Verbum – Analecta Neolatina XXIII, 2022/2

ISSN 1588-4309; ©2022 PPKE BTK



Recentemente, in occasione del 500° anniversario della morte del cardinal Tamás Bakóc, ha avuto luogo un convegno scientifico nella sua città sede, Esztergom. All’Adalbertinum, anticamente Seminario Maggiore della città, fungeva da sfondo ai relatori un’opera del pittore Ernő Jeges. Quest’opera rappresentava l’entrata di Bakóc nella Città Eterna nel 1512, un evento carico di simbologia e richiamato dalla storiografia ungherese come occasione culminante del Regno d’Ungheria, il cui Primate, avendo impressionato fortemente i romani, avrebbe sfiorato la possibilità, l’anno seguente, di diventare addirittura papa. La pittura di Jeges non è certamente un’opera storiografica e, anche se attinge le informazioni da un racconto, a sua volta ispirato ad una pubblicazione del grande storico Vilmos Fraknói, conserva tuttavia elementi veritieri.1

Nel presente saggio intendiamo fornire una trascrizione e l’analisi comparata, oltre che della relazione di Stazio Gadio (la fonte esaminata a Mantova da Fraknói), anche di quella di Ludovico da Fabriano, un altro testimone oculare che ha scritto la sua relazione per conto della corte estense di Ferrara, che oggi si ritrova presso l’Archivio di Stato di Modena. L’intervento di Ágnes Szabó al detto convegno era incentrato sui vestiti del seguito del cardinale; il presente studio si amplia con una piccola analisi linguistica e, dove questo si rende possibile, con delle note prosopografiche.

Il corteo degli ungheresi al seguito del cardinal Bakóc viene descritto da ambedue i testimoni come esotico, soprattutto per il vestiario, che è diverso da quello consueto in Italia. Alcune particolarità di queste due descrizioni sono preziose proprio dal punto di vista della storia del costume.

Per studiare i particolari vestiti indossati dal seguito di Bakóc in occasione dell’entrata a Roma, possiamo prendere in esame i parallelismi italiani della mecenatura del Primate d’Ungheria, soprattutto l’attività in tal senso di Giovanni de’ Medici. Si è dimostrata molto utile, inoltre, una linea di ricerca portata avanti, negli anni passati, su un pezzo di vestimento laico, la “turca”, che troviamo spesso menzionata nelle fonti coeve.2

Fonti scritte sull’aspetto degli ambasciatori ed inviati ungheresi all’estero si hanno anche dal periodo precedente il secolo 16. Jolán Balogh ha pubblicato un’ampia e curiosa antologia sulle fonti che descrivono il modo di vestire ungherese nel periodo di Mattia Corvino.3 Una di queste fonti, datata 1489, esemplifica in maniera eccellente le caratteristiche della “civiltà dell’ambasceria” e del vestire accettata alla fine del secolo 15 alla corte reale ungherese. Il testo riguarda un messaggio fatto arrivare in forma scritta al duca di Milano, Ludovico Sforza, tramite il segretario ducale Bartolomeo Calco da parte dell’arcivescovo milanese.4 Il messaggio giungeva dopo un loro colloquio a proposito di una delegazione in procinto di partire per l’Ungheria:

Ma in specie ha dicto parerli, che al conte Alexandro siano dati qualche camereri et gentilhomini honorevoli, per essere de quella condizione et grado e tochando, poich’el numero de tutta la comitiva non dovesse essere mancho de 600 persone, alle quale fusse deputato uno, che generalmente havesse comandarli a tutte le familie loro, cum tenerle regulate et farli andare cum bono ordine senza confusione et costumatamente, peroche in quella corte observano non solamente el parlare de ciascuno, ma anchora li modi et gesti suoi, demonstrando appresso, che el fusse bene admonire ognuno ad portare veste longhe, peroche così è il costume loro et damnano grandamente questi habiti corti.5

È stato lo stesso Bartolomeo Calco a conservare per noi la memoria dell’ambasciatore ungherese, Mózes Buzlai, che indossa la “turca” sopra menzionata:

Dicto ambaxiatore haveva una belissima turcha de drappo d’oro, cum uno friso in testa rivolto ad treze et perle, cum li capilli longi anellati et di gratissimo aspecto et belissima statura, de etate de trenta anni et richissimo de bona maynera et costumi, et è cum bella compagnia di numero solamente de persone 18, et tra cavalli e muli 17.6

Dal ritratto del vescovo di Pécs, “messer Giovanni”, scritto da Vespasiano da Bisticci, siamo informati del carattere ungherese, della grandezza e della composizione della delegazione ungherese, la cui parte preponderante spettava alla cavalleria. Si tratta dell’ambasciata di Giano Pannonio che, nel 1465, per conto di Mattia di Corvino, si reca alla corte di papa Paolo II (1464–1471) con una delegazione composta da trecento persone a cavallo:

…è lunghissimo tempo che in Italia non venne mai più degna legazione di questa, né con più cavalli, né con maggior pompa, venendo dalle estreme parti del mondo. Non si vide mai legati sì bene a cavallo, né i famigli sì bene a ordine, e i più begli uomini che si vedessimo mai. […] Vennon qui a Firenze, e alloggiorono in quanti alberghi v’erano. Istettono parecchi dì a rimettersi in ordine, e a vedere la terra. Partitisi da Firenze, n’andorono alla via di Roma, incontrati da’ cardinali in fuora; che fu cosa mirabile a vedergli entrare in Roma.7

L’entrata di Tamás Bakóc a Roma, come prelato ungherese, non è quindi un evento senza precedenti. I brani citati, anche se rimandano solo di sfuggita al vestiario dei membri della delegazione della fine del Quattrocento, sono comunque un importante punto di riferimento per le ricerche sulla storia del costume in Ungheria. I documenti che ora presentiamo non solo mostrano una continuità rispetto ai fatti conosciuti del secolo precedente, ma integrano notevolmente anche le nostre conoscenze particolari a riguardo.

Conosciamo la descrizione particolareggiata dell’entrata di Tamás Bakóc a Roma, nell’anno 1512, grazie alla biografia di Vilmos Fraknói.8 In essa l’autore, partendo da diverse fonti, ha ricostruito l’arrivo del cardinale di Esztergom alla Città Eterna, descrivendo gli eventi di due giorni: l’entrata stessa nel giorno 27 gennaio 1512, la seduta del concistoro avvenuta tre giorni dopo e il suo incontro con papa Giulio II. Per delineare il suo arrivo si appoggia sulla “relazione dell’ambasciatore mantovano del 2 febbraio 1512”, mentre per quanto riguarda l’incontro non cita una fonte precisa, anche se, in base ad una nota a piede di pagina presente in un altro punto, si può supporre che abbia riassunto le cose accadute sempre in base alle relazioni del 2 febbraio “inviate dagli oratori di Mantova e di Ferrara”.9 Fraknói può aver letto, quindi, tutte le fonti che qui presentiamo, è tuttavia la prima volta che vengono edite e comparate insieme.

All’Archivio di Stato di Modena, nella serie degli Ambasciatori, tra le buste che conservano le relazioni arrivate da Roma, è stata ritrovata quella di Ludovico da Fabriano, risalente all’anno 1512, che rende conto ad Ippolito d’Este della preparazione e del modo in cui si svolse l’entrata della comitiva ungherese al concistoro. I fatti in questione li ritroviamo nelle sue lettere del 1, 30 e 31 gennaio e, pur non essendo molto particolareggiato, alla vista dei vestiti esotici dimostra la stessa meraviglia del suo collega mantovano.

