Verbum – Analecta Neolatina XXIV, 2023/2

ISSN 1588-4309; https://doi.org/10.59533/Verb.2023.24.2.9



Nei momenti storici in cui l’Ungheria, uscita mutilata di due terzi del proprio territorio dopo la prima guerra mondiale, ha guardato con nostalgia al proprio passato per trovare – non sempre felicemente – motivi di rinnovato orgoglio nazionale, il castello di Esztergom si è sempre posto come elemento di quasi antonomastico coagulo di tali pulsioni. Avvenne nel 1934‑1935, allorché esso venne restaurato sotto la direzione di Mario Pellicioli (si trattò di un recupero, con ampie ricostruzioni, dall’alto valore simbolico, dallo stato di rovina in cui versava fondamentalmente dal 1595, allorché esso venne in gran parte distrutto dagli assedianti ottomani). Avviene di nuovo in questo frangente, dopo un ulteriore – e ovviamente molto più filologico – restauro, coordinato questa volta da Zuszanna Wierdl, in un contesto di ripristino della facies “monarchica” che sta cambiando in modo molto profondo il volto della stessa capitale Budapest (mi pare certo che il restauro del castello di Esztergom e il “progetto Hauszmann nel quartiere del Castello a Buda costituiscano aspetti di una medesima politica culturale). Al termine dei lavori, nel 2018, venne organizzato un convegno del quale il volume in esame presenta gli atti.

Diventato sede dell’arcivescovo di Esztergom, primate d’Ungheria, il castello conobbe il suo momento di maggior fulgore sotto l’episcopato del grande umanista János Vitéz, eletto nel 1465. La cultura ungherese al tempo del re Mattia Corvino era legatissima a Firenze: sono ben note le committenze dello stesso re (ricordato in un gustoso aneddoto nel Libro di pittura di Leonardo) ad Andrea del Verrocchio per il castello di Buda, così come fiorentino era il suo storiografo ufficiale, Antonio Bonfini. Logico quindi che l’iconografia dello studiolo privato dell’arcivescovo presenti una iconografia tipicamente umanistica (le quattro virtù, lo zodiaco e probabilmente un planetario), e soprattutto che, per quanto impervia risulti la lettura dello stile di quanto è sopravvissuto di tale decorazione, la lingua espressa dai superstiti affreschi dello studiolo di Esztergom, con le immagini delle Virtù, appaia tipicamente fiorentina nella declinazione degli anni Sessanta, sulle orme di Filippo Lippi.

La figura di Vitéz, primate e cancelliere del re, fondatore dell’Accademia Istropolitana (una università strutturata sul modello di quella di Bologna), viene indagata in dettaglio, con passione e dottrina, da Mária Prokopp, oltre che da Edina Zsupán in un dottissimo contributo sulle glosse dello stesso arcivescovo apposte sui propri volumi, e in particolare su un Plinio manoscritto, oggi a Vienna. Konstantin Vukov si dedica invece alla lettura architettonica dello spazio dello studiolo, proponendone una ricostruzione virtuale, e Zsuzsanna Wierdl a una lettura tecnica per così dire multifocale degli affreschi: ne viene infatti descritta la tecnica, al netto di quanto aggiunto dai restauri degli anni Trenta, illustrando al contempo la metodologia dell’intervento attuale. Una volta individuatane la matrice fiorentina e lippesca, Prokopp, Vukov e Wierdl (a cui si aggiunge Cristophe Poncet, che scrive su alcune possibili fonti iconografiche – plausibilissime ma a dire il vero abbastanza ovvie) si pronunciano in modo molto netto a favore di una coraggiosa attribuzione degli affreschi istropolitani al giovane Botticelli in persona. I confronti proposti sono indubbiamente suggestivi anche se non riescono a risultare davvero definitivi, così come gli argomenti tecnici, in quanto il modus operandi del pittore di Esztergom è comune a Botticelli ma anche agli altri pittori della medesima estrazione culturale (nemmeno l’interpretazione di un graffito con la sigla M B come “[Sandro di] Mariano Botticello”, credo possa costituire un argomento decisivo). Si fa ancora osservare che negli anni in cui verosimilmente gli affreschi vennero realizzati non abbiamo documenti su Botticelli e questo potrebbe costituire l’indizio di un suo momentaneo trasferimento lontano da Firenze; ma di converso si potrebbe anche pensare che una avventura tanto “esotica” sarebbe stata ricordata dai suoi biografi, da Antonio Billi a Vasari. Sia come sia, lo stato comunque assai depauperato di questi pur pregevoli affreschi sconsiglia a mio avviso di pronunciarsi, per lo meno allo stato attuale delle nostre conoscenze, su una attribuzione “secca” (altra cosa è una ipotesi di lavoro, problematica ma seducente). I dati filologici avanzati in queste pagine rimangono in qualunque modo di grande importanza per accertare, al di là di ogni dubbio, l’origine fiorentina e il probabile apprendistato presso Filippo Lippi del pittore attivo per János Vitéz: se non Botticelli, un suo probabile condiscepolo.

