Verbum – Analecta Neolatina XXIII, 2022/1

ISSN 1588-4309; ©2022 PPKE BTK



1 Introduzione

Il romanzo non è solo frutto della creatività e dell’autoespressione artistica dello scrittore, ma è anche un prodotto, un articolo di consumo, lo specchio di una società e, secondo Robert Escarpit, che esamina il rapporto fra letteratura e società nella sua monografia Sociologie de la lettérature (1968), esso è sostanzialmente un mezzo dello scambio culturale il cui obiettivo è rendere possibile il moltiplicarsi della voce.1

In tale prospettiva, nel processo di nascita dei romanzi, il pubblico è un fattore fondamentale. L’autore, infatti, specie quello di professione, per vendere il suo libro deve tenere presente e mettersi in sintonia con le esigenze e i desideri dei suoi lettori. Al riguardo, Escarpit constata che, durante il processo di stesura, un certo tipo di pubblico è sempre presente nella coscienza degli autori perché ogni cosa, ogni pensiero può essere trasmesso a patto che venga destinato a qualcuno. In questo caso si tratta del cosiddetto pubblico-partner, cioè l’insieme dei lettori immaginati e dunque esistenti nella mente dello scrittore che non necessariamente corrispondono al pubblico vero e proprio.2 Secondo il sociologo francese, il potere del pubblico è molto ampio e non si limita alle tematiche o ai messaggi, ma si estende anche al linguaggio ed ai generi letterari che spesso derivano da esigenze nuove di uno specifico gruppo della società.3

La funzione di mediazione tra autore e pubblico viene svolta dall’editore che, come imprenditore, non pubblicherà mai un’opera senza la prospettiva di un guadagno. Escarpit sottolinea, infatti, che l’editore promuove e sincronizza la produzione alla domanda del pubblico. Questo processo comprende sostanzialmente tre tipi di attività: scegliere, produrre e trasmettere. La premessa della selezione è il riconoscimento delle caratteristiche del pubblico cui si fa riferimento e su questa base l’editore sceglie le opere più adatte al gusto dei lettori tra i numerosi scritti disponibili.4

Secondo Escarpit il bestseller è un’opera capace di esprimere le aspettative della società e in cui essa può riconoscersi. Al riguardo, il sociologo francese cita Victor Hugo come caso emblematico dei due fattori di successo di uno scrittore: uno dipende da quanto egli sia capace di diventare l’eco del pubblico e lʼaltro dalla quantità dei suoi lettori.5 Il bestseller è infatti un’opera che viene scelta e comprata da grandi masse di lettori. Che vuol dire questo? Che i bestseller hanno qualche elemento o svolgono qualche funzione che li rende piacevoli a una notevole quantità di persone. Poi un libro di successo diventerà tema di conversazioni informali, gli autori rilasceranno interviste ecc., quindi il messaggio e la trama del bestseller verranno più o meno conosciuti anche da quelli che non lo avranno letto.6 Così il libro di successo, soprattutto a seguito degli adattamenti, avrà delle funzioni nuove, anzi, una sorta di potere; basti pensare all’uso politico de Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood.

Sulla base di queste premesse, l’obiettivo del mio articolo è di presentare alcune funzioni sociali della narrativa di Guido Da Verona, lo scrittore più popolare degli anni Venti in Italia. Dapprima, quasi per rispondere a una istanza teorica, elenco, avvalendomi delle constatazioni di Escarpit, le possibili motivazioni di lettura da parte del pubblico, e poi proseguo con la presentazione delle funzioni del libro nel contesto sociale proposte da Leo Lowenthal. Continuo quindi l’articolo con una breve esposizione della biografia di Guido Da Verona e con le caratteristiche principali della sua narrativa. Infine propongo un’analisi complessiva delle funzioni sociali dell’opera omnia di questo scrittore.

Da Verona fu portavoce della piccola borghesia, ovvero della loro concezione della cultura e del loro ordine di valori. I suoi romanzi ebbero un effetto terapeutico nella fase in cui si cercava di guarire dai traumi della Prima guerra mondiale e furono anche considerati pericolosi: l’élite ecclesiastica temeva, infatti, che i messaggi daveroniani influenzassero negativamente la mentalità provocando una crisi morale in Italia.

