Verbum – Analecta Neolatina XXV, 2024/2
ISSN 1588-4309; https://doi.org/10.59533/Verb.2024.25.2.8
Abstract: The interaction between linguistic and social change is a very important area of research in sociolinguistics. Certain elements of the language system are considered to be a reflection of social relations, when these are subject to change, their linguistic representations may also undergo changes. In turn, the language system and its use have an impact on society. In recent decades, the dynamics of this two-way interaction is evidenced in Italian morphology by the use of the gender of professional nouns, which are closely influenced by certain social transformations. To prove this, in my article I will present an extremely current case: the debate created around the choice of Giorgia Meloni, the first woman Prime Minister in Italian history, to be called il Presidente del Consiglio (masculine form). The article will show how this choice is reflected in various online newspapers and other social media platforms, confirming how changes in society can influence the linguistic system itself and how the resulting change becomes part of the accepted linguistic norm.
Keywords: professional nouns, morphology, language policy, grammatical gender, feminines
Abstract: L’interazione tra cambiamento linguistico e sociale è un’area di ricerca molto importante nell’ambito della sociolinguistica. Certi elementi del sistema linguistico sono considerati un riflesso delle relazioni sociali; quando queste ultime sono soggette a cambiamenti, anche le loro rappresentazioni linguistiche possono subire modifiche. Allo stesso tempo il sistema linguistico e il suo uso hanno un impatto sulla società. Negli ultimi decenni la dinamica di quest’interazione biunivoca è comprovata anche nell’ambito della morfologia italiana, soprattutto per quanto riguarda l’uso del genere dei nomi di professione, che sono strettamente influenzati da alcune trasformazioni sociali. A dimostrazione di ciò, nel mio articolo presenterò un caso di estrema attualità: il dibattito creatosi attorno alla scelta di Giorgia Meloni, prima donna Presidente del Consiglio nella storia d’Italia, di essere chiamata il Presidente del Consiglio. Nell’articolo verrà mostrato come questa scelta si rifletta in vari giornali online e altre piattaforme di social media, a conferma del fatto che i cambiamenti nella società possono influenzare il sistema linguistico stesso e di come, poi, il cambiamento conseguente diventi parte della norma linguistica accettata.
Parole chiave: nomi di professione, morfologia, politica linguistica, genere grammaticale, femminile
Dopo che il partito Fratelli d’Italia ha vinto le elezioni parlamentari del settembre del 2022, la presidente del partito, Giorgia Meloni, ha accettato l’incarico conferitole dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per formare il nuovo governo. Il 22 ottobre 2022 ha prestato giuramento come nuova presidente del Consiglio, quindi, è diventata la prima donna a ricoprire la carica di Presidente del Consiglio dei Ministri in Italia. Questa nuova situazione sul piano politico ha portato con sé un problema di tipo linguistico che in quei giorni è stato particolarmente rilevante e lo è ancora oggi: qual è l’appellativo corretto da utilizzare nei confronti di Giorgia Meloni?
La polemica intorno a questa problematica è iniziata con una circolare inviata da Carlo Deodato, Segretario Generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, a tutti i ministeri. Nel documento si legge:
Per opportuna informazione si comunica che l’appellativo da utilizzare per il Presidente del Consiglio dei Ministri è: ‘Il Signor Presidente del Consiglio dei Ministri, On. Giorgia Meloni’. (Pagella Politica, 13 marzo 2022)
Poco dopo la pubblicazione della succitata circolare, è stata apportata una modifica nella dicitura: Il Presidente del Consiglio dei Ministri, ha sostituito Il Signor Presidente del Consiglio dei Ministri.1 Secondo la Presidenza del Consiglio l’appellativo corretto da utilizzare è, quindi, la forma maschile: il titolo Presidente preceduto dall’articolo determinativo al maschile il e non da quello al femminile la. La scelta della nuova presidente ha suscitato subito polemiche, perché concerne un uso del linguaggio che potrebbe essere discriminatorio nei confronti delle donne. Molti hanno ritenuto che la Meloni avesse rivelato la sua posizione sul dibattito intorno al linguaggio di genere.
