Verbum – Analecta Neolatina XXII, 2021/2

ISSN 1588-4309; ©2021 PPKE BTK



Tra il 1905 e il 1936 Dezső Kosztolányi scrisse con continuità per quotidiani e settimanali ungheresi. Oltre alle poesie e ai capitoli dei suoi romanzi, vi pubblicava quotidianamente elzeviri, cronache, novelle, racconti, ‘bustine’, traduzioni, recensioni, brevi note di estetica, linguistica, letteratura. Migliaia di scritti, quasi sempre brevi, talora brevissimi, estremamente varî nel genere e nei soggetti, a volte firmati con uno pseudonimo.1 Tale varietà riflettono le sottili distinzioni di genere utilizzate dai redattori del primo catalogo di questi scritti.2 Numerose le testate che li hanno ospitati. Fra i quotidiani di larga diffusione spicca però il Pesti Hírlap (Gazzetta di Pest), cui l’autore collabora dal 1921 fino alla morte (1936), e che dal 1925 ha anche un supplemento culturale della domenica: A Pesti Hírlap Vasárnapja (La Domenica della Gazzetta di Pest). Tra i settimanali ricordiamo A Hét (La Settimana), fra le riviste letterarie la Nyugat (Occidente). Pubblicistica e giornalismo vanno intesi in senso del tutto originale, inevitabilmente: su riviste e quotidiani si forma infatti il Kosztolányi romanziere.3

I luoghi delle narrazioni non sono sempre topograficamente identificabili, ma lo spazio, quando esterno, è quello cittadino: marciapiede, mercato, negozio, fermata, ecc. Qui Kosztolányi capta un fatto o un oggetto, di quelli che raramente finiscono nella cronaca dei giornali. E che diventano subito altro dalla cronaca, poiché la realtà è più improbabile del realismo. Tanto che fatti o oggetti realmente esistiti possono apparire al lettore – specialmente cento anni dopo – come novella di pura finzione.4 In una rubrica del Pesti Hírlap Kosztolányi ha scritto che “La vita non è verosimile […] La vita è audace” […] „Lo scrittore che veramente crea, ci mette le cose davanti e scompare dietro di esse. Non spiega niente. È efficace in quanto ciò che egli opera è espressivo. Assomiglia alla natura creante. Che non cavilla o chiacchiera. Semplicemente è. Un torrente non ha note in margine. Né il bosco ha un attributo che lo abbellisce. Il narrante autentico mostra le superfici e la profondità della vita sotto di esse. Sa tutto, ma tace. Anche l’uomo più intelligente narra come un bambino inconsapevole. La magia della narrazione dimora proprio nell’antitesi, in un’abile temperanza".5 Il mendicante, un gatto, una stamberga, un pranzo sull’asfalto, una rotaia, una penna, un pupazzo di neve: l’ossessionante compassione per l’esistente di Kosztolányi suggerisce insospettati abissi, indica mete sconosciute, desta inattesi sorrisi. I micro-scritti non sono i prodromi o i figli dei romanzi di Kosztolányi, ne sono in vero la quintessenza. Nelle poche righe delle colonne del giornale la lingua è necessariamente netta, il ritmo calcolato, la concezione risoluta. Gli eccessi coloristici non intaccano l’etica per così dire ‘pura’ dell’osservatore-descrittore-narrante. La tendenza secessionista – accumulo di aggettivi, ridondanza, preziosa rarità di forme linguistiche – è una patina limitata a un breve periodo della prosa di Kosztolányi, che mai intacca la transizione di idee e immagini. Patina rimuovibile, con la dovuta cura, nella traduzione, che non è il restauro di un dipinto, di cui si cerca l’immagine fissata nel suo tempo.

Gli scritti sono stati raccolti e pubblicati prima in una serie di volumi curati da Gyula Illyés, negli anni Trenta, poi in una seconda serie di volumi negli anni Settanta, a cura di Pál Réz. Solo recentemente si è cercato di fare ordine, identificando i luoghi originali di pubblicazione nel catalogo sopra ricordato. Non esiste ancora un’edizione critica. Un rilevante contributo nella diffusione di questi scritti è rappresentato da un’antologia a cura di Maurice Regnaut e Péter Ádám, in cui sono stati presentati e tradotti una cinquantina di pezzi.6 I cinque qui tradotti in italiano sono una prima offerta di un volume antologico in preparazione.7 Ringrazio Péter Ádám, che mi ha accompagnato fin qui e mi accompagna nell’opera di comprensione e di traduzione dei testi; e László Bengi per avermi aiutato a fare i primi passi nel mondo di Kosztolányi pubblicista.