2 Le funzioni della letteratura – le teorie di Robert Escarpit e Leo Lowenthal

Escarpit, nel citato studio Sociologie de la lettérature, parla anche delle motivazioni della lettura, mentre Lowenthal usa la parola “funzione” e ha un approccio diverso.7 Escarpit distingue i libri che acquistiamo finalizzati alla lettura da quelli che non hanno questo scopo: a quest’ultima categoria appartengono le opere “obbligatorie in una biblioteca”, simboli di status sociale, di erudizione e di buon gusto. Poi, ci sono i libri rari che vengono considerati come investimenti, opere che vengono acquistate per abitudine (p.es. la collezione di certe collane) ovvero che si comprano per dimostrare lʼimpegno di una sua persona o la sua capacità di fare un affare. Infine, il libro può essere considerato anche un bell’oggetto, una sorta di decorazione. Per quanto riguarda il consumo delle letture, a parere del sociologo, esistono due categorie principali: il consumo letterario e quello funzionale. Le motivazioni funzionali sono le seguenti:

  1. Studio, raccolta di dati (è la caratteristica dell’uso delle letterature specifiche).

  2. Uso terapeutico (che in Escarpit è una categoria molto ampia). Letture ad uso terapeutico sono quelle che servono per la “cinesiterapia” intellettuale e rappresentano una sorta di esercizio per la mente, come i gialli. Rientra nella stessa categoria anche la lettura finalizzata ad addormentarsi o a distrarsi. La lettura – facendo un effetto diretto sul sistema nervoso – può svolgere le funzioni di narcotico, come accade spesso nel caso di opere di genere horror, comiche o erotiche.

  3. Letture legate alla conoscenza delle tesi di un movimento o ad uso autodidattico. In questo caso il libro può essere un mezzo di lotta o di formazione e la funzione letteraria non è esclusa, ma secondaria.

Le motivazioni letterarie, e non funzionali, sono quelle che considerano l’opera letteraria un oggetto fine a sé stesso. Per Escarpit la lettura è una fuga dall’assurdità dell’esistenza umana: è probabile che se il popolo fosse felice, non avrebbe storia, ma è sicuro che non avrebbe letteratura, perché non avrebbe bisogno di leggere. Lo studioso aggiunge, inoltre, che l’esame delle letture proprie dei periodi di crisi sarebbe una ricerca molto utile. Per esempio, il Don Camillo ebbe un grande successo in luoghi politicamente molto divisi, perché la storia dell’amicizia stretta tra il comunista e il parrocco aiutava i lettori a liberarsi dagli effetti dannosi della divisone.8

Leo Lowenthal distingue tre funzioni sociali della letteratura:

  1. rifugio per gruppi frustrati o per le frustrazioni delle masse;

  2. strumento ideologico, come mezzo di esaltazione di uno specifico sistema di potere o come mezzo rispondente a obiettivi educativi;

  3. oggetto di riflessione sulle proprie condizioni (p.e. su una condizione di solitudine individuale), su emozioni collettive (come sicurezza, ottimismo, disperazione ecc.), sulla questione dell’ordine dei valori, oggetto di autoriflessione.

A ben guardare, nonostante la differenza dei punti di vista e nell’uso di alcune categorie e di alcuni termini, le teorie di Escarpit e Lowenthal si collegano e si completano reciprocamente. La funzione di rifugio di Lowenthal è parallela alla categoria della motivazione terapeutica e a quella letteraria proposte da Escarpit, e il libro come strumento ideologico è collegabile alle letture legate ad un movimento, perché un sistema di dominazione non deve essere attualmente dominante per voler o poter trasmettere unʼideologia. L’uso del termine è diverso, perché Lowenthal parla esclusivamente di funzioni comuni, mentre Escarpit, in prima istanza, si riferisce a motivazioni individuali, ma, in realtà, anchʼesse sono legate ad una comunità. Come abbiamo già visto, un’opera letteraria viene pubblicata a patto che si adatti alle esigenze del pubblico. Perciò il termine “motivazione di lettura” escarpitiana è definibile come funzione della lettura nella vita privata di un certo gruppo sociale.