All’Archivio Gonzaga dell’Archivio di Stato di Mantova siamo riusciti ad identificare il documento che Fraknói, con ogni probabilità, aveva utilizzato per la ricostruzione dell’entrata del 27 gennaio 1512.10 Esso venne spedito a Isabella d’Este da Stazio Gadio, oratore del marchese di Mantova a Roma, sei giorni dopo l’evento stesso, ovvero il 2 febbraio 1512.11 Il documento è una copia della stessa mano di Gadio di un’altra lettera, da lui spedita lo stesso giorno al marito di Isabella, il marchese di Mantova, Francesco Gonzaga. In base alla lettera che accompagna il documento, si chiarisce che la copia fu inviata da Gadio alla marchesa Isabella d’Este Gonzaga. Questa lettera di accompagnamento, peraltro, ha un alto valore anche per via di un altro particolare: grazie ad essa si è riusciti ad identificare una statua antica che oggi si trova al Museo Louvre di Parigi, raffigurante il dio Tevere e facente parte, un tempo, della famosa collezione d’arte di papa Giulio II.12

Stazio Gadio accompagnò, nel 1510, in qualità di maestro di casa e segretario particolare, il primogenito Federico Gonzaga alla corte di papa Giulio II, da dove informava la marchesa sull’andamento del figlio.13 I suoi scritti permettono di comprendere non solo lo svolgimento della vita quotidiana a Roma, ma di avere anche una visione sulla serie di festività religiose e profane del pontificato di Giulio II.14 Nelle sue descrizioni è caratteristica la sensibilità ai messaggi visivi dell’epoca, l’annotazione della rappresentazione araldica e anche dei particolari del vestiario, dei colori, delle stoffe e degli ornamenti.15

La relazione sull’arrivo di Tamás Bakóc, come si capisce dal paragrafo introduttivo del testo, fa parte della serie di lettere che rendono conto sullo stato di salute di Federico Gonzaga a Roma: “Il signor Federico sta bene et sano et ogni sera magna et gioca con Nostro Signore, pigliandone sua Santità gran piacere, lo vede voluntieri, et lo accareza al solito.”16 Gadio, nelle sue lettere, descrive la figura e le attività quotidiane di papa Giulio II con il piglio di un vero cortigiano, tuttavia in questo testo la sua attenzione è maggiormente presa dall’arrivo del cardinale di Esztergom alla Città Eterna.

Dall’introduzione veniamo a sapere che Gadio era ben informato anche sul viaggio di Tamás Bakóc verso Roma. Rende conto del fatto che il cardinale sostava ad Ancona, in attesa di un breve papale che gli assicurasse il diritto di lasciare liberamente testamento (anche il diritto di nominare il successore, in caso di morte di Bakóc a Roma, sarebbe passato al papa). Si capisce inoltre che Giulio II, per qualche ragione, non era incline a riceverlo subito, però: “[…]volse vedere la sua famiglia, informato che era bella, et ben in ordine, como fu vero”.17 Già nella lettera del 1 gennaio 1512, Ludovico da Fabriano rende conto al duca di Ferrara dei preparativi, delle trattative per scegliere il giorno dell’entrata, non descrive però l’evento del 27, solo quello del 30, giorno in cui gli ungheresi si recano al concistoro. Dell’entrata in città del 27 gennaio scrive solo sommariamente, riferendone in proposito all’evento di due giorni dopo: “L’intrata loro in Roma fo ancho um bello spectaculo. Venivano al ordinanza con loro pennachie, targhe guarnite et tucti foderi de simitarre d’argento, pure con fornimenti, speroni richi et maniche racamate de perle. È stata reputata una sumptuosa comitiva, più che se ricorde um tempo.”18

Procediamo quindi secondo il racconto di Gadio. Il cardinale ed i personaggi più nobili del suo seguito vennero accompagnati, il 27 gennaio 1512, solo fino al luogo citato come “Popolo”, mentre l’altra parte della delegazione andò verso il Ponte Molo (Ponte Milvio)19 per arrivare da lì al Belvedere ed entrare in città da Porta di San Pietro, così da permettere al Santo Padre di vedere la sfilata. Siccome il testo di Gadio non menziona poi più la persona del cardinale, si può supporre che lui, da Porta del Popolo, sia andato con il seguito più stretto direttamente al palazzo affittato in Campo de’ Fiori.20

In seguito si legge la descrizione dettagliata della delegazione, un racconto che ci fa avere l’impressione di vedere proprio quel che si trovò davanti ai suoi occhi papa Giulio II. Davanti camminavano quaranta muli carichi, coperti di rosato (stoffa fine di lana) di color giallo e bianco, con al centro lo stemma cardinalizio di Tamás Bakóc, “megia rota sopra qual sta megia cerva in campo agiuro”.21 Secondo la descrizione “tutti quaranta ad uno modo ordinatamente che faceva bel vedere”. Conosciamo una dettagliata descrizione dell’entrata di papa Leone X a Firenze nel 1515, dove a guidare la processione erano pure dei muli (in questo caso ottanta), coperti anche questi di rosato, sui quali si distingueva lo stemma di papa Leone X.22 Siccome il ritorno di Giovanni de’ Medici a Firenze è molto ben documentato, sappiamo che due anni prima della sua entrata in città, il 20 luglio 1513, fu pagata ad un certo maestro ricamatore chiamato Ghalieno una somma notevole, 54 ducati, per dei lavori: tra questi c’era la preparazione di nove coperte per muli con lo stemma di papa Leone X.23 Oggi, cinquecento anni dopo, non si riesce a far corrispondere in tutti i casi gli ordini scritti agli oggetti d’arte superstiti o agli eventi documentati, eppure nell’ambiente di Giovanni de’ Medici, salito al trono pontificio, abbiamo a disposizione un insieme abbastanza ricco di oggetti. È comunque importante rilevare che, nel caso delle entrate solenni in Italia ebbero un ruolo rilevante drappi ed oggetti con elementi araldici. Sempre a proposito della persona di papa Leone X possiamo portare, come un altro esempio, la sua entrata a Siena, poi non realizzata, che avrebbe preceduto proprio quella di Firenze. In quel caso l’entrata non ebbe luogo perché non era stato raggiunto un accordo politico. A Siena, comunque, erano stati preparati i palazzi che avrebbero ospitato il Santo Padre e la sua comitiva, si stavano inoltre preparando anche gli archi di trionfo effimeri, in stile all’antica; dal documento superstite veniamo anzi informati anche del fatto che, tra i quindici maestri impegnati per contratto nella realizzazione dell’opera, sette pittori erano dedicati esclusivamente alla pittura di stemmi colorati.24

In Italia, fortunatamente, sono rimasti molti esemplari di stoffe araldiche destinate alla rappresentanza. Oltre che per le sue straordinarie caratteristiche tecniche e stilari, spicca tra loro, per la sua integrità e compiutezza, l’ornato Passerini che era stato usato per l’occasione e che, oggi, è custodito a Cortona. L’insieme di paramenti liturgici furono fatti preparare da papa Leone X per il vescovo di Cortona Silvio Passerini, più tardi cardinale. La stoffa di base è un velluto intessuto con fili d’argento dorato ed i motivi sono attinti tra gli emblemi della famiglia Medici (ramo tagliato, anello con diamante) e della famiglia Passerini (toro coricato). I paramenti (l’ornato e il pluviale) furono indossati da papa Leone X in occasione della sua santa messa celebrata a Cortona nel 1515, durante il suo viaggio da Roma a Firenze.25

