Verbum – Analecta Neolatina XXVI, 2025/1
ISSN 1588-4309; https://doi.org/10.59533/Verb.2025.26.1.6
Abstract: In the mid-16th century, the Count of Cassano, Giovanni Battista Castaldo was commissioned by King Ferdinand of Habsburg to take over Hungary from Queen Isabella Jagellone, who was forced to leave the country and retreat to Silesia. When Castaldo’s army, consisting of Spaniards, Hungarians, German speakers and Italians entered Transylvania, the language situation became even more complicated. The documents of the expedition (which also included the killing of Archbishop György Martinuzzi) are collected in a miscellaneous codex that ended up in the Biblioteca Ambrosiana, known as the Castaldo Codex. The languages and varieties recorded in the documents are a faithful mirror of the linguistic situation in this part of the world around 1550. Through transcribed and analysed portions of the text, an attempt is made to show how the analysis of language varieties can help historical research.
Keywords: language variation, 16th century, Hungarian history
Riassunto: Alla metà del Cinquecento il Conte di Cassano, Giovanni Battista Castaldo ebbe l’incarico da parte di Re Ferdinando d’Asburgo di prendere in consegna dalla Regina Isabella Jagellone il territorio dell’Ungheria, la quale fu sforzata a lasciare il paese e ritirarsi nella Slesia. Quando l’esercito guidato da Castaldo, costituito da Spagnoli, Ungheresi, Italiani e vari germanofoni entrò in Transilvania, la situazione linguistica divenne ancora più complicata. Vari documenti della spedizione transilvana (che conteneva anche l’uccisione dell’arcivescovo Giorgio Martinuzzi) sono custoditi in un codice miscellaneo che ora si trova alla Biblioteca Ambrosiana di Milano e viene chiamato il Codice Castaldo. Le lingue e le loro multiple varietà dei documenti sono uno specchio fedele della situazione linguistica in questa parte del mondo intorno al 1550. Tramite brani di testo trascritti ed analizzati si propone un tentativo di dimostrare che l’analisi linguistica può aiutare la ricerca storiografica.
Parole chiave: varietà linguistiche, Cinquecento, storia dell’Ungheria
Il codice miscellaneo G275inf della Veneranda Biblioteca Ambrosiana, detto Codice Castaldo, è un cimelio strano e complesso da affrontare. Si tratta di documenti della metà del Cinquecento, riuniti in maniera fortuita. Uno degli ostacoli nell’analizzare un insieme di documenti del genere è la molteplicità delle lingue adoperate nel dato periodo in Transilvania. Una volta catalogate le lingue un passo ulteriore può essere quello di esaminare anche le varietà interne di queste: in seguito proponiamo un tentativo in tal senso.
Innanzitutto al capoverso 1 si presenta il progetto di ricerca Vestigia che ha permesso la digitalizzazione e lo studio dei documenti. In seguito, al punto 2 si espongono gli estremi del codice, secondo lo stato attuale della ricerca. Al punto 3 si passa a commentare alcuni brani, scritti in latino, spagnolo, italiano e ungherese, secondo varietà diverse di questi. Infine, al punto 4 si traggono alcune conclusioni provvisorie per aprire la strada ad ulteriori ricerche.
Il nostro gruppo di ricerca, Vestigia, si è prefisso l’obiettivo di identificare fonti storiche con riferimento ungherese negli archivi e biblioteche dell’Italia. La gran parte dei documenti finora raccolti e consegnati in versione digitale alla banca dati degli ‘hungarica’ dell’Archivio Nazionale Ungherese è in latino o italiano – oppure una determinata varietà di queste lingue. Non molti degli storici ungheresi parlano italiano e la comprensione delle fonti storiche spesso richiede non solo conoscenze di storia e di paleografia, ma anche quelle della lingua del periodo e della città. Il punto di partenza obbligatorio per noi è stato la Collezione di Copie dell’Accademia Ungherese delle Scienze: per tutto il Novecento, l’opinione generale è stata che questa collezione fosse praticamente completa – anche se in Italia emergevano sempre nuove fonti ungheresi.