Anche l’Accademia della Crusca ha reagito alla pubblicazione della summenzionata comunicazione ufficiale, l’allora presidente dell’istituzione, Claudio Marazzini, ha sottolineato che l’uso del termine Signore per indicare una donna non è corretto. In seguito, egli ha spiegato all’AdnKronos (il 22 ottobre 2022) che i titoli al femminile sono legittimi sempre e, a questo proposito, Marazzini propone tre opzioni possibili: la presidente (non la presidentessa), la premier (che valuta come inutile forestierismo), la prima ministra. Tali forme femminili, secondo Marazzini, sono corrette e utilizzate da molti ma, allo stesso tempo, non è un errore grammaticale usare la tradizionale forma maschile cioè il presidente, poiché queste oscillazioni linguistiche sono sempre presenti in una lingua. Successivamente aggiunge:
[…] personalmente, credo che continuerò a chiamare la Meloni ‘la presidente del Consiglio dei ministri’; ma se la dovessi incontrare in visita all’Accademia della Crusca, nell’interlocuzione diretta non avrei nessun dubbio nell’adottare il maschile, per una doverosa forma di rispetto verso le sue preferenze, in un’occasione in cui si impongono doveri di ospitalità. Anche perché non si tratta di una scelta agrammaticale o antigrammaticale, ma semplicemente di un uso tradizionale, magari minoritario negli ultimi anni, ma ben radicato nel passato della lingua. (AdnKronos, 24 ottobre 2022)
Nonostante l’Accademia della Crusca sostenga che la forma femminile più appropriata sia la presidente, questa rimane una raccomandazione di carattere generale che non deve essere necessariamente accettata. Oltre all’ex presidente della Crusca, sono intervenuti, tra gli altri, l’Usigrai, il sindacato dei giornalisti della Rai e anche Laura Boldrini, l’ex presidente della Camera dei deputati, che hanno espresso il loro dissenso riguardo all’uso del maschile in riferimento a una donna. Secondo l’Usigrai, sarebbe corretto riferirsi a Giorgia Meloni utilizzando la forma femminile la Presidente, anche se nelle comunicazioni ufficiali si usa quella maschile il Presidente.
La stessa Meloni ha espresso il suo punto di vista sull’argomento a più riprese. La seguente citazione è tratta da un post su Instagram del 28 ottobre 2022, in cui la presidente, rispetto a questo dibattito linguistico, afferma di avere cose più importanti di cui occuparsi:
Leggo che il principale tema di discussione di oggi sarebbe su circolari burocratiche interne, più o meno sbagliate, attorno al grande tema di come definire la prima donna Presidente del Consiglio. Fate pure. Io mi sto occupando di bollette, tasse, lavoro, certezza della pena, manovra di bilancio. Per come la vedo io, potete chiamarmi come credete, anche Giorgia.
Con questa dichiarazione, la Presidente ha reso chiaro a tutti che la questione del linguaggio di genere non ha un posto privilegiato nella sua politica. Il motivo per cui la prima ministra preferisce la forma maschile, o il fatto che le problematiche relative alla formazione delle forme femminili dei nomi di professioni o di titoli siano oggetto di un acceso dibattito sia da parte dei linguisti che da parte dei parlanti, meritano un’analisi attenta, in cui vengono presi in considerazione i fattori intralinguistici ed extralinguistici.
Secondo Corbett (1991: 1) il genere è la più sconcertante delle categorie grammaticali. È un argomento che interessa sia i linguisti che i non linguisti e diventa tanto più affascinante quanto più viene indagato. In alcune lingue il genere è centrale e pervasivo, mentre in altre è totalmente assente. Una delle caratteristiche che attraggono i linguisti è che lo studio del genere presenta aspetti interessanti in ciascuna delle aree principali della linguistica.