Tre anni prima il suo predecessore, papa Giulio II, vide procedere il seguito del cardinale ungherese nel seguente ordine: dopo i muli venivano tre uomini bellamente vestiti in broccato turco, con copricapi all’ungherese, ornati di oro, gemme e perle, come anche le maniche destre dei loro vestiti, coperte anche queste riccamente di perle, “…sopra tre cavalli turchi molto belli guarniti di argento et di recame, dreto lor venevano quindeci ben a cavallo, sei portavano lanzi con le banderoli rossi et bianchi a modo di stratiotti, li altri nove haveano in testa penacchi grandi bianchi che li coprevano quasi tutte le spalle.”26 A seguire, “cinque a cavallo conducevano cinque belli cavalli a mane con coperti ben lavorati, altri quindeci con li lanzetti et bandere andavano subito dretto.”27

Dalla descrizione si evince che il vestito delle tre persone in broccato turco, quelle che precedevano la prima parte sostanziale della delegazione con lance e piccole bandiere, offriva una visione spettacolare. L’espressione “broccato” è assai frequente nelle fonti scritte dell’epoca e rimanda, per lo più, a tessuti riccamente ornati con filo metallico, quindi argento o argento dorato. L’unica cosa che Stazio Gadio sottolinea, a proposito della stoffa, è il suo carattere “turchesco”. Uno spettatore esperto della civiltà cortigiana italiana dell’inizio del Cinquecento poteva facilmente distinguere, a prima vista, il broccato turco da quello italiano partendo dai motivi e dai colori. In questo caso potremmo pensare, prima di tutto, alla stoffa turca detta kemha,28 un tessuto “lampasso” preparato utilizzando fili colorati di seta o di metallo, oppure al velluto turco, che era prodotto pure con l’uso di fili metallici. Ambedue facevano parte, proprio per l’utilizzo dei fili metallici e per la tessitura, della categoria dei tessuti di lusso. Nei territori ungheresi erano facilmente raggiungibili i tipi di tessuto della vasta scala offerta dall’Impero ottomano: lo si deduce sia dalle fonti scritte sia dall’oggettistica sacra, in seguito alla trasformazione di pezzi di vestiario laici in paramenti liturgici. Benché Stazio Gadio non riveli di più sui particolari di questi vestiti, possiamo tuttavia cogliere un particolare: il braccio destro dei vestiti era ricoperto di ricami di perle, rendendo questi pezzi veramente straordinari. Nella parte restante della comitiva si ripete questo particolare, accennando al fatto che il braccio destro dei vestiti era di raso, quindi di un tessuto finissimo di lana. L’origine e la fattura di questo tipo di ornamento, tuttavia, deve essere ancora oggetto di ulteriori ricerche.29 Anche i copricapi “all’ongaresca” portavano una decorazione di perle. Questo ornamento ci richiama alla mente i vestiti dei baroni e nobili al seguito di Mattia Corvino, presenti all’incontro dei sovrani a Iglau nel 1486. La descrizione dell’ambasciatore ferrarese Cesare Valentini dice di loro: “[…] tutti [erano] in vesti curti, alcuni ce n’erano con veste rechamate de perle, una bona parte et alcuni altri vestiti de crimisino e d’altri colori con foglie di testa assai ornate e belle, chi con perle e chi con zoye et alcuni che haveano le guagline.”30 Così i copricapi, riccamente ornati di perle, gemme e ricami, sembrano essere una caratteristica costante del vestiario della nobiltà ungherese. In seguito, nella sua descrizione, Valentini separa nettamente l’uso del vestito corto da quello del vestito lungo, essendo quest’ultimo usato in maniera univoca per il periodo della solennità liturgica, mentre il vestito corto, riccamente ornato anche questo di ricami e perle, era il vestito da corte e da cavalcatura. L’ambasciatore ferrarese chiama “turca” il vestito lungo, cucito all’esterno da broccato d’oro o di argento, oppure di seta colorita e foderato, all’interno, da pellicce fini. Nella descrizione dell’entrata a Roma, Gadio non rende conto della lunghezza dei vestiti, non nomina esplicitamente “turca” nessuno dei vestiti foderati, benché in Italia, da un po’ di tempo, facesse già parte della guardaroba di moda maschile e femminile questo pezzo di vestiario lungo, dalle funzioni variegate, fatto di stoffe varie, elegante ed esotico allo stesso tempo. Il suo approdo nella penisola sarà stato effettuato, molto probabilmente, per tramite della diplomazia turca, facendo presa sul gusto dei nobili dei territori nemici.31

Agli occhi del cortegiano italiano è molto più sorprendente, più che il vestiario e il copricapo degli ungheresi, un elemento accessorio: l’arma (decorativa) attaccata alla cintura ampia, decorata in argento, assieme agli speroni sugli stivali e ai finimenti dei cavalli, come vediamo dalla continuazione della lettera:

Doppoi venero ottanta a cavallo a dui a dui vestiti tutti de veste di rosato,32 cinti ad una foggia con adornamenti di argento adorati in petto che seravano denanti li vesti, e tanto grandi erano quelli allazamenti o botonaturi che coprivano quasi tutto il pecto lor, li lor manichi de li brazi destri tutti erano di ricami richi di oro, di perle coperti, li lor spade, stocchi et daghi haveano li fodri di argento, attacati a cinture largissimi, coperti di argento, sino li bolzadini a meza gamba al modo lor erano adornati di argento et li speroni anchor. Ciascuno de li cavalli havea fornimenti coperti di argento lavorato, perhò grossamente, ma in gran quantità, et vi erano de belli cavalli turchi, ongari et valacchi, et con questo ordini passorno per la Piaza di San Petro, per borgo, per ponti et per la via dritta de banchi andando al pallatio del signor Zo Jordano in Campo de Fior, ove allogiano et ultra questi che ho detto venuti ordinatamente passorno senza ordine molti che veramente computandoli tutti erano più di ducento cavalli con li muli.33

Il caratteristico pezzo di vestito decorativo, allacciato con cordicelle sul petto, come integrazione al già menzionato vestito in broccato turco, ritorna anche nella descrizione di due giorni dopo, quando la delegazione ungherese si reca alla seduta del concistoro. A questo punto possiamo citare anche l’altro testimone oculare, Ludovico da Fabriano, l’ambasciatore ferrarese che descrive questo evento del 30 gennaio 1512:

…monsignor reverendissimo de Strigonio intrò et facte sue cerimonie consuete comparse la sua comitiva con gran pompa. Li primi forono octo gentili homini con veste d’oro con bellissime fodere com pecti de argento, perle et alcuni diverse zoie, apresso una infinità de altri con veste de brochati turcheschi de diversi colori, dipo de velluti rasi et rosati tucti con fodere et quelli soi pecti d’argento furono al numero de cento sedici. Li loro cavalli quasi tucti guarniti d’argento con certi ornamenti de fogliame relevato sopra la groppa. Fra questi forono ben IIII guarnimenti de perle, cavalli turchi assai che andavano ballando per la piaza. Cum tempo fo tirata certa artiglieria.34

Tutto questo offriva, allo spettatore italiano, una visione straordinaria, inusuale, può essere quindi considerato come una caratteristica speciale del vestiario della delegazione ungherese. In base alla descrizione, tuttavia, non si riesce a capire nemmeno se, questa specie di mantello, si potesse allacciare tramite nastri ampi di fili di seta o metallo, oppure tramite cordicelle.35 Comunque sia, più tardi, verso la fine del Cinquecento, troviamo nei documenti italiani il termine ungherina, espressione che si riferisce ad un vestito aperto, in uso all’inizio del Seicento, che si poteva allacciare tramite cordicelle. Quanto detto ci permette di concludere che il vestiario ungherese poteva fungere, in questa evoluzione, da tramite nel campo della moda.36

Questo indumento con l’allacciamento tramite cordicelle lo ritroviamo anche nelle memorie di László Gorove, che descrive l’entrata del re ungherese Vladislao II nella città di Lőcse (oggi: Levoča, Slovacchia). In quell’occasione il vescovo di Eger, Tamás Bakóc, fece accompagnare il sovrano dal suo seguito personale per conferirgli una degna immagine. Come scrive Gorove: “Il vestito degli studenti luccicava di tanto oro, perle e frange, non solo al loro collo brillavano collane d’oro, ma perfino i cavalli erano adorni di decorazioni preziosissime e di finimenti, selle artifatte. Con tale ornamento questi cavalcavano precedendo i due re.”37

Abraham de Bruyn, incisore originario di Anversa che viveva a Colonia, in Germania, nel 1588 diede alla luce un lavoro sul modo di vestire dei popoli di quattro continenti. In quest’opera i nobili e cavalieri ungheresi, polacchi, russi e turchi sono rappresentati con questo vestito allacciato sul petto.

