: 478‒479; AR 14: 612, s.v. sanǵak). Anche se, secondo il dizionario storico dell’accademia croata, il grafema 〈č〉 delle varianti nei testi antichi aveva il valore fonetico ([ʤ]) (AR 3: 566, s. v. hanǵar), le ragioni della presenza di /ʧ/ in alcune parole della lingua odierna come bunčuk (/ˈbunʧuk/) < bonǰuk (/bonʤuk/) (Kakuk 1973: 76; Škaljić 1966: 147) e dirinčiti < derenǰ (/derenʤ/), variante di dirindžiti (/dirinʤiti/) (Škaljić 1966: 219) sono ancora da chiarire. Emergono ad hoc due spiegazioni ipotetiche: è possibile che si abbia a che fare a) con una desonorizzazione /ʤ/ > /ʧ/ per motivi ancora sconosciuti; b) con relitti di una sostituzione /ʤ/ → /ʧ/, esistita accanto a quella /ʤ/ → /ʒ/ e sopraffatta da quest’ultima.

Secondo le nostre conoscenze attuali la prima attestazione della croata naranča risale ad un testo in latino scritto nel 1368 a Ragusa/Dubrovnik: „Hec sunt res … narangia IICL (corsivo nostro – I. V.) de Giue de Sagot" (Tadić 1935: 185; cfr. LLMI 2: 755), in cui il digramma 〈gi〉 ha il valore fonetico [ʒ] a differenza di arangius [= ʤ] dell’a. 1331 e arancius [=ʧ] dell’a. 1323 attestati in testi latini dell’Italia meridionale (GDLI 29: 654). È degna di attenzione anche la data della stesura del documento raguseo, il 1358, anno dell’emancipazione definitiva di Ragusa/Dubrovnik dalla sottomissione a Venezia. Successivamente la città dalmata, allo scopo di sviluppare il proprio commercio, iniziò a creare un nuovo sistema di rapporti con l’estero. Nel 1373 ottenne dal papa, su mediazione del re d’Ungheria e di Croazia, il permesso di commerciare, con un numero limitato di navi, con i Turchi. Nel 1374 la città chiese il premesso alla Porta per poter comprare grano in Asia Minore (Krekić 1961: 36); nel 1392 ricevette una lettera di garanzia dal sultano che le facilitava il commercio con la penisola balcanica (Krekić 1961: 41‒43). Data la sua posizione geografica, Ragusa era interessata a continuare e a sviluppare i suoi contatti commerciali con i Turchi anche nel secolo XV. Un accordo stipulato nel 1447 garantiva liberi commerci ai mercanti della città nei territori balcanici sotto dominio turco (Krekić 1961: 52 sg, 58). Alla luce dei dati storici menzionati è possibile stabilire un rapporto cronologico tra naranža e narandža. Visto che nel dialetto croato stocavo sorse un nuovo fonema, il fonema /ʤ/, al più tardi nella prima metà del secolo XV,11 la forma naranža /naranʒa/, prestito dal turco, dovette passare in croato probabilmente prima della fine, o al massimo alla fine del secolo XIV.12 È molto verosimile che il fonema /ʒ/ in naranža fosse sostituito dal secolo XV in poi, in alcune parlate locali, dal fonema /ʤ/, in seguito ai contatti frequenti con la lingua turca.13 La forma con /ʒ/ è sopravvissuta in Istria, zona periferica del dominio linguistico croato, trasportata là con ogni probabilità da profughi croati che fuggirono davanti all’avanzata turca nei territori meridionali.

Ora non ci resta che chiarire l’origine della croata naranča (/ˈnaranʧa/). Secondo noi si tratta della forma ipercorretta della ven. naranza /naˈrantsa/ che si basa sulla corrispondenza tra gli esiti del /-kj-/ intervocalico latino e di /k + e, i/ latino in posizione iniziale: venez. /-ts-/, fazo /fatso/, /ts-/ cento /tsento/ : it. /-tʧ-/ faccio /fatʧo/, /ʧ-/ cento /ʧento/ (v. Tekavčić 1980: §§ 148‒157, 161‒179). Gli interlocutori croati, consapevoli di tale corrispondenza e credendo che la pronuncia con [ʧ] avesse maggior prestigio perché italiana, sostituirono il fonema /ts/ con quello /ʧ/. Tale sostituzione non costituisce un caso isolato, come mostrano altre ipercorrezioni nei dialetti, p. s. marač (/ˈmaraʧ/) < marzo (Muljačić 1962: 276, n. 77; Muljačić 1976: 16‒17), ragač (/ˈragaʧ/) < ragazzo, ganač (/ˈganaʧ/) < ganzo, beči (/ˈbeʧi/) < bezi (Vig 2003: 116‒118).