La nostra ricerca, infatti, non è priva di precedenti. Diversi storici ungheresi avevano svolto ricerche molto simili, certamente con gli strumenti che avevano a disposizione nella seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Il barone Albert Nyáry, emigrato in Italia dopo la rivoluzione e guerra d’indipendenza ungherese del 1848–49, a Modena, e più tardi Iván Nagy, anch’egli emigrato, a Venezia, e poi Vilmos Fraknói, Albert Berzeviczy e molti altri in tutta Italia, hanno cercato in maniera simile le fonti storiche, facendole copiare a mano. È così che è nata l’importantissima Collezione di Copie e, in base alle fonti, la fantastica collana di biografie storiche ungheresi. Tuttavia, con la Prima guerra mondiale, e più precisamente con l’entrata in guerra dell’Italia contro le potenze centrali nel 1915, il pacifico lavoro archivistico si interruppe bruscamente e la Collezione di Copie rimase incompiuta. Ancora oggi, negli archivi italiani, si trovano tracce del lavoro dei nostri predecessori: sottolineature, accenni, rimandi e fogli sparsi.
Il cosiddetto Codice Castaldo è conservato presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano.2 Va notato che la denominazione “codice” non è del tutto esatta per questa raccolta manoscritta, che è un insieme di documenti di carattere, stile, lingua e disegno diversi, con un elemento in comune: il proprietario originale, Giambattista Castaldo (1493–1563), il condottiero italiano generale imperiale, che fu il primo generale italiano dell’Impero.3 La raccolta di manoscritti detta Codice Castaldo offre uno sguardo sincronico della metà del Cinquecento sulle lingue e le varietà di queste lingue utilizzate per la comunicazione nell’Impero asburgico multietnico, con speciale riguardo alla Transilvania, dove la composizione della popolazione è ancora più variegata, dal punto di vista etnico, linguistico e religioso, fino ai nostri giorni.
Prima di analizzare i fatti, è necessaria un’osservazione generale. Per la natura della raccolta detta codice, essa contiene documenti privati, ufficiali e semiufficiali. Il linguaggio dei documenti ufficiali è controllato, nel senso che tende a conformarsi a una norma scritta e, in alcuni casi, a un determinato modello stilistico. Questo vale in particolare per le ordinanze della corte imperiale, redatte in latino presso la cancelleria viennese. Gli altri documenti, in parte lettere private e in parte “semiufficiali”, cioè prodotti ad hoc durante la campagna militare, non cercano di conformarsi ad alcuna norma linguistica, hanno esclusivamente scopo pratico e non badano alle sottigliezze del galateo o alle norme linguistiche (dove queste esistono già). Tra questi, per esempio il già menzionato inventario in lingua ungherese del castello di Déva, corrisponde all’uso “spontaneo” della lingua e ciò vale anche per diversi documenti italiani e spagnoli, destinati a registrare e trasmettere rapidamente informazioni. Gli autori di questi documenti avevano davanti ai loro occhi lettori che non erano sensibili alla forma linguistica. Tuttavia, anche per questi documenti ci può essere un punto di riferimento linguistico oppure latamente stilistico (nel caso delle lettere); può fungere come modello un documento precedente su un argomento simile o semplicemente si può far riferimento alla lingua parlata.
Più di 70 dei 129 documenti rilegati insieme nel Codice Castaldo4 si riferiscono agli eventi del biennio 1551–52, decisivo per la sorte dell’Ungheria e della Transilvania. Basti accennare a due eventi chiave che si riflettono nei documenti del nostro codice: il 19 luglio 1551, nel tentativo di unificare il Paese, avvenne il passaggio di poteri sul Regno di Ungheria e Transilvania dalla Casa di Szapolyai al re romano Ferdinando d’Asburgo. Nel dicembre dello stesso anno 1551, sospettato di eccessiva parzialità nei confronti dei Turchi, il vescovo di Várad, cardinal György Martinuzzi5 fu assassinato ad Alvinc. Questo evento provocò immediatamente la reazione del sultano turco Solimano, che fino ad allora era riuscito a controllare, direttamente o indirettamente attraverso il pagamento di tasse, gran parte del Paese. Dopo la vittoria della dinastia asburgica e la morte di Martinuzzi, gli eserciti di Solimano avrebbero invaso nuovamente la Transilvania nel 1556 e il Sultano avrebbe nominato principe di Transilvania János Zsigmond, figlio del defunto János I Szapolyai e Isabella Jagellone.