Proprio perché, nella lingua italiana, una delle categorie grammaticali è il genere, ogni nome deve avere un genere grammaticale che può essere maschile o femminile. Nel caso dei nomi che indicano referenti non animati, il genere rimane una categoria puramente grammaticale, una convenzione linguistica. Diversa è, invece, la questione per i nomi designanti esseri animati, soprattutto nel caso di nomi che indicano esseri umani, per i quali è possibile indicare l’appartenenza al genere biologico, ovvero esiste, in generale, una corrispondenza tra sesso e genere grammaticale (cf. Gygax et al. 2019), ma si possono trovare delle eccezioni. Come afferma Thornton (2004: 219), la non congruenza tra il genere di una parola e il sesso del suo referente si verifica in alcuni casi di nomi designanti ruoli o professioni, ad esempio una vittima puó indicare un uomo; una guardia e una sentinella possono essere comunemente uomini, un soprano invece si riferisce tipicamente a una donna (cf. Dardano & Trifone 1995: 173). Thornton (2004: 219) sottolinea, inoltre, che è possibile utilizzare nomi d’agente maschili anche per riferirsi a donne che svolgono determinati ruoli. Questo tipo di non congruenza fra genere referenziale e genere grammaticale, secondo Robustelli (2010: 13), provoca difficoltà di tipo morfosintattico, testuale e interpretativo.
Oltre all’assegnazione del genere a nomi con referente umano, anche il fenomeno dell’accordo è una questione particolarmente importante. Secondo la definizione più comunemente accettata oggi, i generi grammaticali sono classi di nomi riflesse nel comportamento delle parole ad essi associate (cf. Corbett 1991: 1). Questa definizione mette in evidenza che il genere grammaticale non è semplicemente una proprietà intrinseca dei nomi, ma si manifesta principalmente attraverso il modo in cui le parole che si riferiscono a questi nomi (come articoli, aggettivi, pronomi e participi) si accordano ad essi.
Il fenomeno dell’accordo grammaticale in riferimento ai nomi con referente umano è un aspetto fondamentale nella grammatica delle lingue che prevedono la distinzione di genere. Il nome con un referente umano diventa il controllore dell’accordo. Ciò significa che esso determina il genere degli altri elementi della frase. Questi elementi, detti target, devono necessariamente accordarsi in genere con il nome controllore per mantenere la coerenza all’interno della frase. Il genere in italiano si manifesta su diversi target di accordo, come articoli e altri determinanti, aggettivi, pronomi, participi passati nelle forme composte con l’ausiliare essere, si verifica anche nelle forme composte con l’ausiliare avere quando l’oggetto diretto è rappresentato da un clitico (cf. Thornton 2022: 18).
In molti casi, l’accordo può seguire il genere grammaticale del nome (accordo sintattico), mentre in altri può prevalere il genere del referente (accordo semantico). Nel caso dei nomi ibridi, invece, le proprietà morfologiche e semantiche sono in conflitto tra loro, e Corbett (2006: 207) ha dimostrato che la probabilità che si manifesti accordo sintattico o semantico dipende da vari fattori, tra cui il tipo di target e la sua posizione nella cosiddetta Agreement hierarchy (attributo > predicato > pronome relativo > pronome personale). La gerarchia dell’accordo esprime un principio fondamentale riguardante il tipo di accordo che ci si aspetta in diverse posizioni sintattiche. La restrizione afferma che se un determinato controllore permette accordi alternativi, allora, man mano che si va verso destra lungo la gerarchia, aumenta la probabilità che l’accordo si basi su giustificazioni semantiche piuttosto che formali. In altre parole, in posizioni più a destra nella gerarchia, l’accordo semantico sarà più probabile rispetto a un accordo puramente formale. Ad esempio, nei casi di nomi ibridi, come professioni o titoli usati per riferirsi a persone di genere diverso rispetto a quello implicito nel nome stesso, potremmo osservare un accordo semantico con i pronomi, ma un accordo sintattico con gli articoli o gli aggettivi vicini al nome (cf. Thornton 2022: 24).
Nella lingua italiana, per la formazione del femminile da nomi maschili con referente umano, cioè da forme lemmatizzate al maschile nei dizionari, non è sempre sufficiente mutare la desinenza da –o ad –a, ma vengono usati anche affissi flessivi e derivazionali vari (cf. Lavinio 2021: 37). Come tutti i nomi, anche quelli designanti professioni e cariche seguono gli schemi tipici della morfologia italiana (cf. Robustelli 2023), ed esistono mezzi morfologici diversi per indicare la differenza di sesso.