Un mendicante rigoroso

Mendicanti per strada.

Uno ha dieci milioni, l’altro solo due milioni, il terzo non ha nemmeno un milione. L’uno è fiero di essere mendicante, l’altro si vergogna di essere mendicante. Però sono tutti mendicanti. Sono accomodanti, bonari, umili. Insomma, sono mendicanti.

Io invece mi ricordo di un mendicante che una volta, in tempo di pace, girava tra noi a testa alta, nelle nuvole di fumo dei caffè letterari. A confronto con l’umanità di oggi lo definirei un vero Catone, che merita di essere ritratto per essere salvato dall’oblio.

Lo riconoscevo facilmente, perché non era mai rasato. Ma non come un qualsiasi mortale. C’è chi ha la barba di due o di dieci giorni. Lui portava sempre una barba di cinque giorni: una barba di cinque giorni ieri e una barba di cinque giorni domani. Come gli riuscisse non lo so. È uno di quei misteri che destava il mio interesse nei suoi confronti.

Portava occhiali spessi – l’unica cosa di valore che indossava –, e un cappello d’artista di larga falda raccattato nella spazzatura, che non metteva mai in testa, ma teneva in mano, estate e inverno. È impossibile ritrarne fedelmente il vestito, la camicia, i polsini, poiché non esiste inchiostro sufficientemente nero. So solo che quando una volta lo presentai a un regista teatrale che stava allestendo I bassifondi di Gorkij, questi arrossito ammise di non essere un seguace del naturalismo.

Ad ogni modo ha vissuto per anni negli ospizi notturni e tra l’altro veniva a mendicare nei caffè, ai cosiddetti “tavoli degli artisti”. Non si rivolgeva mai ad estranei. Era invece affezionato alle sue vecchie conoscenze. Per lui mendicare era una questione di confidenza.

Si fermava regolarmente davanti al mio tavolo, magro, con la schiena diritta mi fissava con sguardo rigoroso e attendeva con pazienza che finissi di leggere il giornale o di bere il caffè. A quel punto, con tono deciso e perentorio diceva a bassa voce:

– Ottantacinque.

Questo non voleva dire, come crede il lettore del dopoguerra, che in un momento di difficoltà avesse bisogno di ottantacinquemila o ottantacinque corone. A quel tempo i mendicanti erano più ricchi. Chiedevano soltanto ottantacinque centesimi.

La prima volta gli detti con cortesia una corona. Senza dire una parola la mise nella tasca del gilet, mentre dall’altra tasca tirò fuori quindici centesimi. Mi dette il resto, come un cameriere. Poi, senza ringraziare né salutare, si allontanò. Questo era il suo metodo, cui teneva rigidamente.

Sulla base di un’aliquota ignota, rimasta per sempre segreta, stabiliva con giustizia una tassa per ciascuno di noi, lui, capo di stato della povertà, e noi dovevamo pagare quello che gli spettava. L’elemosina però non l’ha mai accettata.

Conversare con lui era impossibile. Non rispondeva ad alcuna domanda. Ho saputo da altri che prima di diventare mendicante aveva scritto libri, parlava molte lingue. Certi periodi veniva più frequentemente, e avvertendo forse egli stesso la ripetitività della sua richiesta, diceva:

– Sechsundsechzig.

Fossero le tre e mezzo all’alba, le sette e un quarto di mattina o le tre del pomeriggio, sempre uguale compariva al caffè, esaltato, sporco, con lo sguardo infervorato.

– Trente-trois.

Contava, sommava, sottraeva, pagava. Prezzi fissi. Servizio rapido. Una vecchia e affidabile ditta con anche un certo distacco negli affari. L’uso alternato delle lingue straniere era l’unica confidenza che si permetteva, segnalando che si rivolgeva a parenti spirituali, facendo prendere atto a noi – e forse anche a se stesso – chi fosse stato un tempo.