L’ornamento a cordicelle ci conduce a due elementi importanti del vestiario dei nobili ungheresi nei secoli 16 e 17: il dolmány e il mente.38 Il mente poteva essere preparato di stoffa pesante o anche di tessuto di seta, quelli usati d’inverno erano anche foderati.39 Le prime menzioni in lingua ungherese risalgono però solo alla metà del Cinquecento, mentre il dolmány è, sicuramente, una denominazione di origine turca-ottomana e, già alla fine del 15. secolo, inizio del 16. secolo, era presente nelle fonti.40 Jolán Balogh ha dimostrato la sua esistenza nell’inventario del lascito di Ippolito d’Este, dove viene menzionato in italiano nella forma “duloman al’hungarescha”.41 Il dolmány e il mente erano di foggia simile, ambedue erano una specie di cappotto. Il dolmány poteva essere di tessuto di seta, di velluto o di stoffa pesante, aveva una variante lunga, fino a mezza gamba, mentre il dolmány corto arrivava fino alla vita. La parte della vita era arcuata, Lilla Tompos la descrive come una caratteristica dei vestiti turchi, così come la parte anteriore, con chiusura in sovrapposizione, poteva ricalcare i modi del vestire turchi.42 La vita del dolmány, inoltre, era cinta normalmente da una cintura larga e caratteristica.

La descrizione dell’entrata fatta da Stazio Gadio assume, in base a tutti questi elementi, un ruolo importante nella ricostruzione dei vestiti dei nobili. Ciò non solo per l’attenzione minuziosa della relazione, che accenna a vari dettagli, ma anche per le piccole osservazioni soggettive. Nella lettera sul concistoro del 30 gennaio, per esempio, parla di sei cavalieri, “[…] quatro vestiti di brocato d’oro nostrano, con belle fodre et collane, gli dui extremi grandi homini et parenti del cardinale, vestevano due vesti di panno d’oro richo et bello con collane grosse, et gioie assai nelle berette”. L’ambiente più vicino al cardinale comunicava quindi, tramite il vestiario, di essere “romano” e “cortegiano”, cosa che era subito evidente a chi appartenesse ad un contesto umanistico. Balza subito all’occhio, inoltre, che la persona e il vestito dello stesso cardinale vengono appena menzionati nel testo. Sorge la domanda sul perché Gadio abbia voluto descrivere quella scena quando, su richiesta del cardinale e su concessione del papa, tutta la delegazione fatta entrare nel concistoro, 111 persone, si recano a baciare il piede del Santo Padre. Sulla figura di Tamás Bakóc, d’altro canto, vengono riferiti e tramandati ai posteri elementi in maniera relativamente schematica.

Il seguito di Tamás Bakóc ha offerto una visione stupefacente e assai ricca di colori. Nella sua struttura aveva elementi simili alle processioni in uso in Italia, come i portatori di bandiere, i muli carichi, l’uso del rosato e la presenza di sei uomini con vestiti rinascimentali. Dalla trattazione dei vestiti, descritti nei minimi particolari, si evince che Stazio Gadio possiede una cultura del vestire sostanzialmente diversa da quella italiana. Nella comitiva del cardinale di Esztergom era rappresentato l’elemento “esotico” nella forma dei vestiti “alla turca”, la differenza fondamentale, tuttavia, consisteva nella visione unitaria dei vestiti e dell’armamento. Per quanto riguardava i vestiti si nota la predominanza dell’ornamento e dei materiali (metalli preziosi, perle, ricami), mentre nelle entrate italiane la parte maggiore spettava, seguendo i modelli antichi, alla metacomunicazione dei tessuti e degli elementi araldici.

Fonti

Presentiamo ora, in ordine cronologico, le quattro fonti consultate presso l’Archivio di Stato di Modena e presso l’Archivio di Stato di Mantova: le prime tre consistono nelle lettere di Ludovico da Fabriano, quella del 1 gennaio 1512 (in cui si accenna già al progetto, la scelta del giorno dell’entrata ed il colloquio tra Giulio II e Tamás Bakóc), la seconda del 30 gennaio 1512 (tre giorni dopo l’evento, una descrizione sommaria, però con elementi inediti) e la terza del 31 gennaio 1512 (con un ulteriore accenno all’incontro tra il papa e il cardinale ungherese). Le trascrizioni sono state eseguite in base alle lettere originali conservate presso l’Archivio di Stato di Modena, tenendo presenti le loro copie novecentesche che si conservano presso la Sala dei Manoscritti dell’Accademia delle Scienze Ungherese, le quali sono state preparate più di cento anni fa, con le originali ancora in buono stato. Segue poi, al n. 4, la lettera di Stazio Gadio del 2 febbraio 1512 a Isabella d’Este (la lettera che contiene anche la notizia del ritrovamento della lupa capitolina e della statua del dio Tevere e, in allegato, ricopia la descrizione minuziosa dell’entrata di Bakóc). Anche in questo caso possiamo fornire la trascrizione in base all’originale presente nell’Archivio di Stato di Mantova.

Per la trascrizione abbiamo cercato di intervenire, tramite i segni diacritici e la punteggiatura moderni, solo al fine di rendere comprensibile il testo, senza modificare le caratteristiche dell’ortografia cinquecentesca. La corrispondenza tra le diverse corti d’Italia era caratterizzata da una lingua aulica, “cortegiana”, ormai praticamente ripulita di elementi locali. Né Ludovico da Fabriano, né Stazio Gadio adoperano forme prettamente volgari, il loro stile è fine e l’ortografia è ancora priva di una norma stabile, rendendo perciò opaca, in qualche punto, l’interpretazione di alcuni passaggi. I termini tecnici che si riferiscono al vestiario sono ben padroneggiati, soprattutto da Stazio Gadio che, come detto, sembra essere stato un esperto nel campo della comunicazione visiva, oltre ad essere molto attento agli elementi relativi agli indumenti e all’organizzazione di eventi celebrativi.

1.

Lettera di Ludovico da Fabriano a Ippolito d’Este, Roma, 1 gennaio 1512

Segnature: Vestigia43 30. = Magyar Tudományos Akadémia, Kézirattár Ms. 4999/ 2, 11. La trascrizione è stata eseguita in base all’originale: Archivio di Stato di Modena, Archivio Segreto Estense, Cancelleria, Carteggio Ambasciatori Roma 19, Ludovico da Fabriano.