3 Guido Da Verona

Guido Abramo Verona9 nacque a Saliceto Panaro (Modena) nel 1881 in una famiglia ebraica benestante. Nonostante la predilezione per la letteratura e la carriera militare che lo portò a trascurare gli studi, riuscì comunque a laurearsi in Giurisprudenza a Genova. Dopo qualche prova di poesia in cui ottenne un discreto successo, si dedicò esclusivamente alla narrativa e cominciò a scrivere romanzi erotici sul modello di Gabriele D’Annunzio. Partecipò alla Prima guerra mondiale, ma già nel 1915 venne riformato per problemi di salute. Il suo primo grande successo fu il Mimì Bluette, fiore del mio giardino uscito nel 1916 che fu venduto in 300.000 copie. L’80% delle prime tirature fu letto dai soldati nelle trincee.10 Nel 1920, dopo l’uscita del romanzo fortemente anticlericale e blasfemo Sciogli la treccia, Maria Maddalena, l’opera omnia venne messa all’indice della Chiesa Cattolica, ma questo gli risultò come una forma di pubblicità. Negli anni Venti superò tutti i record delle vendite dei libri. Al suo successo contribuirono anche i suoi scandali, la sua attività nei movimenti fascisti e l’immagine che si era creato con molta consapevolezza. Fu collaboratore de Il Popolo d’Italia e nel 1924 si iscrisse al Partito Nazionale Fascista. Poi organizzò gare automobilistiche per artisti, ebbe duelli con i suoi critici, comprò un castello per donare una casa degna al suo cavallo amato e così via. Nel 1930 pubblicò I promessi sposi, parodia del grande classico di Alessandro Manzoni, che gli causò uno scandalo fatale. Il romanzo, in breve tempo, fu proibito e anche le conseguenze del caso furono gravi: Da Verona perse il sostegno di Mussolini e negli ultimi anni della sua vita trovò con molta difficoltà un editore per i suoi nuovi libri. Causa di emarginazione non fu solamente il manifestato disprezzo nei confronti di un classico nazionale: l’antisemitismo crescente e l’avvicinamento da parte del regime allo Stato alla Chiesa fecero sì che lo scrittore, ebreo e anticattolico, diventasse persona non gradita al regime (nonostante fosse un fascista convinto).11 Nel 1939, dopo l’approvazione delle prime leggi razziali, si suicidò nel suo castello a Intimiano, nei pressi di Como.

Da Verona era conosciuto anche in Ungheria. Tra le due guerre uscirono 12 romanzi daveroniani; un suo romanzo d’appendice apparve anche sulle colonne del quotidiano Pesti Napló. Negli anni Venti, con 10 opere, era l’autore italiano più tradotto nel Paese, secondo solo a Gabriele D’Annunzio12 e anche in Ungheria, come in Italia, suscitò divisioni di giudizio: fu amato dal pubblico e fortemente criticato dai professionisti. Con l’eccezione de I promessi sposi, il pubblico ungherese conobbe tutti i romanzi daveroniani più importanti: oltre a Mimì Bluette e a Sciogli la treccia, Maria Maddalena, anche Colei che non si deve amare, Colei che inventò l’amore, La mia vita in un raggio di sole, La vita incomincia domani ecc. Nella stampa ungherese si trovano numerose recensioni, interviste e notizie sulla sua attività pubblica e sui suoi scandali.13

Il nucleo della trama del romanzo daveroniano è sempre una relazione illegittima spesso fortemente provocante (p.es. incesto, amore per la cognata o per lʼamante del padre ecc.) con l’aggiunta di altri elementi scandalosi (p.es. la figura di una schiava sessuale minorenne, un monologo del narratore contro la monogamia e l’istituto del matrimonio ecc.) e in quasi tutte le sue opere c’è qualche elemento tragico, spesso un suicidio o omicidio alla fine del romanzo. Sono molto frequenti anche i motivi del viaggio e della musica (p.es. una canzone che funziona anche come una immaginaria colonna sonora). Lo stile daveroniano è molto raffinato, caratterizzato da un uso cospicuo dellʼaggettivo e da descrizioni ricche e prolisse anche nel caso degli episodi meno rilevanti.

Da Verona fu considerato il democratizzatore di Gabriele D’Annunzio (ovvero cinicamente “il D’Annunzio delle fantesche”): oltre alle tematiche erotiche, dal Vate riprende anche il superomismo e l’eroismo. I protagonisti, nella maggior parte dei casi, sono superuomini e le eroine femmes fatales (o almeno a prima vista, senza un’analisi approfondita, questa è la loro parvenza). Anche i romanzi daveroniani si svolgono negli ambienti della vita dell’élite e i protagonisti vi appartengono o vi hanno qualche stretto legame, p.es. sono prostitute di lusso.

4 Le funzioni della narrativa daveroniana negli anni Venti

In questo paragrafo presento le funzioni sociali della narrativa daveroniana. Lo scrittore fu il portavoce della piccola borghesia nel senso che interpretava la concezione di cultura di questo strato sociale e la perdita di valori che aveva avuto luogo nel primo dopoguerra. Il mio ragionamento, per il primo aspetto, si basa sul romanzo Cléo. Robes et manteaux, mentre per il secondo esamino innanzitutto l’Inferno degli uomini vivi. Poi abbozzo una ipotesi sui possibili effetti terapeutici dei suoi romanzi negli anni Venti. Le letture hanno il potere d’influenzare l’opinione pubblica e il modo di pensare delle masse, perciò certe volte possono essere considerate anche come pericolo e questo fu il motivo, nel 1920, della censura ecclesiastica dell’opera omnia daverioniana di cui parlo nell’ultimo paragrafo.