Tra le lingue del codice conviene accennare come prima il latino, mezzo di comunicazione ufficiale tra le corti e in questo periodo anche della letteratura umanistica in gran parte dell’Europa, Ungheria compresa.
Il primo esempio è tratto da una lettera di richiesta che alcuni soldati presentano a Giovanni Castaldo:7
La lingua della lettera esemplificata dal brano (1) rispecchia le formule consuete del latino aulico e baroccheggiante della prima età moderna, con corretto uso della morfologia e della sintassi per sottolineare in maniera complicata e circonlocuzione estremamente difficoltosa l’urgenza della richiesta. Nella frase citata troviamo infatti l’abbondanza degli attributi, di cui quattro superlativi (molestissimus, gravissimis, summa, clementissimam), l’obbligata opposizione (etsi…tamen…), la deferenza esagerata alla persona interpellata, come elementi stilistici di questo tipo di documento.
Sono in latino ovviamente i documenti provenienti dalla corte di Vienna ed indirizzati al Castaldo.
Nel brano (2) abbiamo un esempio di latino tecnico, con l’applicazione di formule fisse e precise (cum consilio consiliariorum bellicorum, regia eius Maiestas). È tipica la tendenza del raddoppiamento dei verbi e dei sostantivi (tractet et deliberet; magis utilia et proficua; deliberationem et resolutionem) che da una parte suggerisce una precisazione puntuale dall’altra rende solenne il discorso.
In un altro articolo dell’ordinanza leggiamo un interessante rimando all’assedio del castello di Eger che infatti si concluderà con la sconfitta dell’esercito turco:
Dal punto di vista stilistico notiamo che in (3) l’eleganza del latino ufficiale di corte è corroborata dall’utilizzo dell’Accusativus cum Infinitivo.
Questo stesso documento reca una postilla ovvero un post scriptum forse della mano di Ferdinando stesso, o per lo meno del suo segretario, ma in ogni caso recante la firma del futuro imperatore. La calligrafia non facile permette di decifrare almeno le parole iniziali:
Ci rendiamo conto subito che il re dei Romani e il generale Castaldo, pur utilizzando il latino per la comunicazione ufficiale, in quella più spontanea passano subito alla lingua che li lega insieme: lo spagnolo, senza badare alle sottigliezze stilistiche, grammaticali e di eleganza. L’assenza del grafema h nel predicato o la separazione della congiunzione porqué non è certo una rarità per l’epoca, quando una norma ortografica non è ancora concepita.
In luoghi più lontani dalla corte, senza cancellerie e cancellieri eruditi il latino sopravvive nelle formule. Per esempio a Székelyvásárhely,14 nella dieta del 1552 i decreti vengono ovviamente stesi nella lingua ufficiale cioè il latino:
Nella lingua, apparentemente quasi senza fallo di (5) però appare chiaro che si tratta di una formula, ripetuta di volta in volta. Il grafema c in congregacione, comunque, non lascia dubbio: si tratta di ripetizione a memoria dove l’ortografia secondo la norma classica conta poco. Nel testo, vergato con mano veloce (forse si tratta di un estratto o relazione per Castaldo, vista la collocazione del documento) appaiono chiaramente queste due caratteristiche: le formule (la ripetizione di Conclusus est oppure Item a ciascun capoverso) e l’ortografia vacillante.
Come cresce la distanza dai centri che tramandano la norma scritta e dove la comprensione della lingua latina è più sicura, troviamo le glosse: per l’ufficialità il testo dell’inventario dei beni del castello di Branyicska17 sono inventariati in latino, ma per sicurezza si traducono i termini meno alla mano:
Va detto che la parola wulgo che qui si riferisce alla lingua ungherese, scritta con il grafema w forse risente dell’ortografia tedesca del periodo. Ci troviamo infatti nella parte meridionale della Transilvania, dove i Sassoni introducono la scritturalità di lingua tedesca ben presto, e mentre v viene pronunciata [f] per una pronuncia [v] si adopera il grafema w. Certamente questa congettura è solo una supposizione che avrebbe bisogno di ulteriori argomenti.