[1r] Illustrissimo signore, questa matina visitando monsignore reverendissimo de Strigonio, me viste volontieri, li recomandai le cose de Vostra Signoria Illustrissima, informandolo che La se era ben portato con Nostro Signore, maxime circa concilium pisanum.44 Dipo multe bone parole che usò verso la prefata Vostra Signoria Illustrissima me disse che il Nostro Signore stava multo sdegnato contra de Lei, havendo portato le arme contra Sua Santità, dipo el caso occorso al signor Duca suo fratello (…)45 mandato el suo homo a Milano, et che Sua Santità stava in proposito vo(…) contra de Lei ad privationem, et sua Signoria Reverendissima havea facto un bonissimo (…) et farà bisognando regratiar quella de tanta humanità et tucto era per fare a savere ad Vostra Signoria scusandola che questa imputatione procedeva da maligni, et che non posseva essere vero, savendo che era in Ferrara et omne zorno cavalcava per la città col suo habito da cardinale, et non armato, como se scrivea. 

Dipo disse haver facto grande instantia, che la privatione de San Severino46 se feria a uno altro tempo et non al zorno de la sua intrata et non possecte haver gratia. Disse apresso che havea inteso che Vostra Signoria Illustrissima rimandava a visitare in Ancona de (…) non era comparso homo al mondo, et quando havesse saputo stare tanto lì, haria mandato un suo sino a Ferrara, per visitare Quella. Respusi non havendo mandato deve essere proceduto per l’impedimento dela guerra, et non solo haria mandato, ma seria andato im persona, per fare quel debito se ricercava verso sua Signoria Reverendissima, alla quale era servitore et obediente figliolo. Parme adonqua Vostra Signoria Illustrissima senza dilatione scriva secondo li parerà et remediare con Nostro Signore non li vengha fantasia procedere più avante. Questo me pare, poterà disporre de Nostro Signore quanto vorrà per la dependentia de quelli regni in questi tempi. [1v] et bene valeat Dominatio Vestra Illustrissima, Rome, prima Januarii 1512.

Dominationis Vestre Illustrissime

humillimus servulus Ludovicus Fabrianus

Strigonio è de quel medesimo parere, secondo ho scripto, che il cardinale de Arragona [32]47 perderia tempo intrometterse per accordio [47] fra il Christianissimo48 et il Papa [XV] et tene pro firmo il Papa mai li verrà salvo forzato non parendoli altra mente che mi ne parle, l’ò priegato (…) ne faza una parola. Adzò Sua Santità cognosca el bono animo de Vostra Signoria [32] verso la (…)

[1v] Illustrissimo et Reverendissimo Domino, Domino Hippolito Sancte Romane Ecclesie Diacono Cardinali Estensi et Domino Singularissimo.

2.

Lettera di Ludovico da Fabriano a Ippolito d’Este, Roma, 30 gennaio 1512

Segnature: Vestigia 29. = Magyar Tudományos Akadémia, Kézirattár, Ms. 4999/2, 10. La trascrizione è stata eseguita in base all’originale: Archivio di Stato di Modena, Archivio Segreto Estense, Cancelleria, Carteggio Ambasciatori Roma 19, Ludovico da Fabriano

[1r] Illustrissimo Signore. Questa matina che è el penultimo del mese, Nostro Signore in publico consistorio ha privato Santo Severino. Le cause dela privatione, secondo referì l’avocato consistoriale è state che sempre è aderito alli cardinali sismatici dipo andato in Lamagna49 per indurre lo imperatore al concilio pisano et dismembrare da l’amicitia et devotione de Nostro Signore et questa Santa Sede. Hoc facto monsignor reverendissimo de Strigonio intrò et facte sue cerimonie consuete, comparse la sua comitiva con gran pompe. Li primi forono octo gentili homini con veste d’oro con bellissime fodere com pecti de argento, perle et alcuni diverse zoie, apresso una infinità de altri con veste de brochati turcheschi de diversi colori, dipo de velluti rasi et rosati tucti con fodere et quelli soi pecti d’argento furono al numero de cento sedeci. Li loro cavalli quasi tucti guarniti d’argento con certi ornamenti de fogliame relevato sopra la groppa. Fra questi forono ben IIII guarnimenti de perle, cavalli turchi assai che andavano ballando per la piaza. Cum tempo fo tirata certa artiglieria. La persona del cardinale era sopra uno cavallo pomato. L’intrata loro in Roma fo ancho um bello spectaculo. Venivano al ordinanza con loro pennachie, targhe guarnite et tucti foderi de simitare d’argento, pure con fornimenti, speroni richi et maniche ricamate de perle. È stata reputata una sumptuosa comitiva, più che se ricorde un tempo. La sua persona sta robiconda et multo vivace et atende a fare bona cera. Et bene valeat Dominatio vestra illustrissima. Rome, penultima Januarii MDXII. Eiusdem Vestre Dominationis Illustrissime

humillimus servulus Ludovicus Fabrianus

[1v] Reverendissimo et Illustrissimo Domino, Domino Ippolito Sancte Romane Ecclesie Diacono Cardinali Estensi et Domino meo singularissimo.

3.

Lettera di Ludovico da Fabriano a Ippolito d’Este, 31 gennaio 1512

Segnature: Vestigia 28. / Magyar Tudományos Akadémia, Kézirattár, Ms. 4999/2,9. / Archivio di Stato di Modena, Archivio Segreto Estense, Cancelleria, Carteggio Ambasciatori Roma 19, Ludovico da Fabriano

[1r] Illustrissimo Signore, per diverse mie dava aviso più dì sono como Nostro Signore è intrato suspecto che Vostra Signoria Illustrissima habbia mandato uno de li soi stratioti como porcuratore a trovarese presente alla messa canto santa croce al zorno di Natale in Milano et da quel tempo più volte ha detto che trovando essere vero ne farà desmontrazione. Ho aspectato che Vostra Signoria Illustrissima in zò voglia chiarire la mente de sua Santità et sino requstanti non ho un minimo aviso. Le ultime de Quella sonno state de XVII de dicembre.

Dipo la presa de la Bastia e eleaso sucurso al Signor Duca de la percossa de la testa è stato decto ad sua Santità como el governo et tucte gente d’arme era apresso la prefata Vostra Signoria Illustrissima et più che là se trovava im persona in argenta con gente d’arme. Nostro Signore con alcuni ne ha parlato et decto: Alfonso stae male et el cardnale governate e (…) et che La se trova in campo alla disconecta. Circa viii dì parlando como altro disse el simile, dicendo il cadinale ce fa più guerra che non feva Alfonso, per mia fe. Per mia fe forse ce poteria fare mutare de fantasia. Venero matina uscito di concistoro publico dispogliandose il piviale disse a [23] cardinale de Aragonia: el cardinale da Este sta in campo – l’amico sentiva. Secondo referisce il suo medico judeo. Questo me ha pregato se così è che la preghi per l’amor di Dio a honestare, per non indurre Nostro Signore a qualche inconveniente. Questo aviso primo è venuto da [Bernardo Bibiena] quale scrive queste formal parole: Domino Alfonso da Este sta male a non se lassar vedere et bisogno se faza tragniare la testa; Dono Hippolyto governa con le gente d’arme, et non trova chi voglia stare in la Bastia.

Monsignor reverendissimo de Strigonio per el mastro de cerimonie supplicò Nostro Signore li fesse gratia che non se voleva trovare alla privatione di San Severino. Sua Santità respose queste formali parole: Siamo contenti in questo satisfarlo, dipo serà buon mezo aconzare le cose del cardinale da Este et de suo fratello, savendo po disporre di questi signori. Et bene valeat Dominatio Vestra Illustirissima. Roma, ultima Januari MDXII.

Eiusdem Vestre Dominationis Illustrissime

humillimus servitor Ludovicus Fabrianus

[1v] Reverendissimo et Illustrissimo Domino, Domino Ippolito Sancte Romane Ecclesie Diacono Cardinali Estensi, Domino meo singularissimo.

4.