Dopo questa ampia sezione monografica, il volume prosegue opportunamente con una panoramica sul fenomeno degli studioli in Italia e in Europa, introdotta da un denso saggio di Luitpold Frommel in cui si spazia dalla rappresentazione pittorica di studioli, spesso popolati da santi umanisti (si pensi ai due affreschi raffiguranti San Gerolamo e Sant’Agostino in Ognissanti a Firenze, opera rispettivamente di Ghirlandaio – imitazione di un dipinto di Jan van Eyck oggi a Detroit – e di Botticelli, o al San Gerolamo di Antonello da Messina), fino al programma iconografico della cosiddetta Stanza della Segnatura, con le sue modifiche dettate dall’urgenza politica delle vicende del papa Giulio II. Lo “studiolo” non era sempre, specificamente, una stanza: poteva trattarsi di un piccolo prefabbricato, e così lo rappresentano i dipinti appena menzionati: ma è anche il caso, a esempio, dell’ “armarium” di Arduino da Baiso, realizzato nel 1413‑1414 per il signore di Lucca, Paolo Guinigi, e poi donato nel 1434 a Leonello d’Este, che lo fece trasportare a Mantova e ricollocare dallo stesso Arduino. La stessa scena si ripeté nel 1446, quando Leonello acquistò a Mantova uno “studio…bellissimo e grande” già appartenuto ai Gonzaga, e lo fece collocare, sempre da Arduino, nella delizia di Belriguardo. Ma nel frattempo, 1441, Leonello, ormai assurto al ruolo di marchese, aveva già dato il via alla realizzazione dello studiolo di Belfiore, destinato a diventare uno dei modelli di riferimento (con la “libraria” ancora opera del da Baiso, gli intarsi dei fratelli Lendinara e i dipinti, raffiguranti le Muse, di Angelo Maccagnino, Cosmè Tura e Michele Pannonio). Negli anni Settanta del Quattrocento saranno poi Ercole d’Este, diventato il primo duca della famiglia estense, e la moglie Eleonora d’Aragona, a realizzare due “studi” ancora più ambiziosi: in particolare quello di Eleonora desta attenzione per essere uno dei primi “al femminile”, e con raffigurazioni, per mano di Ercole de’ Roberti, di eroine dell’antichità.

Dopo questa importante mappatura ferrarese, dovuta a Marco Folin, si prosegue con affondi su altre realtà territoriali e persino cronologiche. Per esempio è il caso dell’intervento di Valentina Conticelli, che illustra il caso ben noto dello studiolo di Francesco I de’ Medici, realizzato a Palazzo Vecchio, a Firenze, tra 1569 e 1576, exemplum di decorazione manierista e di cultura raffinatamente enciclopedica ed esoterica; lo stesso gusto che porta, di lì a poco, alla ben altrimenti innovativa creazione della tribuna degli Uffizi, nata come spazio per una Wunderkammer ma diventata topos irrinunciabile per molti musei a venire.

Sconcertante (in senso positivo) è poi il saggio di Hervé Moullebouche, che dimostra come la corte dei duchi di Borgogna, così influente nella cultura quattrocentesca europea (e italiana in particolare), non conobbe per tutto il XV secolo, e anche oltre, alcun vero e proprio “studiolo”, ma solo librerie e stanze da lavoro, pragmaticamente allestite ma prive del valore ideale e ideologico dello studiolo italiano.