4.1 Portavoce

4.1.1 Narrativa come portavoce di cultura

Da Verona diede voce alla concezione della cultura della piccola borghesia italiana del primo dopoguerra. Al fine di definire questa tematica più a fondo, è necessario partire da una breve presentazione del romanzo Cléo. Robes et manteaux che racconta la relazione di Franco, conte annoiato e di Cléo, divorziata imprenditrice in ambito sartoriale. Dopo un’avventura di una notte, il conte cerca disperatamente Cléo e avendola ritrovata passano l’intero tempo a fare l’amore. Sono entrambi contro l’istituto del matrimonio, ma per puro calcolo, decidono comunque di sposarsi e, secondo i loro piani, Franco sarebbe diventato assistente nella sartoria che Cléo avrebbe aperto di lì a poco. La fine del romanzo è aperta: l’uomo è assonnato, perché la fidanzata si agita tutta la notte mentre dorme. Per questo motivo Franco è molto scontroso, la donna si sente offesa e probabilmente non si sposeranno. Nel 1926, quando esce il libro, l’autore era in cima alla carriera e una vera e propria star, amato da migliaia di lettori e odiato dalla maggior parte dei critici; Cléo era stato per lui “un esercizio per le dita”, un prodotto per divertire il pubblico entusiasta che comunque quellʼanno ebbe da lui anche due opere serie, la Mata Hari. La danza davanti alla ghigliottina (dopo che era stata pubblicata a puntate nel quotidiano “Il Corriere Italiano” nel 1924) e l’Inferno degli uomini vivi.

Nel romanzo l’erudizione classica è una questione principale. Da Verona aveva già disprezzato la cultura alta in altre sue opere precedenti, considerando per esempio la Bibbia “orrenda enciclopedia semitica, romanzo indiano”, Parini e Manzoni “autori necessari ad istruire gli alunni delle classi ginnasiali”14 o Dante “bilioso assessore municipale, mal stipendiato, mal nutrito, male ricompensato dal bel sesso”.15 Questa volta invece c’è più provocazione. Nel romanzo Cléo, Da Verona porta alla luce il preteso parere della piccola borghesia e delle masse sull’High Brow. Il narratore di prima persona, Franco, si lamenta delle regole della sintassi che servono solo per mettere in imbarazzo il parlante e già nella prima pagina del romanzo dichiara che le scoperte di Einstein non sono una grande novità: Franco credeva nella relatività delle cose umane anche quando non conosceva ancora il nome dello scienziato. È disposto, poi, a vedere due volte La lucciola, dramma psicologico moderno noiosissimo, nella speranza d’incontrare Cléo a teatro, e quest’è un vero e proprio sacrificio. Nella loro prima conversazione a quattr’occhi Cléo e Franco parlano anche di cultura. Entrambi pensano che Tagore non sia interessante per niente: per quanto riguarda gli scritti esotici, preferiscono il romanzo d’avventura La scimitarra di Budda di Emilio Salgari e, se hanno bisogno di filosofia, scelgono i raccontini della scrittrice d’infanzia Anna Vertua Gentile. Il conte ha una tela di Tiziano che gli era costata una grande somma, ma non l’aveva ancora esaminata bene: è probabile che sia il ritratto di un papa o di Santa Cecilia, ma secondo Cléo è l’immagine di un giardino d’inverno. Nell’ultimo capitolo (che è l’unico ad avere un titolo: una citazione improbabile di Manzoni secondo cui lo scrittore ottocentesco non sapeva chi fosse Dante) Franco si lamenta perché il comportamento di Cléo non è l’unico motivo della sua insonnia: ogni tanto gli vengono in mente delle citazioni dalle opere imparate a scuola (di cui si era lamentato già nel capitolo della prima avventura con Cléo: questi pensieri l’avevano disturbato mentre si spogliava per fare l’amore con la bellissima donna). Già che siamo sulla questione dell’istruzione pubblica, sottolineiamo che secondo Franco al posto di musica e di ricamo alle donne dovrebbe essere insegnato come dormire in pace al fianco del marito. Gli viene in mente anche Lord Byron, che morì mentre voleva percorrere a nuoto il Canale di Suez per ottenere l’indipendenza di Bessarabia (in realtà Byron scomparve nella guerra d’indipendenza greca). Secondo Franco il poeta era matto: una persona mentalmente sana non avrebbe mosso un dito per Bessarabia. I veri problemi nella vita sono l’insonnia e i conflitti con la persona amata. Poi cita Gabriello Chiabrera (1552–1638): “Signor Pennino, dimmi”.16 Franco dice di non conoscere la risposta e crede che la poesia in questione assomigli alle pastiglie lunghe che si vendono nelle fiere, e al posto della lirica di Chiabrera preferisce la canzone sulla piccola Titine di Miranda Cantasirena, cantante del suo club. A proposito di Titine gli viene in mente anche un sogno in cui la ragazzina incontra e compatisce Dante Alighieri, che assomiglia a uno spaventapasseri del peggior tipo. Il narratore, quindi, mette in evidenza la tensione tra intellettuali e non-intellettuali. Le persone erudite sembrano snob o addirittura pazze e pare che non conoscano o non riconoscano le cose veramente importanti.