Lettera di Stazio Gadio a Isabella d’Este Gonzaga, con copia della lettera dello stesso giorno indirizzata a Francesco Gonzaga, Roma, 2 febbraio 1512

Segnatura: Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga b. 860 (Ambasciatori Roma, anno 1512)

[1r] Illustrissima et excellentissima signora mia unica, non havendo altro di posser scriver a vostra excellentia, mando la copia de la lettera ch’io scrivo allo illustrissimo signor mio de la entrata del cardinale di Strigonia, et l’aviso como il signor Federico si conserva sano et bello al possibile et spesso va a solazo per Roma, et à piacer al parco di terme di San Petro in Vincula ad far correr daini, capre, cervi et coniglii. Nostro Signore lo accareza al solito benissimo, et ogni dì magna et gioca seco con gran piacer di sua Santità. Qua in Roma in una casa sotto terra è stà ritrovato uno marmore nel qual sono intagliate di relevo quatro figure, il dio del fiume Tevere, homo grande più del naturale, con la barba longa et capilli et una girlanda in testa de fronde, stassi apostato sopra il cubito destro et ha uno corno de divitie nella man dritta, ha panni a torno ma il corpo è quasi tutto scoperto nudo e sopra l’acqua nella ripa è una lupa a colegata con Romulo e Remo putini che tetano, fatti con bono modo et gratia, cosa molto laudata, benché alli putini manchino le teste, uno brazo et una gamba, et alla lupa megio il mustatio. Nostro Signore se l’ha fatto menar il Belvedere, per metterlo presso le altre antiquità belle che vi sono. Agurolo a vostra Excellentia, benché il seria alquanto discontio ad poterlo condur sin lì, ma voria che vi fusse senza pensar di trovare modo di posserlo condure. Baso la mane a vostra excellentia et me le racomando. Rome, secundo Febrauarii MDCXII.

Messer Bonifacio Parmesano basa la mane a vostra Excellentia et se le racomanda.

Di vostra Excellentia servo fidelissimo

Statio

Copia

[1r] Illustrissimo et excellentissimo signore mio colendissimo: Vostra Excellenza debbe saper che ’l reverendissimo cardinale de Strigonia è stato molti giorni in Ancona et prima che’l habbi voluto partire de là per venir a Roma, ha voluto uno breve da Nostro Signore de licentia di poter testar de le cose sue accadendo la morte sua in queste parti et che’l vescovato di Strigonia si intenda esser vacato non in corte di Roma ma in Ongaria, qual obtenute queste gratie da Nostro Signore è venuto qua et ha fatto una bella entrata. Marti proximo passato alli XXVII di januario entrò adunche in Roma, et venne al Populo, non volendo la Santità di Nostro Signore che’l venessi a pallatio sino veneri et per questo non comparse sino quel giorno. Ma perché il papa volse vedere la sua famiglia, informato che era bella, et ben in ordine, como fu vero, accompagnato il cardinale nel Populo, et restando perhò con lui li più nobili et principali, il resto de la famiglia ritornò per Pontemolo, et voltò sotto Belvedere, entrando per la Porta de la Piaza di San Petro, a questo modo stando Nostro Signore ad vedere. Prima venero inanti quaranta muli carichi con li coperti di rosato con panno biancho et gialo intertagliato sopra et l’arma sua in meggio che è megia rota sopra qual sta megia cerva in campo agiuro et tutti quaranta ad uno modo ordinatamente che faceva bel vedere, segueva poi la famiglia, prima tre ben vestiti di veste brocato turchesco con capelli al ongarescha adornati de gioie, perle et lavorati d’oro, con la manica dritta del brazzo destro tutta [1v] recamata de richo lavoro, et de molti perle sopra tre cavalli turchi molto belli guarniti di argento et di recame, dreto lor venevano quindeci ben a cavallo, sei portavano lanzi con le banderoli rossi et bianchi a modo di stratiotti, li altri nove haveano in testa penacchi grandi bianchi che li coprevano quasi tutte le spalle, poi cinque a cavallo conducevano cinque belli cavalli a mane con coperti ben lavorati, altri quindeci con li lanzetti et bandere andavano subito dretto, doppoi venero ottanta a cavallo a dui a dui vestiti tutti de veste di rosato, cinti ad una foggia con adornamenti di argento adorati in petto che seravano denanti li vesti, e tanto grandi erano quelli allazamenti o botonaturi che coprivano quasi tutto il pecto lor, li lor manichi de li brazi destri tutti erano di ricami richi di oro, di perle coperti, li loi spade, stocchi et daghi haveano li fodri di argento, attacati a cinture largissimi, coperti di argento, sino li bolzadini a meza gamba al modo lor erano adornati di argento et li speroni anchor. Ciascuno de li cavalli havea fornimenti coperti di argento lavorato, perhò grossamente ma in gran quantità, et vi erano de belli cavalli turchi, ongari et valacchi, et con questo ordini passorno per la Piaza di San Petro, per borgo, per ponti et per la via dritta de banchi andando al pallatio del signor Zo Jordano in Campo de Fior, ove allogiano et ultra questi che ho detto venuti ordinatamente passorno senza ordine [2r] molti che veramente computandoli tutti erano più di ducento cavalli con li muli. Veneri alli XXX dil passato havendo Nostro Signore fatto concistorio publico nella gran sala, sì per privar San Severino, como per acceptar questo cardinale. La matina a bon hora tutti gli cardinali andorno ad tuor ditto cardinale ongaro al Populo, ove era, et lo conducero in pallatio con questo ordine: prima venero tutte le famiglie de cardinali confusamente, poi tutti li ongari ordinatamente a dui a dui, inanti erano otto vestiti di veste di brocato d’oro turchesco con quelli adornamenti di petto di argento adorato che ho detto, fodri de arme cincture, speroni et bolzadini forniti, anzi coperti de lamme di argento, li altri haveano vesti di diversi drappi con qualche belle fodre di vulpe bianche, dossi martori et zibellini, nel ultima di questa compagnia erano sei cavallieri, quatro vestiti di brocato d’oro nostrano, con belle fodre et collane, gli dui extremi grandi homini et parenti del cardinale, vestevano due vesti di panno d’oro richo et bello con collane grosse, et gioie assai nelle berette. Questi sei haveano cavalli sotto grandi capeza di mori con fornimenti larghi tutti recamati di perle, gioie et oro superba, et richa cosa, ciascuno de li altri era ben a cavallo chi con turcho con girelli di raso di veluto et li testere tutte di argento, chi con cavalli vestiti al ongarescha, et tutti li fornimenti coperti di argento lavorato a fogliami con vasi sopra la croppa di argento alti una spanna, con collane alli cavalli di argento adorate e botoni grossi di argento pendenti sotto la gola. [2v] Inmediate doppo questi venero li cardinali, excepto l’ongaro accompagnato da dui diaconi, Senna et Cornaro: che lo conducero in pallatio per un’altra via et lo posero in alcune camere, ovi stette con la sua compagnia, sino che fu finita la privatione di San Severino alla qual non volse ritornarsi. Fornita essa, el prefato cardinale, accompagnato pur da dui diaconi venne in concistorio et fece reverentia a Nostro Signore basandoli il piede, la mane, et il volto, al qual sua Santità fece bona cera et accarezò assai poi andò a basar tutti li cardinali et posesi al loco suo primo de li cardinali preti. Stato ivi alquanto si levò, et andò ad dimandar gratia a Nostro Signore che si lassasse basar il piede alla sua famiglia al che voluntier condescese e prima venne uno ambasator ongaro, prelato, poi cinque vescovi et successive vinticinque preti. Doppoi li seculari quali erano ottanta et con questo finiò il concistorio, et tutti li cardinali accompagnorno il ditto cardinale ongaro a casa con sono di trombe, tamburini et artigliaria nel giongere et partir di pallatio, et nel passar da castello Sant’Angelo. Sabbato andò a visitar Nostro Signore et mo andarà ad visitar tutti li cardinali a casa loro. Hozi la Santità di Nostro Signore dovea andar al Populo ad far la cerimonia de le candele, ma non vi è andato, et li cardinali l’hanno fatta lor. Il signor Federico sta bene et sano et ogni sera magna et gioca con Nostro Signore, pigliandone sua Santità gran piacere, lo vede voluntieri, et lo accareza al solito.