Secondo Thornton (2022) è importante sottolineare una distinzione sostanziale, cioè i valori di genere nei nomi italiani sono solo due, maschile e femminile, ma esistono diversi tipi di nomi che presentano comportamenti differenti in relazione al genere e al rapporto con il sesso del referente. I tipi di nomi che esibiscono tali differenze sono più numerosi dei semplici valori di genere, e possono essere classificati nel modo seguente: si distinguono le classi di nomi epiceni e non epiceni. Quelli epiceni sono nomi che hanno una sola forma, indipendentemente dal genere del referente (la persona, la vittima, il personaggio, l’ostaggio). Quelli non epiceni si suddividono ulteriormente in nomi di genere comune e non di genere comune. Le forme maschili e femminili della classe di genere comune sono le stesse, distinguendo il genere solo tramite l’articolo o il contesto, ad esempio il/la cantante, il/ la giornalista, il/la presidente. Tra la classe dei nomi non di genere comune, vi sono nomi indipendenti o eteronimi che hanno forme completamente diverse per maschile e femminile, ad esempio l’uomo/la donna, il padre/la madre, il fratello/la sorella. I nomi non indipendenti o non eteronimi possono essere suddivisi in simmetrici e non simmetrici: quelli simmetrici hanno forme maschili e femminili diverse ma parallele, come ad esempio il ragazzo/la ragazza, il maestro/la maestra, il cameriere/la cameriera, il pittore/la pittrice; mentre le forme maschili e femminili dei nomi non simmetrici non seguono uno schema di perfetta simmetria, come nel caso di il professore/la professoressa, lo zar/la zarina.
Dopo una breve riflessione (cap. 1.2) sui mezzi morfologici indicanti la differenza di sesso, sembra evidente che le forme femminili dei nomi di professioni e cariche sono previste dalla morfologia e, quindi, non sono elementi estranei alla struttura della lingua. Tuttavia, l’acceso dibattito che si è sviluppato intorno alla questione dimostra che gli aspetti puramente linguistici e quelli sociali, culturali e politici si intrecciano.
A partire dalla Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ma non solo, sono diverse le polemiche scoppiate su quello che è il linguaggio di genere: ne è un esempio il caso di Beatrice Venezi che, al festival di Sanremo 2021, ha espresso la sua preferenza per l’appellativo maschile direttore d’orchestra al posto della forma femminile direttrice d’orchestra (“Non chiamatemi direttrice”). Ciò mostra che i nomi professionali costituiscono un campo caratterizzato da “discontinuità e oscillazioni” che sono influenzati spesso da fattori extralinguistici. È un tema “denso di implicazioni sociali, comunicative, psicologiche e giuridiche, nonché linguisticamente difficile” (cf. Frati 2023), tanto che, spesso, gli stessi accademici della Crusca sono in disaccordo su questo argomento. La prima donna presidente dell’Accademia, Nicoletta Maraschio, nel 2008 ha espresso al Sole 24 ore il suo parere, con cui dà legittimità piena alla forma femminile:
Essere la presidente è una buona soluzione, favorita da forme analoghe di grande diffusione, anche se non del tutto sovrapponibili, come la preside, la cantante, e per di più in diretta continuità, per quanto mi riguarda, con il titolo la vicepresidente che ho avuto a lungo. La lingua italiana consente, in questo caso, una soluzione semplice e per così dire trasparente e naturale di un problema, quello del riassestamento maschile-femminile nei nomi professionali; bastano infatti l’articolo (maschile o femminile) e l’eventuale accordo (una presidente impegnata / un presidente impegnato) a definire, insieme, il genere e la funzione.
Thornton (2004: 219) afferma che le forme femminili, in questo caso, vengono utilizzate quando i parlanti stessi ritengono utile, necessario o auspicabile la corrispondenza tra genere del nome e sesso del suo referente. Ciò si realizza nelle professioni che in passato erano solitamente svolte solo da uomini e che oggi sono, invece, svolte anche da donne, quindi i termini associati ad alcune professioni richiedono nuovi equivalenti femminili.
Secondo Robustelli (2010: 1), il fatto che le forme femminili dei nomi professionali siano forme corrette che seguono i meccanismi regolari della formazione delle parole in italiano rende ovvio che le ragioni per cui si preferiscono le forme maschili non sono morfosintattiche o lessicali, ma di tipo sociolinguistico a causa dei cambiamenti sociali, più specificamente cambiamenti dello status sociale della donna, che ha ora la possibilità di ricoprire nuovi ruoli, prima accessibili solo agli uomini.