4.1.2 Crisi dei valori

Da Verona contraddiceva gli insegnamenti del cristianesimo anche per l’esaltazione della violenza. Questo tema è centrale nel romanzo già menzionato Inferno degli uomini vivi (1926). Miguel, avventuriero sudamericano che vive con suo figlio adottivo Gérard, si sposa con la giovane Isabella con l’intenzione di stabilire la sua vita in Europa, diventando un contadino ricco. Lei è vedova di un uomo che dal primo letto ebbe una figlia, Ivana, che Isabella porta con sé nella casa di Miguel. Gérard e Ivana sono della stessa età e Isabella ha solo un paio di anni più di loro. La madre adottiva si innamora del figliastro che ha paura di dirle di no, anche se si è innamorato di Ivana, fidanzata di un paesano benestante. La gelosa Ivana informa Miguel del tradimento e lui riesce a sorprendere la coppia a letto. Colpisce la moglie, caccia via il figlio adottivo e va a denunciare sé stesso alla polizia. Gérard e Ivana se ne vanno in Sudamerica e partecipano ad una spedizione in Patagonia per trovare oro. L’unica cosa che collega i membri della piccola comunità è il desiderio di ricchezza. A questo scopo sono disposti a tutti i sacrifici e a mettere in pericolo la propria vita, ma non vengono strette amicizie tra loro, anzi, la tensione aumenta con le sofferenze. Nella Patagonia tutto dipende dalla forza dei partecipanti, che muoiono dal freddo uno dopo l’altro e nessuno ha la capacità di aiutare i deboli. Il tedesco Sigrut viene lasciato morire da solo quando perde la forza per proseguire il cammino: così non ostacola gli altri nella lotta per la sopravvivenza e tutti avrebbero avuto cibo in più. L’unico (probabile) sopravvissuto alla spedizione è l’indiano Winnipeg che ha una vettovaglia segreta. Durante il viaggio viene a galla anche la storia della nascita di Gérard. Sua madre era stata la compagna di Miguel, ma era scappata via con un servo, futuro padre di Gérard. Miguel li aveva cercati e aveva ammazzato il servo infedele, ma aveva portato con sé il bimbo neonato decidendo di trattarlo come un figlio. Tuttavia questo fu l’unico atto altruista nella vita dell’avventuriero e, come si vede dalle conseguenze, fu un errore: il figlio del servo traditore e della compagna infedele seduce la moglie del padre adottivo ed è lui che indirettamente manda il patrigno in carcere. Ivana e Gérard sono i penultimi vivi della spedizione, ma anche loro perdono l’energia necessaria e vengono lasciati da soli a morire di freddo. Mentre stanno aspettando la fine, arriva una carovana che li accoglie, ma non possono riprendersi: il capo, che sfortunatamente è Miguel, appena li riconosce li caccia via dalla sua slitta. Miguel e Winnipeg sono delle personificazioni del concetto del superuomo onnipotente. Miguel uccide prima il rivale, poi la moglie infedele e infine i figli adottivi ingrati, senza problemi di coscienza: essendo il più forte ha il diritto di fare tutto e l’indiano sopravvive alla spedizione grazie al fatto che non è altruista. Lui è il più forte e ingegnoso partecipante della spedizione guidata da lui e da Gérard, ma non è per niente altruista e riesce a salvarsi grazie alla sua spietatezza. La sua autorevolezza è sacrosanta. Ha un cane amato e nel tempo delle inedie tutti i partecipanti lo guardano cupidamente, basta però un’occhiata da parte di Winnipeg e nessuno osa dar voce al desiderio di mangiarlo. Nel gruppo ci sono due donne, Ivana e Antunita che vi arriva con il fidanzato Pablo, il quale sarà uno dei primi a morire. La sera della morte di Pablo, Winnipeg dichiara di volersi sposare con Antunita e vedendo il suo sguardo tutti hanno paura di contraddirlo.