Raccomandomi alla bona gratia di vostra Excellentia. Rome, secundo Februarii MDXII.


  1. La nascita della pittura fu ispirata dal racconto dello scrittore Ferenc Herczeg intitolato Az élet kapuja [La porta della vita] (Budapest, 1919), il quale attinge le informazioni, con ogni probabilità, dalla monografia di Fraknói su Tamás Bakóc. Il dipinto è stato preparato da Ernő Jeges (1898–1956) nel periodo 1931-34 quando era borsista del Collegium Hungaricum a Roma. Cfr. E. Bodonyi: Jeges, Szentendre: Pest Megyei Múzeumok Igazgatósága, 2008: 24–26.↩︎

  2. Á. Szabó: ‘Turca, suba és a nevető harmadik. Egy öltözék az itáliai-magyar diplomáciai forrásokban a 15. század második felében és a 16. század elején’, in: B. Gulyás, Á. Mikó & B. Ugry (eds.): Reneszánsz és barokk Magyarországon. Művészettörténeti tanulmányok Galavics Géza tiszteletére. I–II, Budapest: ELKH Művészettörténeti Kutatóintézet, 2021: 143–158. Sull’entrata di Tamás Bakóc a Roma nel 1512: D. Görög: ‘Bakócz Tamás római bevonulása’, in: O. Báthory & F. Kónya (eds.): Egyház és reprezentáció a régi Magyarországon, Budapest: MTA-PPKE Barokk Irodalom és Lelkiség Kutatócsoport (Pázmány Irodalmi Műhely, Lelkiségtörténeti Tanulmányok 12), 2016: 113–119.↩︎

  3. J. Balogh: A művészet Mátyás király udvarában. Budapest: Akadémiai Kiadó, Budapest, 1966: I. Adattár, 414–435.↩︎

  4. Guidantonio Arcimboldi, arcivescovo di Milano (1489–1497).↩︎

  5. I. Nagy & A. Nyáry (eds.): Magyar diplomácziai emlékek Mátyás király korából IV. (Monumenta Hungariae Historica. Acta extera), Budapest, 1878: 31. J. Balogh: ‘Mátyás-kori, illetve későközépkori hagyományok továbbélése műveltségünkben’, Ethnographia LIX, 1948: 14; J. Balogh: A művészet…, op.cit.: 430; J. Szendrei: A magyar viselet történeti fejlődése, Budapest, Hermit, 2019: 15.↩︎

  6. J. Balogh: A művészet…, op.cit.: 435; L. Zanichelli: ‘Gergelylaki Buzlay Mózes milánói követjárása (1489)’, in: Gy. Domokos, N. Mátyus & A. Nuzzo (eds.): Vestigia. Mohács előtti magyar források olasz könyvtárakban, Piliscsaba: PPKE BTK, 2015: 129–130.↩︎

  7. F. Pulszky: ‘Bisticci Vespasiano Janus Pannoniusról és György kalocsai érsekről’, Budapesti Szemle 3, 1873: 5–6, p. 283; V. da Bisticci: Vite de Uomini Illustri del Secolo XV. Rivedute sui manoscritti da Ludovico Frati. Volume primo, Bologna: Romagnoli-Dall’Aqua, 1892: 248–249.↩︎

  8. V. Fraknói: Erdődi Bakócz Tamás élete, Budapest: Méhner Vilmos kiadása, 1889, 117–120; V. Fraknói: Magyarország egyházi és politikai összeköttetései a Római szent-székkel, Budapest: Szent István Társulat, 1902: 304–306.↩︎

  9. V. Fraknói, Erdődi Bakócz…, op.cit.: 118–120; per calcolare il numero delle persone del seguito, Fraknói si appoggia ad una relazione precedente, mandata da Segna a Venezia il 28 novembre 1511. Cita una nota dei Diarii di Marin Sanudo a proposito dell’alloggio romano di Bakóc.↩︎

  10. Il giorno dell’entrata fu identificato molto puntualmente da Stazio Gadio: “[…] fatto una bella entrata: marti proximo passato alli XXVII di jan […]”, Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, 860 (Roma), 1 febbraio 1512, 1r.; si conoscono inoltre, sullo stesso evento, le lettere di Ludovico da Fabriano del 31 gennaio 1512. I testi citati in ungherese da Fraknói coincidono con la lettera di Stazio Gadio, tanto che gli elementi comuni tra le relazioni di Gadio e di Fabriano potrebbero rimandare ad una possibile collaborazione tra i due. John Shearman, a proposito delle fonti relative all’entrata a Firenze di Leone X nel 1515, parla di un volume manoscritto della British Library, l’Harley 3462. Sembra che in questo libro siano redatti dei testi per il segretario di Francesco Gonzaga, a partire dalle relazioni di oratori gonzagheschi, tra cui Stazio Gadio. In questo volume compilativo, che risale al periodo 1500–1517 e riguarda questioni politiche, dinastiche e di celebrazioni, si potrebbero trovare ulteriori fonti con riferimento ungherese. J. Shearman: ‘The Florentine Entrata of Leo, 1515’, Journal of the Warburg and Courtauld Institutes 38, 1975: 138.↩︎

  11. Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, 860 (Roma), 2 febbraio 1512.↩︎

  12. Musée du Louvre, Inv. nr. Ma 93; A. Bertolotti: Artisti in Relazione coi Gonzaga Signori di Mantova. Ricerche e Studi negli Archivi Mantovani, Modena: Tipi di G.T. Vincenzi e nipoti, 1885. 70; H. H. Brummer: The Statue Court in the Vatican Belvedere, Stockholm: Almqvist & Wiksell, 1970: 191.↩︎

  13. Il bambino, dell’età di 10 anni, a partire dall’incarcerazione di suo padre, avvenuta a Venezia nel 1509, viveva alla corte pontificia praticamente come ostaggio. Cfr. R. Tamalio, Stazio Gadio, in: Dizionario biografico degli italiani (=DBI), LI Roma, 1998: https://www.treccani.it/enciclopedia/stazio-gadio_(Dizionario-Biografico)/ (consultato il 15 gennaio 2022). A. Modigliani: ‘Roma 1512. Echi del Concilio e vita di corte attraverso le lettere di Stazio Gadio’, in: M. Chiabò, R. Ronzani & A. M. Vitale (eds.): Egidio da Viterbo. Cardinale Agostiniano tra Roma e l’Europa del Rinascimento. Atti del Convegno. Viterbo 22–23. settembre 2012, Roma: Centro Culturale Agostiniano ‘Roma nel Rinascimento’, 2014: 191.↩︎

  14. Dopo la morte di papa Giulio II, Federico Gonzaga ottenne, dal collegio cardinalizio, il permesso di ritornare a Mantova. Sia lui che Stazio Gadio lasciarono quindi Roma.↩︎

  15. Ha lasciato una descrizione dettagliata anche delle esequie di papa Giulio II (lettera del 3 marzo 1513).↩︎

  16. Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, 860 (Roma), 2 febbraio 1512, 2v.↩︎