Proprio a causa di questi mutamenti sociali e culturali, la costruzione delle forme femminili dei nomi di professione è diventata oggetto di controversie negli ultimi decenni. Il dibattito sull’argomento interessa i linguisti e i responsabili delle politiche linguistiche da quasi quattro decenni e la soluzione di tale divario linguistico è diventata rapidamente una questione anche politica. La polemica su questo problema è innegabilmente attuale perché riguarda un uso del linguaggio che può avere un effetto discriminatorio sulle donne, e ciò può presentarsi nella struttura e nell’uso della lingua. Secondo Latos (2017: 55), “l’uso degli agentivi è stato, fin da subito, considerato un esempio tipico di dissimetria linguistica, sia grammaticale che semantica. Tali dissimetrie, presenti nel linguaggio, sono il segno di una discriminazione nel modo di rappresentare la donna rispetto all’uomo attraverso l’uso della lingua.”
A partire dagli anni Ottanta, su iniziativa delle istituzioni pubbliche italiane, vari studi sono stati pubblicati sul sessismo linguistico. Tra questi, l’opera di Alma Sabatini, Il sessismo nella lingua italiana, pubblicata nel 1987, è un contributo importante, in cui l’autrice ha proposto un sistema bipolare: ogni termine ha sia una forma femminile che una maschile. Sabatini ha osservato che sebbene molte parole in italiano avessero già una forma femminile fissa, come per i ruoli più tradizionali legati alla sfera domestica o familiare, i termini riferiti alle professioni e agli incarichi pubblici spesso mancavano di equivalenti femminili o, se esistevano, erano raramente utilizzati. La sua proposta mirava a riequilibrare questa disparità attraverso la creazione di forme femminili per le professioni e i ruoli di prestigio tradizionalmente associati al genere maschile, e attraverso l’idea che l’uso sistematico di queste forme femminili avrebbe contribuito a eliminare i pregiudizi legati al genere, favorendo una maggiore visibilità e riconoscimento del ruolo delle donne nella società (cf. Sabatini 1987). Nonostante l’importante contributo di Sabatini e il progresso fatto in alcune aree, il problema delle forme femminili dei nomi di professione non è stato ancora completamente risolto. Il dibattito continua ad essere alimentato da questioni legate all’identità di genere, alla parità e all’evoluzione della lingua. Da una parte, ci sono spinte verso una maggiore inclusività e visibilità delle donne attraverso l’adozione di forme femminili; dall’altra, esiste ancora una resistenza legata a questioni di tradizione e preferenze linguistiche.
Come accenato nel primo capitolo, Giorgia Meloni stessa si è espressa più volte sulla questione, preferendo il titolo il Presidente. Questo può essere interpretato in vari modi: da un lato, potrebbe essere una scelta personale che riflette la sua visione della carica come neutra e non legata al genere; dall’altro, potrebbe rispecchiare una posizione politica in cui il linguaggio di genere non svolge un ruolo importante. Anche l’Accademia della Crusca ha affermato che entrambe le forme, il Presidente e la Presidente, sono grammaticalmente corrette. Anche se La Crusca riconosce che l’uso di forme femminili come la ministra o la sindaca è perfettamente legittimo e conforme alle regole linguistiche della lingua italiana, sottolinea che la scelta dell’una o dell’altra forma dipende spesso da preferenze personali o istituzionali.
L’uso delle forme femminili nei titoli professionali e nei ruoli di prestigio è fortemente influenzato dalle preferenze individuali dei parlanti e delle persone che li ricoprono. Questo aspetto è fondamentale nel dibattito su questa questione linguistica. Queste scelte non solo riflettono l’identità e le esperienze personali delle donne, ma contribuiscono anche a plasmare la percezione sociale e le norme linguistiche. I prossimi due sottocapitoli mostreranno come questa scelta si rifletta in diversi giornali online e altre piattaforme di social media.