Dopo questi brani di latino adattato all’uso locale, fatto di formule e ortografia incerta, abbiamo anche un bell’esempio di latino umanistico letterario: l’Epitaffio di Giorgio Martinuzzi, scritto da György Horváth.19 Kovács sottolinea che secondo la tradizione umanistica con numerosi antecedenti nella poesia latina, il morto parla qui in prima persona, ma anziché elencare le glorie e i vanti, si autoaccusa e diventa quasi una pasquinata satirica. Il vescovo Martinuzzi viene presentato dalla poesia latina ambizioso, violento, tirchio e fraudolente e conclude che l’assassinio è quasi una punizione di Dio.
Il latino di György Horváth è un chiaro esempio poetico che riprende modelli classici: a nostro avviso nel brano citato mea poena disce carere potrebbe essere di ascendenza ovidiana, per esempio (… et sola est patria poena carere mea, nell’Elegia IX di Tristia).
La presenza della lingua italiana è ovviamente motivata dall’origine dello stesso Castaldo (anche se, come abbiamo visto, con Ferdinando d’Asburgo la lingua di comunicazione diretta poteva essere lo spagnolo). I documenti da lui firmati sono in italiano, come anche quelli legati ai soldati provenienti dalla penisola italiana, tra cui quelli presenti all’assassinio del vescovo Martinuzzi, Marco Antonio Ferrari, il suo segretario traditore e il capitano Sforza Pallavicini.
Le liste di pagamento sono spesso in lingua italiana, come per esempio quella che contiene il seguente brano:
Notiamo in questa varietà dell’italiano due particolarità: la parola summa rispecchia l’uso notarile latineggiante, mentre la parola doi potrebbe rimandare per esempio alla provenienza campana-calabrese di chi scrive.
Oltre all’italiano utilizzato senza pretese letterarie o culturali in genere, abbiamo nel Codice Castaldo un esempio egregio di una lettera di una sovrana. Isabella Jagellone, la regina vedova d’Ungheria,22 parlava italiano e in una lettera23 conservata nel codice si rivolgeva personalmente a Castaldo in quella lingua, chiamandolo suo protettore.
Illustrissimo Signor, ritornando da vostra signoria Poancha suo servidore non habbiamo volsuto manccare visitarla con questa nostra e pergarmola che sempre gli fia commoda farne avisata del ben esser suo, non voglia maccare di farlo assicurandola che tanto ni sarà grato questo e più come se al presente havessimo da la maestà del serenissimo de Romani tutto quello è tenuta di darne, perché di quello siamo sicurissimo che sempre havremo vostra signoria per protettore nostro, non mancherà di esserne dato, ma de la salute sua non habbiamo quella certezza che noi desidereriamo de havere, de la quale rendasi vostra signoria sicura che così siamo curiose come siamo del nostro illustrissimo figlio, per non dirmo più, la quale desideriamo al pari de la vita. Procuri adonque vostra signoria di sta sana con tenere memoria di noi e viva felice e longa vita. Da Crzepicze, ali IIII di giugno 1553.
Di vostra signoria, como sorella,
Ysabella24
Isabella era nipote del duca di Milano, figlia di Bona Sforza e di re Sigismondo Jagellone di Polonia ed era cresciuta a Cracovia in un ambiente di lingua italiana.25 Detto questo, la sua corrispondenza ha uno stile personale e il linguaggio, anche se formulativo, rivela una cancelleria spontanea e incontrollata. La regina, praticamente esiliata dal Regno d’Ungheria e compensata con il piccolo Ducato di Opole e Ratibor, scrive al suo “mecenate” in modo amichevole, chiedendo notizie sulla sua salute e dicendo che spera nella sua protezione personale. Le frasi non habbiamo volsuto manccare (‘non abbiamo voluto omettere’), desideriamo al pari della vita (‘desideriamo immensamente’) e simili sono tra le frasi familiari delle lettere private.
Come accennato già sopra, la partecipazione di italiani e spagnoli all’assassinio di Giorgio Martinuzzi è un dato di fatto. Gli elenchi dei beni, inventariati nello stesso giorno della morte, dopo la quale il cadavere verrà lasciato sul pavimento del castello di Alvinc per settanta giorni, sono una prova di questo coinvolgimento.