Una volta rientravo lentamente a casa, all’alba incipiente. Lo incontrai in una strada deserta di Buda.

– Twenty-two.

Ormai chiedeva solo ventidue centesimi. Probabilmente tenendo conto di un buon tenore di vita aveva abbassato la tassa dei sudditi. Erano quelli tempi meravigliosi. Gli chiesi cortesemente di spiegarmi quale politica finanziaria seguisse attualmente, ma anche quella volta non si mostrò desideroso di spiegare più dettagliatamente. Alla fine, d’improvviso gli chiesi:

– Lei è uno scrittore?

Mi fissò senza parlare. Poi con voce roca, dal profondo della gola, che fino a ora aveva mormorato solo numeri, le corde vocali arrugginite per l’alcol e per il fumo di sigaretta.

– Sì, lo sono – disse, e dopo aver riflettuto aggiunse: – lo sono stato.

Per un po’ ho messo da parte le sue spettanze, ma ormai sono anni che non si fa più vivo. Quale anno di guerra, quale mese di rivoluzione, quale spagnola lo ha fatto fuori? Se non vive, ha vinto. Non terrebbe il ritmo. Infatti, oggi nemmeno i nababbi sono così cavalieri. Certo, questo mondo non fa per lui.

3 dicembre 1922



Il pranzo

A mezzogiorno, all’uscita del traforo a Buda un uomo pranza.

Non ha il pranzo in mano, né sulle ginocchia, né nel piatto, ma sul marciapiede, sulla nuda terra. Qualcuno che lo aveva nel portapranzo deve averlo rovesciato e abbandonato. L’uomo uscito dal traforo, invece, aveva visto all’improvviso il pranzo senza proprietario che, pensò, doveva essere stato depositato da una fata caritatevole. Si era chinato, aveva tirato fuori il coltellino e con la lama portava alla bocca un pezzettino alla volta.

Crema di farina e cavoli con un pezzetto di vitello e spaghettini con ricotta. Purtroppo non c’era il pane. Ma il pranzo era caduto così fortunosamente, che le due portate si erano mescolate solo un poco, formavano come due mucchietti separati e non si erano per nulla infangate sulla strada, che fungeva da tavolo non apparecchiato, a far da piatto naturale ci pensava lo strato inferiore del cavolo. Non era ripugnante, strano piuttosto, infinitamente strano. Sui lunghi filamenti di cavolo riluceva il grasso, la carne di vitello solleticava l’olfatto, gli spaghettini con ricotta fumavano ancora. Era chiaro che molti dei passanti ne erano attratti, mancava però in loro il coraggio e la sincerità di seguire l’istinto, di accovacciarsi e abbuffarsi.

I passanti si fermarono. Avevano fame e li aspettava a casa la minestra fumante, ma guardavano la scena stupiti. Nulla è più meraviglioso che contemplare un uomo che mangia. Mentre muove la bocca, la mandibola, le ossa della fronte, mentre mastica e gli scorre la saliva in bocca anche noi diventiamo parte della gioia quotidiana e sempre interessante del pasto, e nell’animo ne siamo sazi. L’uomo non aveva fretta. Con il coltellino sollevava lentamente mucchietti di cibo, li portava con prudenza verso la luce, li esaminava, nel caso fossero sporchi, e celando ogni cupidigia, li consumava con altrettanta lentezza e prudenza. Quando per terra era rimasto solo uno strato sporco di cavoli, si alzò, pulì il coltellino con un fazzoletto e si avviò attraverso il traforo verso il ponte.

Gli osservatori non si dispersero immediatamente. Guardavano meravigliati il luogo del pranzo raffreddato, la macchia umida. Un signore lo rimestò con il suo bastone, ma disse che ormai era incommestibile. Poi presero a discutere sulle ragioni che avevano potuto condurre l’uomo ad agire così. Poiché nessuno di loro gli aveva parlato, si formarono diverse teorie e punti di vista. Ma l’opinione generale fu che il pranzo doveva essere stato ottimo, in particolare il cavolo, quel cavolo che riluceva per il grasso e che non smettevano di lodare. Alcuni all’atto di andar via sbirciarono indietro. Sorridevano, scuotevano il capo, come desiderassero il pranzo, erano un po’ invidiosi di chi lo aveva consumato e un po’, ma solo un poco, erano anche offesi che non gliene avesse offerto.