L’adattamento del sostantivo croato naranča al sistema linguistico dell’ungherese non crea difficoltà; soltanto la caduta della /a/ finale ha bisogno di chiarimento. Secondo la spiegazione corrente la /a/ finale sarebbe stata omessa, perché interpretata come desinenza possessiva:14 Ciò non solo è molto discutibile, a nostro parere, ma anche insoddisfacente, per due motivi. In primis, in numerosi prestiti di origine slava si è conservata la vocale finale,15 p. s. berkenye ‘sorba’ < *brěkinja (TESz 1: 285), reg. kabala ‘giumenta’ < kobyla, kobila (TESz 2: 289‒29’), reg. oszpora ‘sorta di moneta d’argento’ < aspra (TESz 2: 1101), palota ‘palazzo’ < polata (TESz 3: 75‒76), pecsenye ‘arrosto’ < pečenja, pečenje (TESz 3: 141), pogácsa ‘foccaccia’ < pogača (TESz 3: 235), ecc. In secundis, le parole in cui la caduta della vocale finale è dovuta alla sua interpretazione come desinenza possessiva, costituiscono un gruppo eterogeneo dal punto di vista del loro impiego possibile negli enunciati. Da una parte oltre a narancs abbiamo beszéd ‘1. il parlare, parola, 2. discorso’ < besěda (TESz 1: 289), tömlöc ‘prigione’< tьmьnica, (Kniezsa 1974: 531‒532; TESz 3: 965): mentre sia narancs che beszéd possono trovarsi in costrutti di possesso come valakinek a narancsa (‘l’arancia di qualcuno’), valakinek a beszéde (‘il discorso di qualcuno’), è più difficile immaginare costrutti del tipo valakinek a tömlöce (‘la prigione di qualcuno’), in quanto i detentori delle prigioni (il re e/o altre istituzioni) erano conosciuti, per cui era assolutamente superfluo nominarli. Dall’altra parte abbiamo kabala, oszpora, palota, pecsenye, pogácsa, che possono ricorrere in numerosi costrutti possessivi, pur non avendo perduto la loro vocale finale.

La spiegazione di Kniezsa e di altri sembra essere una spiegazione ad hoc, in mancanza di un’idea esplicativa migliore, sintomo di una vecchia concezione fondata sui fatti linguistici, per non dire arbitraria.

La spiegazione soddisfacente delle ragioni della caduta delle vocali finali nei prestiti dell’ungherese sulla base dell’analisi di un corpus ampio si fa ancora attendere. Si potrebbe prendere in considerazione, come suggerimento, il fatto che la maggior parte dei sostantivi dello strato più antico della lingua ungherese, di provenienza ugrofinnica, turca antica e slava, è costituita rispettivamente da nomi monosillabici e bisillabici, cosa che potrebbe aver condizionato l’adattamento di naranča con la caduta della vocale finale al sistema fonomorfologico della lingua ungherese entro un certo periodo, diciamo entro la fine del secolo XV. Ma questa è soltanto un’ipotesi che dovrebbe essere verificata ulteriormente.

Neanche l’origine turca (narenc /narenʤ/) del sostantivo ungherese può essere esclusa, perché in un periodo di circa 150 anni, durante il quale approssimativamente un terzo del territorio ungherese di un tempo si trovò sottoposto alla dominazione turca, alcuni generi voluttuari come kávé ‘caffè’ e kajszi (barack) ‘una sorta di albicocca’, sono prestiti dal turco (TESz 2: 309, 413).

Per le ragioni esposte sopra, il sostantivo narancs secondo noi non è un prestito dal veneziano. L’arancia, insieme con altre delicatezze di origine meridionale come castagne, olive, limone, fichi, granate, erano consumate nella corte di re Mattia (1458‒1490) (Csánki 1883: 652). Narancs, attestato per la prima volta in un documento in lingua latina in Ungheria nel 1505 (narancz), preceduto da un’attestazione in un documento in latino di Zagabria del 1481, ricorre per la prima volta (naranch) in un testo ungherese del 1552 (OklSz: 680). Tenuto conto del fatto che si tratta di un prodotto importato sicuramente dall’Italia, non è da escludere che all’inizio potesse esistere nella lingua ungherese anche una parola di origine veneziana, poi soppiantata dalla forma odierna che, secondo noi, è più che probabile sia un prestito del sostantivo croato naranča. Come già accennato, non è da escludere del tutto neanche un’origine turca, che dovrebbe essere confermata o confutata da ricerche ulteriori.