Leggendo questa “nota” in (10) balza subito all’occhio la degeminazione spontanea di pezeti picoli e di piati, per cui si pensa che qui abbiamo a che fare con un italiano del Nord. Le forme trediece e horologio a noi sembrano casi di ipercorrettismo, cioè di restituzione di forme supposte, inesistenti, nell’intento di adeguarsi ad una norma linguistica non del tutto cosciente.
La “nota” marcata come (11) è traccia dell’azione di recupero dei tesori del frate per conto dell’ufficiale inviata dalla Corte di Vienna.
Il brano (11) porta sostanzialmente le stesse caratteristiche viste in (10) per quanto riguarda la lingua, anche se la degeminazione in piate e mulatieri è controbilanciata felicemente da casi come detto, quarantotto, commissario, mille. Comunque la forma trecenti ci pare un ipercorrettismo e in tutto il documento l’articolo maschile plurale ha la forma li. Il numerale doi sembra contraddire alla supposta origine settentrionale di chi ha vergato la nota.
Per quanto riguarda la lingua spagnola, in (4) abbiamo visto già un esempio di code-switching del re dei Romani Ferdinando d’Asburgo quando passa dalla comunicazione ufficiale a quella diretta con il suo generale Giovanni Battista Castaldo.
Similmente a suo padre, Ferdinando I d’Asburgo, anche il re dei Romani e futuro imperatore Massimiliano II d’Asburgo (per Boemia e Ungheria: Massimiliano I) era poliglotta. La sua lettera indirizzata al Castaldo conserva l’usanza di scrivergli in spagnolo:
Possiamo osservare le caratteristiche ortografiche dell’epoca: il grafema x per il fonema [x] e la mancanza degli accenti. Un’interessante coincidenza lega questa breve raccomandazione alla lettera italiana di Isabella Jagellone citata in (9): la formula no he querido dexar corrisponde letteralmente a non habbiamo volsuto manccare.
Comunque, non può mancare nemmeno per lo spagnolo lo strato tecnico degli inventari di castello. Una lingua con pretese decisamente più basse e un’ortografia meno controllata del sovrano:
Las bituallas que el comisario Diego de Azebes allò en el castillo de Oybar son la siguientes […] henero de mill y quinientos zinquenta y dos años.
Arina
En una caxa de harina que sta en entrando la puerta principal sobre mano derecha az mesuras 325
En este mesmo lugar az otra caxa de arina desvelta que tiene mesuras diez y seis.29
Ci si potrebbe chiedere quale castello viene qui inventariato con la denominazione Oybar. Anche se è difficile da riconoscere, la storiografia ci aiuta: si tratta di (Szamos)újvár (oggi: Gherla, Romania), e notiamo subito che la pronuncia labiale [β] di [v] e [b] rende insicura la resa grafica del toponimo straniero. Una caratteristica ricorrente della scritture dei semicolti è l’oscillazione dell’ortografia: arina e harina significano ovviamente ‘farina’ ambedue, ma la [h] muta non necessariamente si scrive, mentre a volte si ricorre all’ipercorrettismo come in henero. Così, anche il probabile fonema [θ] di cincuenta si scrive con il grafema z in (13).
I testi in tedesco non sono molti e la paleografia rende difficile l’accesso ad essi. In (6) abbiamo cercato di mettere in evidenza una possibile interferenza dal tedesco alla resa grafica del latino: è tutto da confermare.
L’inventario del castello di Déva30 è scritto invece interamente in ungherese, ed è pure legato all’attività di Castaldo in Transilvania. La scelta della lingua è giustificata dal fatto che le persone coinvolte nel passaggio di proprietà del castello erano ambedue ungheresi: János Fáncsy era stato il capitano leale alla regina Isabella e György Kapitány il commissario incaricato da parte del re dei Romani Ferdinando d’Asburgo. La datazione del documento indica solo l’anno (1552). L’elenco sembra essere stato compilato passando in rassegna i vari magazzini: le cantine “prima”, “seconda” e “terza” che contengono vino, cavoli, carne e grano, seguiti da piccole attrezzature militari: mortai, cannoni, carrucole, corde, tamburi, lucchetti, polvere da sparo, palle di cannone. Infine, sono inclusi nell’inventario utensili da cucina, lanterne e candelabri.