Certo, alcune persone non hanno proprio alcuna idea del galateo.

4 aprile 1926



Pupazzo di neve

La mattina, uscito in strada, c’è un pupazzo di neve sul ciglio del marciapiede. Ieri non c’era. È nato questa notte, quando il gonfio piumino d’oca delle nuvole è scoppiato e tutto è diventato bianco.

Mi guarda fissamente con la sua faccia goffa, ha in testa un berretto storto fatto con la busta di carta, stringe i suoi piccoli occhi neri: due pezzi di carbone. Ha anche i baffi, neri, fatti col carbone. Dalla bocca pende approssimata una pipa, un legnetto da ardere. Accanto, il suo cane di neve. Un cane bianco, con gli occhi neri e il naso nero.

Il pupazzo di neve porta un saluto da lontano, dagli atavici tempi dell’infanzia, da quelle mattine innevate, in cui mi destavo all’improvviso e con stupore innocente e paura in fondo all’animo mi accorgevo di quell’idolo, fuori, bizzarro e gioviale. Chi ha dato alla luce l’uomo? Mistero. E chi ha dato alla luce il pupazzo di neve? Mistero ancora più grande.

Guardo il pupazzo di neve, che probabilmente è stato impastato dai vicini, giovani carbonai, con la neve appiccicosa, per divertimento e tra grandi risate, imprimendovi tutta la sfrenatezza pagana, l’irriverenza giocosa della gioventù. Si vede però che deve la sua vita al buon umore e non a un ordine o alla costrizione. Autentico capolavoro. Avrei voglia di mettermici davanti e spiegare a un nutrito manipolo di ascoltatori l’istinto e l’ispirazione che raccoglie. Con una bacchetta in mano ne mostrerei le proporzioni, come è uso nelle lezioni di storia dell’arte, l’enorme addome, le spalle rotonde, il torace tisico, il nasino all’insù, gli occhi storti, poi l’idea precisa dell’artista e la sua realizzazione coraggiosamente arrabattata, che fa l’effetto della scultura africana, anzi è maestosa come il Buddha dei giapponesi. Temo però che la mia lezione durerebbe fino a primavera, sbucherebbe il sole e il capolavoro spiegato si scioglierebbe.

E quanto disinteressato l’artista che non nel marmo di Carrara o nella pietra plasma le sue creazioni, bensì nella neve! A chi assomiglia? Solo al poeta che scrive nella sabbia, al pittore che disegna sulla mano, al predicatore che grida nel deserto, all’attore che recita soltanto per sé nella sua stanza.

Torno a casa la sera, al tramonto. Nella semioscurità mi accosto a tentoni al pupazzo di neve, ma ne trovo soltanto l’irriconoscibile cadavere. Giace a terra come la vittima di un terribile omicidio. I due occhi, i due pezzi di carbone sono stati rubati, perché oggigiorno se non stiamo attenti ci tolgono anche gli occhi per piangere, gli hanno portato via anche i baffi di carbone, la busta di carta sulla testa e il legnetto da pipa, evidentemente qualcuno ne aveva bisogno per accendere nella fredda notte un focherello su cui cuocere una magra minestra. Il suo cane, senza occhi, giace morto accanto lui.

Viviamo tempi difficili. Ho letto una statistica in cui si dice che l’aumento dei decessi è in relazione con la diffusa povertà, e che la vita dell’uomo si è accorciata. Anche quella del pupazzo di neve. Nei tempi antichi questi nostri lontani parenti vivevano fino alla fine il loro tempo, almeno fino a marzo, e morivano decrepiti, con gli occhi liquefatti, sudati, per un colpo di sole il primo giorno di caldo. Oggi la fervente miseria li fa fuori già da neonati, li dissolve completamente. A quanto pare, nel 1935 non vale la pena di nascere nemmeno come pupazzo di neve.