L’argomento della violenza appare anche in altri romanzi, come omicidio (La vita incomincia domani, La canzone di sempre e di mai, La mia vita in un raggio di sole, Colei che inventò l’amore) o come violenza sessuale (Mimì Bluette, La mia vita in un raggio di sole, ecc.). Oltre alla violenza, come ho già detto, nella maggior parte dei romanzi daveroniani c’è qualche elemento da tragedia. Si suicidano per esempio Mimì Bluette, Azyadeh (Ayadeh, la donna pallida), Arrigo (Colei che non si deve amare ecc.), ma a volte la morte è presente anche per via di una malattia o per un incidente (Yvelise, L’amore che torna, ecc.)

Per questi due motivi possiamo considerare i romanzi daveroniani come portavoce dei lettori dopo la prima guerra mondiale, compresi gli intellettuali e probabilmente anche i cattolici praticanti. Dall’opera omnia emergono alcuni messaggi chiari. La felicità è fragile e la tragedia è inevitabile. Il diritto alla vita come principio morale è l’invenzione dei deboli che in realtà non meritano niente: i diritti li hanno i forti che sono destinati a dominare. Perciò l’altruismo è contro natura o addirittura un pericolo per la propria sopravvivenza. L’omicidio, la violenza sessuale ecc. non sono vizi, perché i forti hanno il diritto naturale di fare tutto e i deboli non sono vittime, ma anzi, hanno bisogno della sicurezza che gli viene data dai dominatori. Per capire il mondo delle opere daveroniane dobbiamo tenere presente che negli anni Venti tutti gli europei erano in qualche modo segnati dal trauma. Nel romanzo La canzone di sempre e di mai il narratore diede voce a tutti i sopravvissuti: chi aveva visto gli orrori della guerra non poteva più credere nell’umanità.

4.2 Terapia

Alla luce di queste premesse, si può dunque affermare che uno dei motivi del successo di Da Verona fu che nel campo dei valori lo scrittore rifletteva i traumi del dopoguerra, ma, a mio avviso, i suoi romanzi non si limitavano all’espressione dei sentimenti delle masse di lettori, ma avevano anche un effetto molto benefico. Nella psicoterapia esistono numerose teorie per l’elaborazione del lutto, ma tutti hanno qualche elemento in comune. Nella sua dissertazione János Pilling riassume i modelli di Georg Engel (1964), James Averill (1968), Colin Parkes (1998), Verena Kast (2000), Elisabeth Kübler-Ross (1988), Joseph Martocchio (1985) e Mardi Horowitz (1993). Per i limiti dello spazio dell’articolo non posso presentare tutti i modelli, ma vorrei riassumere le caratteristiche generali. Il lavoro sul lutto comincia con lo shock o con il rifiuto della perdita. Dopo questo passaggio, seguono i periodi in cui le emozioni, come l’ira o la disperazione, hanno una rilevanza centrale. Alla fine, secondo tutti gli esperti, c’è una sorta di accettazione e di rassegnazione.17

A mio parere i romanzi esaminati aiutavano il pubblico a migliorare il benessere mentale e a lavorare sui traumi. Il lettore – grazie alle descrizioni lunghe – poteva immedesimarsi nella vita di lusso in un’epoca quasi idillica; per un paio d’ore, quindi, la sua attenzione era sviata dalle sue preoccupazioni. Come abbiamo già visto, questa funzione è una delle motivazioni della lettura secondo Escarpit e non solo come “motivazione terapeutica”, ma come funzione principale della letteratura in generale. Ma nello stesso tempo Da Verona dirigeva il suo pubblico anche all’accettazione del volto tragico della vita, alle perdite che sono sempre presenti come ombra della felicità. Da Verona parla esplicitamente della guerra mondiale molto raramente (ne sono esempi l’epilogo del Mimì Bluette e alcuni brani del già menzionato La canzone di sempre e di mai), ma se supponiamo che la lettura sia sempre una riflessione su sé stessi, dobbiamo accettare anche il fatto che i lettori contemporanei di Da Verona leggendo questi romanzi scandalosi incoscientemente riflettevano sulle loro perdite. In questo senso i libri aiutavano ad arrivare all’ultima fase dell’elaborazione del lutto. Questo vuol dire che, nonostante gli ambienti dei romanzi daveroniani fossero irraggiungibili per i lettori, da un certo punto di vista quelle opere presentavano la loro realtà psicologica quotidiana.