Ovviamente, l’ungherese non dispone di una norma ancora. Anche se nella lontana Sárvár, nel Transdanubio ancora libero dalle incursioni turche, il maestro János Sylvester stampa, oltre alla traduzione della Bibbia anche una Grammatica Hungarolatina come primo tentativo scientifico di descrivere l’ungherese, le sue categorie non riguardano l’ortografia che si formerà solo nei secoli a venire.
In (14) possiamo osservare un’oscillazione simile al testo spagnolo (13): il fonema [œ] viene reso ora con eo (elseo, eoth), ora con eö (eöth), il fonema [dj] ora con gi (vagion) ora con ǵ (neǵ, eǵetembe) ed ora con gy come nell’ungherese moderno (negy), a [ts] corrisponde cz (pinczeben, harmincz) oppure c come nell’ungherese moderno (kilencwen), [s] corrisponde a z in kapazta ed a sz in szalanna e anche lo stesso fomena [v] viene scritto ora con v (vagion) e ora con w (wagion, hetwen, kilencwen).
I nostri dati non ci permettono di trarre delle conclusioni che portino lontano. Possiamo solo stabilire che alla metà del Cinquecento le varie lingue rappresentate nel Codice Castaldo che per le circostanze storiche ne contiene diverse, lottano tutte con l’ortografia e subiscono continue influenze dagli altri idiomi. Queste influenze oltre che lessicali (che sembrano ovviamente necessarie in una situazione storica con scambi ed interferenze in tutti i campi della vita) arrivano anche al livello della grafia ma non intaccano l’assetto vero e proprio delle varie lingue: la morfologia e la sintassi. La descrizione, l’analisi e l’eventuale edizione dei testi del nostro codice, importanti per la storiografia, potranno gettare luce sulle tendenze delle vicendevoli influenze linguistiche della Transilvania del Cinquecento, crogiuolo di popoli, lingue, religioni e culture.
Carpentieri, Ch. M. (2012): Ungheria 1551–1552. Nuovi possibili spunti sulle campagne imperiali contro il turco tratti dal codice ambrosiano G 275 inf. Verbum Analecta Neolatina XIII/2: 464–476.
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Carpentieri, Ch. M. (2015): Minima hungarica Jegyzetek a lombardiai könyvtárakban őrzött, magyar vonatkozású XV–XVII. századi kéziratokról és nyomtatványokról [Appunti sui manoscritti e stampe dei secoli 15–17 con riferimenti all’Ungheria, custoditi nelle biblioteche della Lombardia]. In: Domokos et al. (2015: 31−46).
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Hegedűs, A. & L. Papp (a cura di) (1991): Középkori leveleink [Le nostre lettere medievali]. Budapest: Tankönyvkiadó.
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Kovács, Zs. (2012−2013). Horváth György: Fráter György epitáfiuma [L’epitaffio di Frate György] (Milano, Biblioteca Ambrosiana, G 275 inf. ff . 181r–182r). Lymbus: 51−56.
Kőszeghy, P. (a cura di) (2012): Magyar művelődéstörténeti lexikon [Lexicon della storia della civiltà ungherese], 14 voll. Budapest: Balassi Kiadó, 2012.
Senatore, G. (1887): Della patria di Gio. Battista Castaldo (generalissimo di Carlo V), Napoli: A. Valle.