13 febbraio 1935



Sulla morte della mia stilografica

La comprai un giorno di agosto, ancora in tempo di pace, esattamente trentuno anni fa.

Ricordo, portavo allora un vestito estivo bianco, una cravatta color ruggine e mentre andavo a casa al tramonto, la mia ombra indistinta fluttuava sull’asfalto dinanzi a me nel vapore violaceo. Nella mia tasca stava la nuova stilografica, nella scatola di cartone, avvolta nell’ovatta come un neonato in culla.

Appena arrivato a casa, la scartai, la adagiai bene tra il pollice e l’indice della mano destra, sul callo, unica decorazione, memento e difetto corporeo della mia professione. Facemmo conoscenza. Tracciavo linee, scarabocchiai più volte di seguito il mio nome, quelle tredici lettere, il cui numero sfortunato mi ha caratterizzato, di fronte a me stesso e agli altri, e mi ha portato fortuna dalla nascita. Fu come una semplice presentazione. La penna stilografica prese atto del mio nome e disegnò docile il simbolo della mia persona, con lettere sottili e al tempo stesso raffinate. Mi abituavo alla penna e la penna si abituava a me. Erano momenti felici. Fu allora che stringemmo amicizia.

Presto dovetti ammettere che nessuna fabbrica aveva mai fabbricato una stilografica così in armonia con il mio carattere, con il ritmo del mio cuore, con il mio respiro. Nel cassetto tenevo sempre una buona dozzina di stilografiche, nel timore che se mi fossi stancato con l’una potessi prenderne un’altra e, come con una coppia di cavalli riposati, giungere a destinazione. Ma delle altre oramai non mi occupavo più. Usavo sempre lei. Con lei ho scritto cinque romanzi, centinaia di poesie, racconti, articoli e migliaia di lettere, e sempre lei prendevo in mano quando un premuroso lettore mi chiedeva un autografo o quando il meno premuroso postino portava una lettera di ingiunzione. Eravamo talmente uno, che non sapevamo più chi lavorasse, se lei o io.

Una notte d’inverno – sarà stato dieci anni fa – mi accorsi che il lavoro non andava. Mi alzai, passeggiai avanti e indietro davanti alla scrivania, misurai il polso, la temperatura, credevo di avere la febbre. Scoprii che il malato non ero io, ma la stilografica. Deragliava, si impuntava nel foglio, agitata come non mai. Il giorno dopo la portai da uno specialista. La pose sul tavolo dinanzi a sé, agli intensi raggi di una lampada elettrica, poi, con l’audacia con cui i chirurgi senza esitazione aprono il nostro corpo, ne smontò l’apparato circolatorio, svitò la pompetta di gomma, che come un cuore pompa l’inchiostro in tutto il suo organismo, aggiustò ancora qualcosa qui e là e con un sorriso me la porse. Mi tranquillizzò, tutto a posto. In seguito, dovette sostituire ancora un paio di volte il pennino, poiché l’iridio si era logorato. Si raccomandò molto che da quel momento in poi la risparmiassi un poco, la tenessi da conto e, visto che la povera non riposa quasi mai, di sciacquarla una volta a settimana con acqua tiepida.

– È uno strumento eccellente – mi rassicurò – seppellirà la più vecchia delle stilografiche.

La malattia seria è cominciata quest’anno. Un giorno improvvisamente ha cominciato a lacrimare. Stavo giusto scrivendo una storia allegra, ma la stilografica, come i vecchi divenuti invalidi precocemente e che piangono senza alcuna ragione, disprezzando il mio umore, lasciò cadere una grossa lacrima sul foglio, poi ancora un’altra. A quel punto mi spaventai. Un indebolimento dovuto alla vecchiaia? Per qualche settimana sperai fosse così. Non molto tempo dopo, mentre scrivevo una poesia la udii emettere una serie di sospetti e subdoli rumori, scricchiolare, sospirare e tossire dal profondo dei polmoni catarrosi.