Un’analisi preliminare delle versioni online dei quotidiani Il Giornale e Il Messaggero, nel periodo successivo all’elezione di Giorgia Meloni, fa vedere un uso piuttosto contraddittorio delle forme femminili e maschili riferite alla Meloni. Ne Il Giornale, l’iniziale uso omogeneo dell’appellativo maschile Il Presidente o Il Premier, che sembrava relativamente coerente, non si è affatto verificato in seguito [cf. ad es. (1)], mentre Il Messaggero ha usato le forme maschili e quelle femminili in modo del tutto incoerente fin dall’inizio. Alcuni articoli hanno utilizzato le forme maschili Il Premier/Il Presidente, altri invece quelle femminili La Premier/La Presidente, e c’erano persino casi in cui le forme maschili e quelle femminili si alternavano nello stesso articolo. Un esempio di quest’ultimo è un post su Instagram del giornale Il Messaggero [cf. (2)].
[…] Gli attacchi al governo e al premier in questi mesi sono stati tanti: dalle stoccate alla sinistra sull’accordo firmato con l’Albania fino alle accuse di ‘’incorenza’’ lanciate ai sindacati, il premier Meloni prova a smascherare i paradossi interni alla sinistra. Per non parlare degli insulti personali subiti dalla premier nell’arco di quest’anno. L’espressione utilizzata da Meloni è forte, “senza pietà”, ma coglie perfettamente il punto: il gusto di attaccare la sfera privata della leader di Fratelli d’Italia è un vizio che purtroppo è rimasto dalle parti delle opposizioni mediatiche e politiche. La forza di volontà del primo ministro è invidiabile […] (Il Giornale, il 6 dicembre 2023)
Un improvviso blackout interrompe per pochi secondi la conferenza stampa congiunta dal premier Giorgia Meloni e del Presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Visti i tempi di guerra, qualche giornalista in sala si alza in piedi, spaventato dal buio improvviso. Al ritorno della luce, venuta meno per una maciata di secondi, in mancanza della traduzione simultanea delle parole del presidente ucraino la premier si improvvisa traduttrice e riporta in inglese una domanda di un giornalista italiano aggiungendo scherzando: ‘presidente operaio’, e ridendoci su con Zelensky. (Il Messaggero, il 21 febbraio 2023)
In questo testo (2), il nome premier appare due volte con riferimento a Giorgia Meloni, una volta al maschile, del premier Giorgia Meloni, l’altra volta, invece, al femminile, la premier si improvvisa traduttrice. Come già accennato in precedenza, l’uso di certe forme non è solo una questione morfologica, dato che il sistema linguistico italiano fornisce una risposta chiara a proposito della formazione dei termini femminili ma, nella realtà, questi fenomeni prettamente linguistici si intersecano anche con fattori esterni alla lingua. Sul piano testuale l’alternanza incoerente delle forme femminili e maschili può generare confusione e rendere difficile per il lettore comprendere le intenzioni dell’autore.
Negli ultimi anni il dibattito sull’uso delle forme femminili dei nomi di professione ha assunto toni sempre più accesi, coinvolgendo accademici, linguisti, istituzioni e parlanti sui social. Questa discussione, che può sembrare in apparenza solo una questione linguistica, ha invece profonde implicazioni sociali e culturali.
Per capire cosa pensano i parlanti riguardo a questa questione, ho analizzato la sezione dei commenti sotto il post, pubblicato su Facebook, del quotidiano La Repubblica (Meloni va chiamata “il signor presidente del Consiglio”: la comunicazione di Palazzo Chigi ai ministeri, il 28 ottobre 2022.). Ho utilizzato questo metodo qualitativo per cogliere le prospettive dei parlanti stessi sui significati sociali, prendendo in considerazione gli atteggiamenti e i commenti della gente comune sulla realtà linguistica e sociolinguistica che li circonda (cf. Rymes & Leone, 2014). In questa sede, ho focalizzato la mia attenzione su quei commenti che rifiutano le forme femminili di nomi indicanti professioni e ruoli di prestigio, allo scopo di individuare le ragioni che ne stanno alla base. Tenendo conto di questo criterio, si possono utilizzare le seguenti categorie per classificare le opinioni di rifiuto espresse nei commenti:
Alcuni commentatori valutano questi cambiamenti linguistici come non necessari, in quanto sono termini che dividono le persone anziché unirle. A loro avviso, non è importante la forma ma la sostanza. In effetti, ritengono che sarebbe meglio lavorare sull’uguaglianza di diritti piuttosto che sui nomi, ovvero, asseriscono che l’uguaglianza può essere dimostrata dai fatti, non dai nomi, e che il genere grammaticale è un fattore secondario, in quanto esistono problemi più urgenti da risolvere [cfr. (3), (4), (5)].