  17. Ivi,1r.↩︎

  18. Lettera di Ludovico da Fabriano a Ippolito d’Este, Roma, 30 gennaio 1512, 1r.↩︎

  19. Il termine “Popolo” indicato nel testo rimanda, con ogni probabilità, a Porta del Popolo, l’entrata di Roma per millecinquecento anni più importante venendo da Nord, fino alla sistemazione urbanistica dell’Ottocento; Ponte Milvio fu costruito nel 109 a.C. come prolungamento della Via Flaminia. Il nome originale “Mulvius” si trasforma col tempo in “Milvius”, nel Medioevo “Molbius” e “Mole”, anche oggi ci si riferisce come “Molle”, in: Roma. Guida d’Italia, Milano: Touring Club Italiano, 1999: 708.↩︎

  20. V. Fraknói, Erdődi Bakócz…, op.cit.: 117–118; EF Mlt Lad. 49. 3. 24. Documento notarile.↩︎

  21. Lettera di Stazio Gadio a Isabella d’Este-Gonzaga 3 febbraio 1512, 1r.; P. Fabbri: La moda italiana nel XV secolo. Abbigliamento e accessori. Rimini, Bookstones, 2017, 139.↩︎

  22. “Lo ingresso principiò con questo ordine: passorno prima LXXX mulli del papa con le coperte rosate con li festoni in mezo l’arma del papa seguiano dui à piedi vestiti de rosato con maze di legno argentate in mano che faceano far largo alla brigata che passava”: descrizione di Francesco Chiericato del 30 novembre 1515. In: J. Shearman: The Florentine…, op.cit.: 150.↩︎

  23. J. R. Mariotti: ‘Selections from a ledger of Cardinal Giovanni de’ Medici 1512–1513’, Nuovi Studi 9, 2001–2002: 119. L’incarico era integrato anche da altri capi: venti coperte per muli simili, quattro sedili in cremesino e un tessuto lungo rosso. Inoltre figura, tra gli ordini, anche una borsa in rosato.↩︎

  24. F. Nevola: ‘“El Papa non verrà”: The Failed Triumphal Entry of Leo X de’Medici into Siena’, The Sixteenth Century Journal 42/2: 426–446.↩︎

  25. M Collareta & D. Devoti (eds.): Tesori dalle chiese di Cortona. Arte Aurea Aretiana. Cortona, Palazzo Casali, 1987, 57–59; J. R. Mariotti: Selections…, op.cit.: 118;↩︎

  26. Hans Dernschwam, descrivendo il suo viaggio a Costantinopoli negli anni 1552–1555, ricorda i tempi di re Vladislao II (era venuto in Ungheria nel 1514, durante il regno di questo re, quando i signori ungheresi portavano ancora copricapi di pellame di zibellino e grandi piume), in: L. Tardy (ed.): Rabok, követek, kalmárok az Oszmán birodalomról, Budapest: Gondolat, 1977: 377.↩︎

  27. Lettera di Stazio Gadio ad Isabella d’Este Gonzaga, 3 febbraio 1512, 1v.↩︎

  28. E. Pásztor (ed.): Az Esterházy-kincstár textíliái az Iparművészeti Múzeum gyűjteményében. Thesaurus Domus Esterhazyanae II, Budapest: Iparművészeti Múzeum, 2010: 305.↩︎

  29. È possibile che si tratti di una variante del futuro dolmány e del mente senza manica, dove una delle maniche del dolmány viene decorata in questo modo. Per ulteriori dettagli si veda più avanti.↩︎

  30. L. Óváry: ‘A modenai és mantovai levéltári kutatásokról’, Századok 23, 1889: 395.↩︎

  31. Á. Szabó: Turca…, op.cit.↩︎

  32. “Alli quali seguiano II vestiti de rosato à cavallo con due maze di argento in mane: Et doppoi epsi LXXX scuderi del papa vestiti rosato, subsequendo ad epsi XL Camarieri pur di sua S.ta et vestiti al medemo modo” (J. Shearman: The Florentine…, op.cit.: 150).↩︎

  33. Lettera di Stazio Gadio a Isabella d’Este-Gonzaga, 3 febbraio 1512, 1v–2r.↩︎

  34. Lettera di Ludovico da Fabriano a Ippolito d’Este, Roma, 30 gennaio 1512, 1r.↩︎

  35. L. Tompos: ‘Példák a magyar férfiöltözék gombolásmódjának változataira a 16-tól a 20. századig’, Etnographia 17, 2006: 77–87.↩︎

  36. G. Butazzi: ‘Oriente e moda nel Rinascimento. Una proposta di ricerca’, Arte Tessile 1991/2: 5.↩︎

  37. L. Gorové: Eger történetei, Eger: Érseki Lyceum, 1876: 60; O. Bubryák: Családtörténet és reprezentáció. A galgóci Erdődy-várkastély gyűjteményei, Budapest: MTA BTK Művészettörténeti Intézet, 2013: 43.↩︎

  38. L. Tompos: ‘Oriental and Western Influences on Hungarian Attire in the 16th and 17th Centuries’, in: I. Gerelyes (ed.): Turkish Flowers. Studies on Ottoman Art in Hungary, Budapest: Hungarian National Museum, 2005: 91; L. Tompos: Hatások, Jelek, Irányok. A magyarországi öltözetek és jelentéstartalmuk változása a 16–20. században, Budapest: Martin Opitz, 2022: 17‒24.↩︎

  39. E. Pásztor (ed.): Az Esterházy-kincstár…, op.cit.: 306; L. Tompos: Oriental…, op.cit.: 91–92.↩︎

  40. L. Benkő (ed.): A magyar nyelv történeti etimológiai szótára 1, Budapest: Akadémiai Kiadó, 1967: 656; J. Nagy: ‘Mente. Adalékok a magyar és szász összehasonlító viselettörténeti kutatásokhoz’, Ethnographia 104, 1993: 14–15; J. Balogh: Mátyás-kori…, op.cit.: 16.↩︎

  41. Ibid. La parola ungherese dolmány, di origine turca-ottomana, si ritrova contemporaneamente anche nelle fonti italiane, come prestito, nella forma di tulimano. Da una lettera di un agente veneziano di Francesco Gonzaga veniamo a sapere, nel 1492, che il tulimano viene indossato sotto il casachie (un mantello lungo in uso a Venezia). In questo senso ha, quindi, una funzione analoga al dolmány ungherese. M. Bourne: ‘The Turban Turk in Renaissance Mantua: Francesco II Gonzaga’s Interest in Ottoman Fashion’, in: Ph. Jackson & G. Rebecchini (eds.): Mantova e il Rinascimento italiano. Studi in onore di David S. Chambers, Mantua: Sometti, 2011: 59. 62.↩︎

  42. L. Tompos: ‘Az Esterházy-kincstár öltözékei’, in: E. Pásztor (ed.): Az Esterházy-kincstár…, op.cit.: 73.↩︎

  43. Segna il numero nel database http://vestigia.hu/kereses/↩︎

  44. Il Concilio di Pisa del 1511 era stato convocato, per volontà di re Luigi XII di Francia, per intimidire papa Giulio II. Secondo l’accenno della lettera Bakóc avrebbe chiarito davanti al papa la posizione di Ippolito d’Este.↩︎

  45. Nella copia segnato allo stesso modo.↩︎

  46. Cardinal Federico Sanseverino (1472–1516), privato dal titolo di cardinale da parte di papa Giulio II per aver concorso al concilio pisano del 1511.↩︎

  47. I numeri inseriti nel testo sono, in verità, delle cifre che rimandano alle persone, i cui nomi sono stati aggiunti da un’altra mano.↩︎

  48. Luigi XII, re di Francia (1498–1515).↩︎

  49. Alemagna, i.e. Germania.↩︎