4.3 La letteratura come pericolo

Infine, dobbiamo far cenno al cosiddetto potere della letteratura. I bestseller influenzano il discorso comune e attraverso le recensioni, le trasposizioni e le conversazioni informali tra parenti o amici vengono conosciuti anche da quelli che non li leggono. Facendo parte nel discorso comune, il libro può influenzare l’ordine di valori e il modo di pensare del pubblico, ed è per questo che alcuni bestseller vengono considerati pericolosi dai poteri costituiti.

Così avvenne anche nel caso di Da Verona. Il romanzo Sciogli la treccia, Maria Maddalena uscì nel marzo 1920 (ma già prima della pubblicazione si registrarono 15.000 prenotazioni!) e l’opera omnia daveroniana venne messa all’indice un mese dopo, il 22 aprile. Il romanzo tratta la relazione tra uno scrittore ricco e una donna bisessuale; i due si incontrano in Spagna e visitano Lourdes, luogo che alla coppia sembra esotico e, d’altro canto, molto simile a Monte Carlo. Se questo non pare abbastanza provocante, i monologhi del narratore rivelano che Giuda tradì Gesù per gelosia: entrambi erano innamorati di Maria Maddalena. Il messaggio del romanzo, inoltre, è che una persona intelligente non può essere altro che atea: la fede esclude la ragione. L’élite ecclesiastica considerò il romanzo un pericolo e i lettori delle vittime che non avrebbero saputo valutare l’effetto dannoso delle opere daveroniane. Matteo Brera, nel suo articolo sul caso Da Verona e l’indice, cita alcune lettere di sacerdoti. Dal punto di vista del nostro argomento ne sono interessanti due. Enrico Rosa SJ, direttore della Civiltà Cattolica scrive questo negli anni Dieci, probabilmente al Segretario dell’Indice:

Ho letto e considerato le pubblicazioni dei pazzi e corrotti futuristi: le ho considerate anche in riscontro a quelle dei morti veristi e dei viventi dannunziani, cioè discepoli dello scostumato d’Annunzio. Sono fenomeni più o meno gravi della stessa corruzione di mente e di cuore. […]

Sono venuto nella determinazione di proporle la mia idea forse strana su l’avvertenza di questa immonda produzione, perché temo che tra la gioventù e anche nelle famiglie stesse cristiane non si prendano troppo sul serio le letture dei libri non proibiti espressamente come raccolgo anche da interrogazioni di giovani, per altro buoni e timorati. Mi perdoni la fretta e il disordine delle idee.18

Proprio a proposito del romanzo Sciogli la treccia, Maria Maddalena, alcune settimane dopo la sua uscita, il 9 aprile, il Cardinale Andrea Carlo Ferrari diede voce alla sua paura al Sant’Uffizio:

Molto più oggi sembrerebbe necessario un segno esplicito di riprovazione di tutti i volumi del Guido da Verona, attesa la larghissima diffusione di queste lordure; basti dire che di un certo romanzo del da Verona in quindici giorni furono vendute quindici mila copie! È uno spavento.

Perciò lo scopo del Sant’Uffizio era la difesa dei valori e delle famiglie italiane da una crisi morale. Comunque, come ho già evidenziato, la censura da parte della Chiesa non ottenne i risultati sperati, anzi, grazie allo scandalo Da Verona diventò ancora più famoso. Per quanto riguarda la proibizione da parte dello Stato, fu messo all’indice nel 1939 e questo fu uno dei primi passi della persecuzione degli ebrei.19

5 Conclusione

Gli esempi qui citati della narrativa di Guido Da Verona confermano a mio parere le tesi di Escarpit e Lowenthal. Lo scrittore fu estremamente consapevole di incontrare lʼinteresse delle masse e – come testimonia il gran numero di copie vendute – riuscì a pubblicare romanzi in cui molti lettori poterono riconoscere sé stessi grazie al fatto che si proponeva come loro portavoce e dava spazio alla narrazione delle loro esperienze e dei loro sogni. Nella terminologia escarpitiana i lettori delle opere di Da Verona avevano una motivazione funzionale terapeutica (sia come terapia in senso stretto, ma non possiamo fare a meno di sottolineare che si tratta di romanzi erotici) e quella letteraria che è sempre una fuga. Per quanto riguarda le funzioni di Lowenthal le opere esaminate più o meno corrispondono a tutte le sue categorie. I romanzi offrivano una possibilità di rifugio e riflettevano sulle condizioni del primo dopoguerra in Italia (e in Europa): Da Verona esprimeva le emozioni collettive e rappresentava alcune questioni sullʼordine dei valori. Infine, se le riflessioni sulla religione e sulla sessualità vengono considerate come ideologia, i suoi romanzi possono essere pensati anche come strumenti ideologici, nel senso della tipologia lowenthaliana sulle funzioni della lettura.