Salii immediatamente in macchina e filai dallo specialista. Mi accolse ossequioso in camice bianco. La esaminò con la lente di ingrandimento, a lungo, in silenzio. Nel frattempo tentavo di spiegargli che evidentemente si trattava di una cosa insignificante, catarro o raffreddore. La custodia era infatti ancora intatta, poco consumata e anche il cappuccio era appena scheggiato, e solo su un lato. Lui però taceva. E nemmeno sorrideva. Mi guardò come ai parenti preoccupati guarda il primario che a un novantenne ha diagnosticato arteriosclerosi, scompenso delle valvole cardiache e polmonite doppia. Mi chiese con tristezza e compassione, ma anche con certa severità, non senza ironia maliziosa e petulante, quando l’avessi acquistata.

– Ah, certo – scosse il capo –, certo. Prego –. E me la restituì.

Ci lavorai ancora tre giorni. A un certo punto, mentre la incitavo a un lungo trattato, emise un rantolo e cominciò a vomitare davanti ai miei occhi sangue d’inchiostro verde, lo vomitò tutto, fece ancora un clic e fu la fine. La guardai concitato. Era una macchina, ma era anche un’anima sensibile, era un’operaia dell’intelletto. Le ho reso gli ultimi onori, l’ho avvolta nel mio manoscritto, come in un sudario, l’ho riposta nella scatola di cartone in cui a suo tempo l’avevo portata a casa e ho ordinato alla cameriera che il mattino dopo la consegnasse con garbo al netturbino.

Ora non c’è più.

Ma ogni volta che scrivo penso a lei. Sono rispuntate le penne di scorta, che da tempo giacevano inoperose e che d’ora in poi mi serviranno per lavori più lunghi. Anche queste si adattano alle mie dita, si adoperano per compiere il loro dovere. Arano alacremente la carta. Talvolta, in rari e fortunati momenti, voliamo insieme in estasi. Eppure, non c’è giorno in cui non mi torni in mente la vecchia stilografica: deposta nella sua scatola che le fa da bara, giace da qualche parte nella discarica. In questi attimi le penne che le sono subentrate si arrestano improvvisamente nel mezzo della frase. Stazionano, come i treni che commemorano un celebre defunto e nell’anniversario della sua morte in tutto il paese si fermano tutti allo stesso minuto, non importa dove si trovino: nei pressi di un casolare sonnolento, vicino a un bosco o a un porcile, fra i muri delle metropoli assordanti, per ricordarci con il loro silenzio e la loro immobilità la persona scomparsa.

Sarà così per un po’ di tempo. Più tardi certamente dimenticherò anche lei, come tante altre cose a questo mondo.

13 ottobre 1935



Il pranzo più lungo del mondo

Il ragazzo, che pedalava dietro la carrozza del tram, non si sa come, ha perso l’equilibrio, si è capovolto e il tram ha trascinato lui e la bicicletta per un tratto di strada. Per fortuna, a parte il grande spavento, non è successo niente di grave. O meglio: si sono rotte le stoviglie in cui portava da mangiare a qualcuno. Il pranzo, schizzato fra le due rotaie, sgocciolando si è sparso lungo la strada. Giunti rapidamente sul luogo per esaminare l’incidente, gli uomini della scientifica hanno notato una lunga e sottile striscia rossa, la traccia della zuppa di pomodoro, poi una linea verde ancora più lunga, la traccia della crema di spinaci, infine una striscia gialla intermittente, la traccia punteggiata del kaiserschmarrn. Gli inquirenti vi si orientano come su una mappa militare rosso–verde–gialla. Quel che poco fa era ancora un fenomeno temporale, si trasformava ora in spazialità. Il pranzo è stato misurato. Era lungo trentaquattro metri e mezzo circa. I membri della commissione, loro che avevano fatto tanti lunghi pranzi, stabilirono con stupore che non avevano mai visto un pranzo così lungo.