Bene e con questo penso si possa ritenere chiusa la questione e si possa passare ad affrontare questioni sierie per il paese.
A mio parere si potrebbe far chiamare anche pinco pallino. Soffermiamoci sulla sostanza piuttosto che sulla forma (anche se a volte la forma è indicativa della sostanza. in questo caso vogliamo psicanalizzarla??) Vediamo cosa fa. Le prime avvisaglie non mi sembrano buone
Saran ben poi affari suoi. Anche il Sindaco del mio paese di origine voleva essere chiamato “Il Sindaco”, anche se era del Pd. Piantatela con queste polemiche del nulla…
Questa seconda categoria, come si può vedere nei commenti (6) e (7), è legata al precedente benaltrismo, tuttavia include anche il diritto di libera scelta, secondo il quale, in tali questioni linguistiche, in questo caso per quanto riguarda i nomi professionali, la persona ha la libertà di scegliere tra forme maschili e femminili.
fossero queste le cose importanti!!! Ha il diritto di fare le sue scelte linguistiche, anche in considerazione del fatto che la lingua italiana è contaminata, oltre ogni misura, dalla lingua inglese
Ognuno è libero di scegliere come crede!! In bocca al lupo al signor presidente Giorgia Meloni!!!
I nomi di professione non hanno il genere: un’idea ricorrente da parte dei commentatori, per quanto riguarda i nomi di professione, è la presenza del cosiddetto neutrum. Ciò si nota, soprattutto, nel caso di nomi che denotano posizioni di prestigio. In questi commenti [cf. ad. es. (8)], il supposto neutrum, che non “specifica” il genere, guadagna terreno proprio perché tali nomi non sono percepiti come nomi che denotano persone, ma come nomi che denotano meramente cariche, ruoli o professioni, e le professioni non hanno genere. Va notato, però, che il problema di questo assunto è che quello che si concepisce come neutro è, in realtà, maschile inclusivo poiché non esiste il genere neutro in italiano.
In alcuni commenti, spesso le donne stesse hanno espresso la loro preferenza per la forma maschile [cf. (9)]. Alcune donne credono che l’introduzione forzata di queste nuove forme femminili come, per esempio, sindaca, ministra, assessora, siano solo di “moda”. Privilegiano le forme maschili perché ritengono che quelle femminili siano degradanti e ciò accade in molti contesti, per esempio, giuridico (cf. Gheno 2020) e calcistico (cf. Gheno 2021), in cui la forma maschile viene considerata come corretta, regolare. Lepschy (1989) afferma: “Che le donne abbiano pari opportunità di diventare ministri è infinitamente più importante del fatto che siano chiamate ministre o ministri, ma ciò non elimina la questione né la rende irrilevante. È di fatto possibile sostenere che, una volta che esista la possibilità istituzionale per le donne di occupare certe funzioni, la mancanza di termini appropriati per indicare quelle funzioni quando sono svolte dalle donne, è uno degli elementi culturali che, per quanto marginalmente, possono essere di intralcio ai loro progressi.”
Una parte dei commenti favorevoli alla scelta della Meloni ritengono che l’introduzione forzata di forme femminili sia legata all’ideologia femminista e la collegano all’attività dell’ex presidente della Camera dei deputati, Laura Boldrini [cf. (10), (11)].
Le boldrinate finalmente sono terminate.
Basta con queste idiozie della sindaca, assessora, ministra, presidenta, capastaziona, prefetta e simili boldrinate
In commenti sotto altri post, nell’ambito della questione delle desinenze, si può notare una grande confusione riguardante le categorie della costruzione delle forme femminili dei nomi di professione. Nella fattispecie, a volte non si capisce perché, per esempio, assessore, che finisce in –e, debba essere assessora al femminile, mentre presidente rimane tale. In questi commenti, però, appare solo la presidentessa, come un possibile concorrente della forma la presidente [cf. (12)]. Il motivo per cui i linguisti, in generale, sconsigliano l’uso di nomi femminili contrassegnati da –essa è che il suffisso stesso è stato storicamente associato ad una connotazione negativa, con un significato degradante e diminutivo (cf. Thornton 2004: 223–224).