Per concludere, vorrei riferirmi alle ricerche sulla letteratura popolare. I bestseller naturalmente possono essere interpretati con i metodi tradizionali, ma offrono anche la possibilità di essere analizzati secondo nuove prospettive. Queste opere vengono (o vennero scelte) da un ampio pubblico e sono, quindi, gli specchi di un’intera società. La letteratura popolare, perciò, può essere esaminata anche come una fonte per la storiografia o per la sociologia. Le letture lasciano, poi, un segno nella nostra vita, ma quest’effetto a livello sociale è misurabile solo nel caso di opere vendute in massa.


  1. R. Escarpit: Sociologie de la littérature, Parigi: Presses Universitaires de France, 1968. Le pagine riguardano la traduzione ungherese: R. Escarpit: Irodalomszociológia – A könyv forradalma, trad. Árpád Vigh, Budapest: Gondolat, 1973: 17.↩︎

  2. Ibid.: 8485.↩︎

  3. Ibid.: 8889.↩︎

  4. Ibid.: 5456.↩︎

  5. Ibid.: 9495.↩︎

  6. Cfr. Il terzo capitolo di P. Bayard: Comment parler des livres que l’on n’a pas lus? Parigi: Les Éditions de Minuit, 2007.↩︎

  7. L. Lowenthal: Literature, Popular Culture and Society, Englewood Cliffs: Prentice Hall, 1961: 141142.↩︎

  8. R. Escarpit: Sociologie de la littérature, op.cit.: 101104.↩︎

  9. La sintesi biografica fa riferimento ai dati dalla seguente monografia: E. Magrì, Guido Da Verona l’ebreo fascista Cosenza: Pellegrini Editore, 2005.↩︎

  10. V. Wilcox: Morale and the Italian army during the First World War, Cambridge: Cambridge University Press, 2016: 57.↩︎

  11. M. Brera: ‘Un dannunzista tra due ’Indici’. Guido da Verona, il Sant’Uffizio e la censura di regime’, Italian Studies 71/3, 2016: 356–383.↩︎

  12. I. Várady: La letteratura italiana e la sua influenza in Ungheria, 2. Bibliografia, Roma: Istituto per l’Europa Orientale, 1933.↩︎

  13. Cfr. p. es. la recensione di Antal Szerb su ‘La mia vita in un raggio di sole’ nella rivista Napkelet (1927/6), l’articolo di Géza Supka intitolato ‘Guido Da Verona, a modern olasz irodalom Flaubert-je’ [‘G.D.V., il Flaubert della letteratura italiana moderna’] (Literatura 9, 1934/febbraio: 61–62) ovvero la voce di Da Verona dell’Enciclopedia cattolica (ed. P. Béla Bangha SJ: Katolikus lexikon [Enciclopedia cattolica], Budapest: Magyar Kultúra, 1931: 401).↩︎

  14. Cita: E. Magrì: Guido Da Verona l’ebreo fascista, Cosenza: Pellegrini Editore, 2005: 109–110.↩︎

  15. Cita: G. Sergio: Italiani di scrittori. Sondaggi linguistici dal primo Novecento a oggi, Milano: Edizioni Universitarie di Lettere, Economia, Diritto, 2020: 38.↩︎

  16. A mio sapere non esiste una poesia chiabreriana dedicata ad un certo signor Pennino, ma il poeta ha numerose opere in cui invoca “signori”.↩︎

  17. Cfr. J. Pilling: A gyász hatása a testi és lelki állapotra [L’effetto del lutto sulle condizioni fisiche e mentali] (doctoral dissertation), Budapest, SOTE: 2012: 13.↩︎

  18. M. Brera: ‘Un dannunzista tra due ’Indici’. Guido da Verona, il Sant’Uffizio e la censura di regime’. Italian Studies 71/3: 2016: 359–360.↩︎

  19. Ibid.: 366.↩︎