1937


  1. Su Kosztolányi giornalista vd. A. Lengyel: ‘Kosztolányi-dubiózák [Kosztolányi anonimo]’, Forrás 11, 2006: 91–113; F. Kiss: Kosztolányi, az újságíró [Kosztolányi giornalista], Irodalomtudomány Közlemények 4, 1974: 436–453 (interessa più l’etica dell’opinionista, che non il prosatore); L. Németh: ‘Egy elbeszélés–gyűjtemény elé [Premessa a una raccolta di novelle]’ in: L. Németh: Megmentett gondolatok [Pensieri salvati], Budapest: Szépirodalmi Könyvkiadó 1975, 483–501 (consultato in forma elettronica: https://mek.oszk.hu/01000/01013/01013.pdf p. 81). Su giornalismo e letteratura nei primi decenni del XX secolo, con ampi riferimenti a Kosztolányi vd. L. Bengi: ‘Az irodalom színterei [Gli spazi della letteratura]’, Irodalom és sajtó összefüggésrendszere a 20. század első évtizedeiben [Interrelazioni e sistema tra letteratura e stampa nei primi decenni del XX secolo], Budapest: Ráció Kiadó, 2016.↩︎

  2. Zs. Arany (ed.): Kosztolányi Dezső napilapokban és folyóiratokban megjelent írásainak jegyzéke. A Hét, Nyugat, Pesti Hírlap, A Pesti Hírlap Vasárnapja, Új Idők [Catalogo degli scritti di Dezső Kosztolányi pubblicati nei giornali e nelle riviste], Budapest: Ráció Kiadó, 2008. Un primo catalogo del lascito, oggi in parte superato quello a cura di Gy. Sáfrán: Kosztolányi Dezső hagyatéka. Kosztolányi Dezsőné Harmos Ilona hagyatéka. Hitel Dénes gyűjteménye (Ms 4612 – Ms 4649) [Lascito Dezső Kosztolányi. Lascito Ilona Harmos in Dezső Kosztolányi. Collezione Dénes Hitel. Ms 4612 – Ms 4649], Budapest: MTAK, 1978.↩︎

  3. Aranysárkány [L’aquilone dorato] venne pubblicato tra il 1924 e il 1925 (il titolo era Arany-sárkány) nelle prime pagine del Pesti Hírlap (sul taglio basso della prima, seconda e terza pagina, in genere), gli altri romanzi nella Nyugat. Vd. Zs. Arany: ‘Kosztolányi Dezső írásai a Pesti Hírlapban [Scritti di Dezső Kosztolányi nel Pesti Hírlap]’, Nyelv- és Irodalomtudományi közlemények 1–2, 2007: 77–92, p. 78.↩︎

  4. Vd. Zs. Arany: Kosztolányi Dezső…, op.cit.: 82–83.↩︎

  5. D. Kosztolányi: Káté az írásról [Catechismo della scrittura], pubblicato nel Pesti Hírlap, numero del 14 ottobre 1928, ripubblicato in D. Kosztolányi D.: Nyelv és lélek [Lingua e spirito], a cura di Pál Réz, Budapest: Szépirodalmi Könyvkiadó, 1971: 455–457, da cui cito.↩︎

  6. D. Kosztolányi: Cinéma muet avec battements de cœur, Traduit du hongrois pas Maurice Regnaut en collaboration avec Péter Ádám, Paris: Éditions Cambourakis, 2013.↩︎

  7. Elenco qui il luogo della prima pubblicazione (sulla base di Zs. Arany (ed.): Kosztolányi Dezső napilapokban és folyóiratokban…, op.cit.: 1028, 2150, 2153, 2194, 2565) e l’edizione che ho utilizzato. Il pranzo in: A Pesti Hírlap Vasárnapja, 4 aprile 1926; Pupazzo di neve in: Pesti Hírlap, 13 febbraio 1935; Sulla morte della mia stilografica in: Pesti Hírlap, 13 ottobre 1935; Un mendicante rigoroso in: Pesti Hírlap, 3 dicembre 1922, per tutti l’edizione utilizzata è la seguente: Kosztolányi Dezső hátrahagyott művei [Opera postuma di Dezső Kosztolányi], vol. VI, a cura di Gy. Illyés: Ember és világ [Uomo e mondo], Budapest: Nyugat Kiadó, [1942]: 37–40 (Un mendicante rigoroso); 130–131 (Il pranzo); 273–275 (Pupazzo di neve); 288–291 (Sulla morte della mia stilografica). Il pranzo più lungo del mondo in: Pesti Hírlap, 3 marzo 1935, edizione utilizzata: D. Kosztolányi: Próza [Prosa], Budapest: Révai, 1937: 113.↩︎