Ritengo importane ricordare che, quando si rifiutano le nuove forme femminili, spesso compare come motivo la cacofonia (cf. Kadvány 2022: 275). La ragione per cui questo fenomeno non compare in questa sezione di commenti potrebbe essere il fatto che presidente è, in realtà, un nome di genere comune, per cui non cambia desinenza, non viene aggiunto alcun suffisso, ma cambia solo l’articolo.
Nonostante la correttezza morfologica delle forme femminili dei nomi di professione, si può constatare che il loro uso è ancora caratterizzato da una significativa eterogeneità nella lingua, anche se sono passati quasi quarant’anni dall’appello per l’abolizione della discriminazione linguistica a livello statale in Italia. I cambiamenti devono riflettere l’uso pubblico, se le forme femminili non vengono adottate in modo esteso dai parlanti, il loro uso rimarrà limitato, anche se sono grammaticalmente corrette. La lingua è un fenomeno sociale e il suo cambiamento avviene principalmente attraverso pratiche comuni piuttosto che attraverso decreti ufficiali.
Abbiamo visto che questo aspetto della lingua italiana è ancora oggetto di polemiche da parte dei linguisti e dei parlanti. I commenti dei parlanti evidenziano che la questione è complessa e suscita opinioni diverse. Alcuni potrebbero vedere l’uso delle forme femminili come necessario per la parità di genere, mentre altri potrebbero rimanere ancorati a forme maschili per motivi di tradizone o percezioni di autorità.
Se poniamo la domanda: è una questione morfologica? La risposta è, in realtà, negativa, perché le forme femminili di questi nomi sono previste dalla morfologia dell’italiano. È una questione di politica linguistica? La riposta potrebbe essere sì, la questione è indubbiamente anche di politica linguistica, poiché le decisioni riguardo a quali forme utilizzare possono avere impatti significativi sulle percezioni di genere e sulla parità nella lingua. Le scelte linguistiche dei personaggi pubblici possono fungere da indicatori e modelli per la società. Poiché le opinioni sono così variegate e il tema è così legato a questioni di identità e rappresentanza, è probabile che il dibattito sull’uso delle forme femminili rimarrà aperto per molti anni.
Corbett, G. G. (1991): Gender. Cambridge: Cambridge
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Corbett, G. G. (2006): Agreement. Cambridge: Cambridge University Press.
Dardano, M. & P. Trifone (1995): Grammatica italiana. Con nozione di linguistica, vol. III. Bologna: Zanichelli.
Frati, A. (2023): La presidente dell’Accademia della Crusca: Ancora sul femminile professionale. Italiano digitale 24(1): 182–183. https://doi.org/10.35948/2532-9006/2023.27976
Gheno, V. (2020): Si dice avvocata o avvocato? Il dibattito è aperto… Ma per la sociolinguista non ci sono dubbi: “Si dice avvocata”. Intervista da: Francesca Spasiano. Il Dubbio, 3 settembre 2020, https://www.ildubbio.news/2020/09/03/si-dice-avvocata-o-avvocato-il-dibattito-e-aperto-ma-per-la-sociolibguista-non-ci-sono-dubbi-si-dice-avvocata/.
Gheno, V. (2021): Quali parole usare nel calcio femminile? Intervista alla sociolinguista Vera Gheno. Intervista da: Giulia Beghini. L Football – Il Magazine del Calcio Femminile, 1 aprile 2021, https://www.lfootball.it/2021/04/linguaggio-di-genere-calcio-femminile-intervista-vera-gheno.
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L’intero testo: “Con riferimento alla nota in oggetto, con la quale è stato comunicato quale appellativo da utilizzare per il Presidente del Consiglio la dicitura ‘il Signor Presidente del Consiglio dei Ministri’, si precisa che tale formula è stata adottata dagli uffici della Presidenza in quanto indicata come la più corretta dall’Ufficio del Cerimoniale di Stato e per le Onorificenze. Tuttavia, il Presidente del Consiglio, On. Giorgia Meloni, chiede che l’appellativo da utilizzare nelle comunicazioni istituzionali sia ‘Il Presidente del Consiglio dei Ministri’. Si chiede, quindi, di non tener conto della nota in oggetto, in quanto sostituita dalla presente” (Pagella Politica, 13 marzo 2022).↩︎