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  1. Gli interessi di László Hadrovics (1910‒1996), studioso di slavistica e di ungarologia, abbracciavano un campo vastissimo: l’etimologia, la storia delle lingue, i contatti linguistici e culturali ungaro-croati, ungaro-serbi, ungaro-boemi, la toponomastica, la lessicologia, la lessicografia, la semantica, la grammatica, la storia della letteratura e la storia. Seguendo le idee dei collaboratori della rivista tedesca Wörter und Sachen (Heidelberg, 1909‒1944), si è distinto, insieme con altri colleghi germanisti ungheresi (Erzsébet Hartnagel, Károly Mollay), nel campo dell’etimologia, adottando un nuovo metodo di ricerca basato sullo studio delle fonti scritte (forrásolvasó etimologizálás) e contrapponendolo all’altro metodo tradizionale, anche oggi largamente praticato da molti studiosi e basato sull’uso dei vocabolari (szótárforgató etimologizálás) (cfr. Vig 2016: 37‒38).↩︎

  2. Le parentesi quadre e le barre per indicare rispettivamente i suoni concreti e i fonemi, e racchiuse tra parentesi tonde, sono inserite da me, I. V., per motivi di interpretazione coerente, nei riassunti dei lavori citati in cui figurano soltanto le lettere dell’ortografia tradizionale delle lingue rispettive, per indicare esclusivamente i suoni.↩︎

  3. Ricordiamo qui che Karinthy parla di suoni e non di fonemi.↩︎

  4. Equivalente del segno [ɗ] dell’IPA.↩︎

  5. Suono palatalizzato [s’].↩︎

  6. La parola risale con ogni probabilità all’antico ungherese (1000‒500 a.Cr.) (cfr. TESz 1: 61).↩︎

  7. Risalente, con ogni probabilità all’antico ungherese (1000‒500 a. Cr.) (cfr. TESz 2: 488‒489).↩︎

  8. Nonostante fajansz e sansz siano prestiti relativamente recenti della lingua ungherese (prime attestazioni rispettivamente nel 1786 e nel 1854 (TESz 2: 828; 3. 484)) nessuna regola distribuzionale ostacolava la presenza di un nesso consonantico /ns/ in posizione finale nei secoli anteriori.↩︎

  9. < slavo tьmьnica (Kniezsa 1974: 531‒532; cfr. TESz 3: 964‒965; EWUng: 1542; ESz: 860).↩︎

  10. < slavo sǫbota (Kniezsa 1974: 508‒509; cft. TESz 3: 779‒780; EWUng: 1447; ESz: 803).↩︎

  11. Il fonema è attestato nel nome del poeta raguseo Džore Držić, nato nel 1461.↩︎

  12. Tenuto conto del fatto che la formazione di un nuovo fonema, resa possibile da fattori linguistici inerenti a un sistema linguistico (cfr. Moguš 2010: 89‒90) richiede un certo periodo di tempo per diventare parte stabile dell’inventario dei fonemi della lingua in questione, il termine temporale posto alla fine del secolo XIV potrebbe costituire uno spartiacque possibile. Le spinte che all’interno del sistema stocavo portarono alla formazione del nuovo fonema /ʤ/, potevano già essere in movimento nel secolo XIV.↩︎

  13. Che il fonema /ʤ/ fosse già profondamente radicato nel sistema linguistico del croato stocavo del secolo XVI, è dimostrato dalla presenza di numerosi prestiti di origine italoromanza che vennero adattati senza sostituzione del fonema /ʤ/, cfr. gli esempi nel registro letterario stocavo di Dubrovnik/Ragusa, p. s. fodža ‘foggia’, indudžati ‘indugiare’, indženj ‘ingegno’, indžurija ‘ingiuria’, dženeracijon ‘generazione’, džilj ‘giglio’, džoja ‘gioia’, ecc. (Hyrkkänen 1973: §§ 396, 464, 465, 468, 290, 176, 295).↩︎

  14. Nella lingua ungherese il rapporto di possesso viene segnato tramite una desinenza possessiva obbligatoria -a, oppure -e, condizionate dall’armonia vocalica, aggiunta al denotato posseduto, preceduto dal possessore non obbligatoriamente marcato, p. s. a századosnak a parancsa/a százados parancsa ‘il comando del capitano’, a királynak a kincse/a király kincse ‘il tesoro del re’.↩︎

  15. Tutte le parole qui citate sono passate nella lingua ungherese entro la fine del secolo XV, cosa che esclude qualsiasi tipo di congettura riguardo al loro eventuale trattamento posteriore nel processo di adattamento al sistema fonomorfologico della lingua ungherese. Per gli stessi motivi non sono stati presi in considerazione prestiti che, nonostante la loro prima attestazione nel secolo XVI, potevano già far parte integrante del lessico ungherese nei secoli precedenti.↩︎