Segue un blocco di tre saggi di argomento francese. Pierre-Gilles Girault si focalizza sugli studioli del re Francesco I (dei quali sopravvive solo quello nel castello di Blois). Il cui modello era quello di Carlo V nel castello di Vincennes, più dei prototipi italiani. Ma nella terminologia delle fonti, così come nell’uso concreto, il termine utilizzato è “cabinet”, dall’accezione più ampia rispetto all’italiano “studio” o “studiolo”. Xavier Pagazani esplora il caso del successore Enrico II e del castello progettato da Philibert Delorme per Diana di Poitiers ad Anet. Attraverso una complessa rilettura dei documenti, Pagazani giunge a identificare nell’ala sinistra del castello (invece che nella destra, come tradizionalmente ritenuto) il famoso cabinet del re, e a isolare diverse fasi realizzative e due diversi ambienti: uno, piccolo, dedicato ai propri otia, alla preghiera e ai colloqui più riservati, adiacente alla camera da letto del re, e un altro più grande al piano superiore, con la funzione di biblioteca privata. Questa scansione non è troppo diversa da quella dei tre locali fatti realizzare dallo stesso Enrico II nel palazzo del Louvre: una più grande sala per le udienze e due mezzanini con stanze più piccole, rispettivamente stanza da letto o da colloqui privati, e raccolta di oggetti preziosi (di questi ambienti al Louvre si occupa qui Jean Guillaume).

Dopo Esztergom, l’Italia e la Francia, il volume si completa con interessanti interventi panoramici sul tema dello studiolo in Inghilterra (Maurice Howard), in Spagna (Maria José Redondo Cantera), e con una introduzione all’affascinante Libro dell’arte della mercatura scritto nel 1458 da Benedetto Cotrugli. In esso, indagato qui da Nadia Grujić, in cui per la prima volta, e a date ancora abbastanza alte, anche il ceto borghese rivendica l’utilizzo, accanto allo “scriptore or scrittoio comune”, usato per gli affari, di uno “scriptoreto separato or studiolo a parte”, dedicato esplicitamente all’amore per i libri e agli otia umanistici, rimandandoci nuovamente alle immagini pittoriche da cui, con Luitpold Frommel, eravamo partiti.

Chiude la silloge un ampio saggio di Sabine Frommel (autrice anche dell’introduzione generale) dedicato al pensiero di Sebastiano Serlio sul tema dello studiolo: nutrito degli esempi ferraresi e urbinati, aggiornato sugli exploits romani di Raffaello, Baldassarre Peruzzi e Antonio da Sangallo il Giovane, Serlio, una volta trasferitosi in Francia nel 1541, dovette confrontarsi con i diversi modelli di cabinet francese: ne conseguì una tipologia innovativa, sperimentata nel palazzo Grand Ferrare di Ippolito d’Este e nel castello di Ancy-le-Franc, a sua volta sottoposta a numerose variazioni nel Sesto e nel Settimo libro del suo Trattato. La linea di Serlio, tuttavia, non riuscì a originare una vera tradizione, come fu il caso invece dei progetti di Delorme e di Pierre Lescot.

In conclusione si può dire che l’insieme di questi atti costituisce un volume ricco, affascinante e per molti versi innovativo, anche se, inevitabilmente, non onnicomprensivo (in futuro, per esempio, si dovrà parlare, anche in modo comparativo, dello studiolo del castello di Voghera, affrescato da Bramantino entro la metà degli anni Novanta del Quattrocento (o, secondo alcuni, nel 1502‑1503 e proprio per un committente francese, il che, alla luce di quanto sopra scritto sugli studioli d’oltralpe, pare non troppo persuasivo), o delle Muse già in Casa Fontana Silvestri a Milano. Un piccolo dispiacere è dato dall’assenza nelle bibliografie del libro di Ugo Rozzo, Lo studiolo nella xilografia italiana, del 1998, che avrebbe ulteriormente una bibliografia che, nel complesso, si pone comunque come punto di riferimento sul tema degli studioli rinascimentali.


  1. Budapest: Hungarian National Museum, 2022, 421 pp.↩︎