La Ricerca e il presente saggio sono stati realizzati grazie al sostegno del fondo di ricerca del Gruppo di ricerca Vestigia n. PPKE-BTK-KUT-23-5, fornito dalla Facoltà di Lettere e Scienze Sociali dell’Università Cattolica Péter Pázmány.↩︎
Cfr.: A. Ceruti: Inventario Ceruti dei manoscritti della Biblioteca Ambrosiana, II, Trezzano sul Naviglio: Etimar, 1975: 188–189; Zsuzsa Kovács: ‘Castaldo-kódex’, in: P. Kőszeghy (ed.): Magyar művelődéstörténeti lexikon, vol. XIII, Budapest: Balassi Kiadó, 2012, 345–346; Gy. Domokos & A. Hegedűs: ‘A Castaldo-kódex és a benne található magyar nyelvű forrás’ [‘Il Codice Castaldo e la fonte di lingua ungherese che contiene’], Magyar Nyelv 119, 2023: 122–127.↩︎
Sulla vita di Castaldo, ancora fondamentale: M. D’Ayala: Vita di Giambattista Castaldo, famosissimo guerriero del XVI secolo, in Archivio Storico Italiano, vol. V, 1867, 103–104; G. De Caro, ‘Castaldo, Giovanni’, in: Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 21 (Roma, 1978), 562–566.↩︎
Una fondamentale rassegna dei contenuti del codice: Ch. M. Carpentieri: ‘Ungheria 1551–1552: nuovi possibili spunti sulle campagne imperiali contro il Turco tratti dal codice Ambrosiano G 275 inf.’, Verbum 13, 2012: 464–476.↩︎
La monografia più recente sulla figura del Martinuzzi: T. Oborni: Az ördöngös barát [Il frate diabolico], Pécs, 2017.↩︎
Il presente articolo porta avanti l’analisi linguistica iniziata in occasione del VI. convegno Scriptorium di Veszprém i cui atti sono ancora in corso di stampa: Domokos (2024).↩︎
I brani citati vengono trascritti seguendo i criteri consueti: dove mancano, si introducono divisioni di parole, maiuscole, accenti e apostrofi secondo l’ortografia moderna; dove però la comprensione non è compromessa dalle forme antiquate, queste si mantengono.↩︎
VBA G275 inf, 2r.↩︎
L’odierna Szolnok (Ungheria).↩︎
Ivi, 5v–6r. Il documento da cui è tratto il brano reca il titolo Deliberatio et resolutio sacrae Romanorum Hungariae Bohemiae et cetera regiae maestatis domini nostri in articulis per marchionem Cassani (4r–7r).↩︎
Il toponimo latino Agria corrisponde all’odierna città di Eger (Ungheria).↩︎
Ivi, 11r.↩︎
Ivi, 14r.↩︎
Székelyvásárhely, o più modernamente Marosvásárhely corrisponde all’odierna Târgu Mureş (Romania).↩︎
Corrisponde a Székelyvásárhely (v. sopra).↩︎
Ivi, 163r.↩︎
Oggi Brănișca (Romania).↩︎
Ivi, 62r.↩︎
VBA G275 inf, 181r–182v. Il testo è stato pubblicato e analizzato stilisticamente da Zsuzsa Kovács (2012).↩︎
Kovács 2012: 54.↩︎
VBA G275 inf, 190r.↩︎
Á. Máté & T. Oborni: Isabella Jagiellon, Queen of Hungary (1539–1559), Budapest 2020, con speciale riguardo al saggio di M. F. Molnár: Isabella and her Italian Connections, 163–172.↩︎
VBA G275 inf, 73r–74v. Il testo della lettera si trova nel saggio di Chiara Maria Carpentieri (2012).↩︎
VBA G275 inf, 73r. Isabella Jagellone, Lettera a Giovanni Battista Castaldo, Krzepice, 4 giugno 1553.↩︎
A proposito delle isole italofone dell’Europa Centrale in epoca rinascimentale cfr. Gy. Domokos: ‘La “Little Italy” di fine Quattrocento a Esztergom e Buda’, Studia Scientifica Facultatis Paedagogicae Universitatis Catholicae in Ruzomberok XVIII/2, 2019: 106–115.↩︎
VBA, G275, 86r.↩︎
Ivi, 192r.↩︎
Ivi, 206r.↩︎
Ivi, 262r.↩︎
Ivi, 133r–137v. Il testo completo dell’inventario è stato pubblicato come dati di storia linguistica con Attila Hegedűs nel Magyar Nyelv (Domokos & Hegedűs 2023).↩︎
‘Nella prima cantina ci sono sedici barili di vino. Nella seconda cantina ci sono dodici barili di vino e quattro barili di cavoli. Nella terza cantina ci sono cinque barili di vino. Di lardo, ce ne sono novantacinque. Di prosciutto, ottantaquattro. Di spalle di maiale con la testa settanta. Di spalle di maiale, assieme alla testa, ne abbiamo settanta. Di grasso ce n’è trentaquattro.’↩︎